Originario della cittadina di Ma‘arra in Siria, il poeta-filosofo Abû l-‘Alâ’ lascia trasparire, in un’epistola erudita e sarcastica, un’interrogazione radicale sulle religioni storiche e sulla loro superabilità. Il suo non è un caso isolato nel turbolento secolo che precede le crociate. Un viaggio ultraterreno che conserva tutta la sua attualità.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:42

Ci sono opere che sono famose per il motivo sbagliato. L’Epistola del Perdono, capolavoro di Abû l-‘Alâ’ al-Ma‘arrî (973-1058), è una di queste. La sua fama in Occidente è legata al fatto che avrebbe ispirato la Commedia dantesca, una supposizione vecchia quasi cent’anni e rivelatasi priva di fondamento per la lontananza culturale e spirituale tra i due autori. Ma se un influsso su Dante è da escludere, che interesse può avere oggi questo testo da cui ci divide un millennio e un contesto culturale radicalmente differente? L’Epistola è un testo satirico di prima grandezza, caratterizzato da un andamento teatrale piuttosto inusuale per la letteratura araba. Attraverso i suoi molteplici livelli di lettura, affronta il tema cruciale della capacità di certezza della ragione, in particolare nelle materie di fede. Malgrado la sua proverbiale difficoltà, il testo e il suo autore hanno ispirato numerosi pensatori contemporanei, a cominciare dall’egiziano Taha Hussein (1889-1973), campione del Rinascimento arabo. Per queste ragioni, l’Epistola appartiene a buon diritto al patrimonio della letteratura universale.

 

Nel giardino del perdono

Cieco fin dall’infanzia, vegetariano di stretta osservanza (oggi lo definiremmo “vegano”), al-Ma‘arrî sfugge a ogni classificazione. Asceta rigoroso, dedito al digiuno diurno perpetuo, assunse spesso atteggiamenti eccentrici. Recluso dal mondo (negli ultimi 50 anni di vita uscì di casa una volta soltanto), visse attorniato di discepoli. Fu pio predicatore, ma forse anche sacrilego imitatore del Corano. L’Epistola del Perdono non si sottrae a questa impressione sfuggente. Tutti concordano su un dato di fatto: è un testo satirico. Ma satirico di chi e di che cosa esattamente? La riposta immediata è facile. L’Epistola, composta verso il 1033, si presenta come la risposta allo scritto di un letterato del tempo, un certo Ibn al-Qârih. Il personaggio, che non godeva di buona fama presso al-Ma‘arrî, versava in gravi difficoltà economiche. Concepì allora l’idea di andare a trovare il poeta. Un amico gli fornisce delle lettere di presentazione, che però gli sono rubate ad Aleppo. Malato, in una città straniera, vecchio e senza amici, Ibn al-Qârih decide di rivolgersi direttamente ad al-Ma‘arrî inviandogli una missiva abbastanza lunga, in prosa rimata. Dietro un linguaggio involuto e reticente, si indovinano due finalità: dissipare l’opinione negativa che al-Ma‘arrî si era fatto del suo corrispondente e sollecitare un sostegno economico.

In risposta al-Ma‘arrî compone la sua Epistola del Perdono, che si articola in due parti ben distinte. Nella seconda, riprendendo punto per punto i temi sviluppati dal suo corrispondente, al-Ma‘arrî si sofferma sul tema degli eretici e dell’eresia, di cui si dichiara implacabile fustigatore. Non una parola è spesa riguardo a un possibile sostegno economico. Tuttavia è soprattutto nella prima parte dell’Epistola che la fantasia del poeta trova libero corso. Affrancandosi dalla necessità di seguire il corrispondente nelle sue continue digressioni, il poeta costruisce un vero e proprio viaggio ultraterreno.

Dopo un fiorito prologo in cui fa sfoggio d’erudizione, al-Ma‘arrî immagina che Ibn al-Qârih, nel frattempo morto, sia stato ammesso per i suoi meriti letterari a godere delle delizie del Paradiso. La narrazione si sviluppa apparentemente senza un piano organico. Inizialmente al-Ma‘arrî fantastica che la preziosa epistola di Ibn al-Qârih, per le belle parole che contiene, si sia trasformata in una scala che conduce al Paradiso. Costruito un elaborato fondale attraverso la descrizione degli alberi, dei fiumi, delle brocche, del vino, del miele e dei pesci del Paradiso, al-Ma‘arrî «quasi s’immagina» che Ibn al-Qârih si ritrovi in compagnia di letterati e poeti. Catapultato nel nuovo mondo, a Ibn al-Qârih «salta in mente [...] di fare una cosa che nella Dimora caduca si chiamerebbe passeggiata».

Così prendono avvio una serie di avventure e incontri, che conducono l’anziano letterato fino ai margini del Paradiso, dove risiedono quei Jinn (genii) che hanno abbracciato la fede musulmana. Da un costone a strapiombo sull’Inferno Ibn al-Qârih ha modo d’interrogare alcuni famosi poeti avvolti dalle fiamme, i quali però non lo degnano di grande attenzione, essendo presi da ben altre preoccupazioni. Fa perciò ritorno in Paradiso dove, dopo alcuni ulteriori incontri e un ultimo diverbio, stabilisce la sua residenza «per sempre in eterno, beato per tutti i secoli felice, senza più conoscere il male».

Che il personaggio di Ibn al-Qârih sia tratteggiato in chiave satirica è l’unico punto indubitabile dell’Epistola e della sua prima parte in particolare. L’anziano letterato è presentato come un pedante che, invece di godersi le gioie del Paradiso, si sente in dovere d’infastidire i suoi compagni a ogni piè sospinto con astruse questioni filologiche che più di una volta rischiano di degenerare in violenti litigi. Ad accrescere la dimensione comico-satirica del testo provvedono anche le esagerate eulogie che accompagnano ogni menzione del «nostro signore lo shaykh glorioso», riproponendo implicitamente le iperboliche lodi concepite da Ibn al-Qârih, e rivelando al tempo stesso in quale considerazione le tenesse al-Ma‘arrî.

Per altro verso, il titolo dell’Epistola rimanda al perdono divino, che si rivela più largo delle strette maglie della teologia e della giurisprudenza dell’epoca. In Paradiso si trovano infatti molti poeti pagani e cristiani (purché anteriori alla venuta dell’Islam), a volte salvati per un unico verso ben concepito, e anche i musulmani sono spesso personaggi non irreprensibili. Ripresosi dallo stupore iniziale, Ibn al-Qârih concepisce perciò «speranza di salvezza per molti poeti delle diverse categorie». Mancano in compenso figure religiose, giacché il Paradiso di Ibn al-Qârih è costituito unicamente da letterati, grammatici, poeti, musici e cantanti. Di asceti e santi, tradizionisti e teologi, nemmeno l’ombra. Alla tematica del perdono si collega l’invito al pentimento rivolto a Ibn al-Qârih che secondo Gregor Schoeler rappresenterebbe «la chiave per la comprensione dell’intera opera»[1].

 

Una domanda maliziosa

Tuttavia, leggendo il testo, non si può fare a meno di chiedersi se la satira di al-Ma‘arrî non prenda di mira anche (e forse soprattutto) le rappresentazioni popolari del Paradiso islamico. Il meccanismo si attiva attraverso l’interpretazione rigorosamente letterale dei passi coranici riferiti all’Aldilà. In effetti il Libro Sacro dell’Islam, a differenza dei due Testamenti, contiene un numero abbastanza considerevole di versetti dedicati alla descrizione della vita futura dei beati e dei dannati. In generale la teologia, dopo aver a lungo oscillato tra letteralismo antropomorfista e interpretazione allegorica, ha concluso che tali passi escatologici, al pari delle descrizioni di Dio in termini umani che ricorrono in alcuni versetti coranici, debbano essere accettati nella loro realtà senza tuttavia che sia possibile stabilire alcuna somiglianza tra di essi e gli oggetti terreni designati con i medesimi termini.

È la dottrina del bilâ kayf (“senza come”), prevalente in ambito sunnita, mentre nel mondo sciita è stata privilegiata la lettura simbolica e spiritualizzante, che ha generato i complessi universi della teosofia illuminazionistica. Ciò non ha impedito alla fantasia popolare di ricamare sulle descrizioni coraniche, ricche di particolari evocativi come i nomi degli Inferni o il numero degli Angeli guardiani, giungendo a elaborare una complessa visione escatologica. Facendo mostra di scrupolosa aderenza alle credenze popolari, al-Ma‘arrî ne mette in luce gli elementi di inverosimiglianza. Cadono sotto la sua ironia prima di tutto le belle urì, le vergini promesse ai beati, ma non da meno sono gli efebi, i coppieri eternamente giovani che fungono da solerti inservienti nei continui banchetti con cui i beati ammazzano il tempo, trattenendosi a tavola per millenni e millenni. Sul loro ambiguo statuto indaga il demonio che, dal profondo dell’Inferno, domanda a Ibn al-Qârih se i beati si comportino con questi fanciulli come gli abitanti delle città di Sodoma e Gomorra, ottenendo peraltro una sdegnata risposta negativa. Rispetto al Paradiso, l’Inferno ma‘arriano è quasi privo di analoghe invenzioni teatrali, che per inciso rappresentano quasi un unicum nella letteratura araba colta. Tuttavia sul finale il tono ritorna scherzoso, grazie all’incontro di Ibn al-Qârih con due serpi, una delle quali si dimostra grande esperta di varianti del testo coranico. Il suo fascino non è comunque tale da spingere Ibn al-Qârih a giacere con lei come essa desidererebbe.

Oltre ai personaggi, anche alcuni elementi escatologici sono implicitamente posti in ridicolo. È il caso soprattutto del Sirât, la misteriosa “strada” che la tradizione islamica colloca come elemento centrale nel paesaggio oltremondano. Nei racconti popolari esso diventa un ponte teso sopra l’Inferno, sottile quanto un capello o una lama di spada. Se i dannati precipitano immancabilmente nelle fiamme sottostanti, anche per i beati la traversata non è facile: i musulmani peccatori avanzano molto lentamente verso la Beatitudine eterna, esposti alle intemperie come in una sorta di Purgatorio. Che il terribile Sirât delle leggende sia traversato da Ibn al-Qârih in spalla a una urì, cui trova il tempo di citare un insulso verso di un oscuro poeta della provincia siriana, produce una differenza di potenziale da cui scocca inesorabile la scintilla del comico. In realtà, quasi nessuno mette in dubbio l’esistenza dei tratti satirici fin qui elencati e dei molti altri che si potrebbero aggiungere. La divergenza riguarda piuttosto il termine cui applicarli. Per l’egiziana Bint al-Shâti’ (1912-1998), cui si deve la magnifica edizione critica dell’Epistola, bersaglio del sarcasmo sarebbe ancora una volta Ibn al-Qârih. Il Paradiso, infatti, sarebbe visto attraverso gli occhi di Ibn al-Qârih e nella sua meschinità rimanderebbe alla ristrettezza di vedute del corrispondente di al-Ma‘arrî. Nulla sarebbe invece detto sul Paradiso islamico in quanto tale.

Questa osservazione peraltro non cancella l’impressione che al-Ma‘arrî abbia inteso prendere di mira non solo Ibn al-Qârih, ma anche le credenze di molti suoi contemporanei che con lui condividevano una concezione smaccatamente edonistica e materiale del Paradiso. A conti fatti, l’elemento decisivo non è che il Paradiso sia o meno visto attraverso gli occhi di Ibn al-Qârih. La vera domanda è piuttosto perché nella sua architettura complessiva tale Paradiso risulti pericolosamente simile alle rappresentazioni del folklore popolare. Al-Ma‘arrî è scrittore troppo avvisato e padrone della sua arte per perdersi nei suoi stessi giochi di specchi: se Ibn al-Qârih è un personaggio satirico, qualsiasi cosa sia attratta nella sua orbita diventa per ciò stesso oggetto della medesima satira. La parodia risulta troppo assiale per poter essere ridotta a semplice elemento accessorio.

 

Tra senso apparente e celato

Il testo dell’Epistola consegna dunque un’immagine di al-Ma‘arrî critico delle dottrine religiose popolari – oltreché naturalmente dell’ipocrisia individuale – che si accorda con il resto della sua produzione letteraria. Per la verità, a mettere in discussione i dati della tradizione, nel “secolo sciita” dell’Islam, non ci pensa solo Abû l-‘Alâ’, quasi si trattasse di un caso isolato e al limite patologico, ma tutta una costellazione di movimenti politici-religiosi, tra i quali spiccano gli ismailiti e i carmati. I primi, muovendo dalle loro basi in Tunisia, nel 969 erano riusciti a conquistare l’Egitto instaurandovi la dinastia fatimide che dalle rive del Nilo stendeva il suo potere su Mecca e Medina, Gerusalemme e la Siria (compresa al-Ma‘arra). I carmati, invece, avevano conosciuto l’apice delle loro fortune politiche circa un secolo prima di al-Ma‘arrî, quando dal Bahrayn avevano lanciato un’insurrezione generale che era arrivata a saccheggiare la Mecca facendo strage di pellegrini. Benché i due gruppi fossero politicamente rivali, rimanevano accomunati dalla convinzione che fosse necessario oltrepassare il senso apparente della religione islamica (e delle altre religioni a essa precedenti) per accedere al loro significato profondo, detto in arabo bâtin: da qui è stato coniato il termine bâtiniyya, che raggruppa utilmente le due scuole politicamente nemiche, ma teologicamente affini.

Il cammino d’iniziazione della bâtiniyya, nelle sue diverse forme, passava attraverso la messa in discussione dei dati tradizionali. Ad esempio, i missionari ismailiti, organizzati in una rete di cellule segrete che coprivano buona parte del mondo islamico ed erano gerarchicamente collegate al “Predicatore supremo” installato al Cairo, cominciavano il reclutamento dei nuovi adepti sollevando insidiose questioni volte a mostrare le contraddizioni interne alle dottrine religiose ricevute. L’operazione era propedeutica al passo successivo: mostrare la necessità di una guida (in arabo Imâm) che svelasse l’autentico significato dei passi controversi, risolvendo aporie e contraddizioni. Tale guida – concludeva il missionario – era rappresentata dall’imâm fatimide, giacché Iddio non aveva lasciato sola la sua Comunità dopo la morte di Muhammad, ma continuava a guidarla attraverso una persona fisica, infallibile come già lo era stato il Profeta e, al pari di lui, depositaria del senso autentico della rivelazione.

Situati in questo contesto, alcuni episodi della vita di al-Ma‘arrî acquistano una luce diversa: secondo una notizia di uno storico, durante il suo giovanile soggiorno a Baghdad Abû l-‘Alâ’ avrebbe posto agli esperti di diritto alcune questioni imbarazzanti su talune contraddizioni del diritto penale e di successione. Tali questioni «figuravano in effetti tra quelle che la catechesi di ismailiti e carmati poneva all’iniziato, quale che fosse la sua religione d’origine, per condurlo, attraverso un dubbio metodico, ad aderire ai dogmi della setta, in particolare a quello dell’infallibilità dell’Imâm»[2]. Forse è un caso, ma molti anni più tardi al-Ma‘arrî riceverà una missiva del Predicatore Supremo ismailita e nel rispondergli se ne dichiarerà walî, termine centrale della fedeltà iniziatica[3]. Benché non sia possibile ricavare una dottrina coerente dalle affermazioni contraddittorie contenute nella sue meditazioni in poesia (Luzûmiyyât), uno dei pochi punti che emerge con chiarezza è il rifiuto del pellegrinaggio alla Mecca, dichiarato in più punti una pratica pagana. E proprio sul pellegrinaggio si appuntavano ancora una volta le critiche della bâtiniyya.

Situata in questo contesto più ampio, intravvisto da Massignon, «l’amarezza scettica delle Luzûmiyyât e del Ghufrân [L’Epistola del Perdono] non può più essere considerata come una singolarità individuale, ma attesta lo schiudersi in un terreno psichico favorevole dei germi di dubbio metodico e sarcasmo insurrezionale contenuti nell’insegnamento iniziatico delle società di pensiero ismailite»[4]. Tale terreno psichico favorevole, peraltro, non è legato soltanto alle vicende personali di al-Ma‘arrî, alla cecità o ai lutti che lo colpirono. È tutta la Siria del tempo a essere in subbuglio, contesa tra principati rivali ed esposta al pericolo della riconquista bizantina. In un contesto plurireligioso, nel quale ognuna delle maggiori famiglie spirituali è a sua volta divisa in sette concorrenti, emerge con forza dirompente la domanda de vera religione. L’ismailismo, figlio di questa singolare temperie, è in fondo un tentativo di conciliare le fedi storiche in una super-rivelazione riservata agli iniziati. Come scrive al-Ma‘arrî

Errano gli hanîf[5] e i cristiani non sono ben guidati; gli ebrei sono perplessi e i magi fuori strada. Due tipi vi sono di genti sulla terra: razionali senza religione e religiosi senza ragione[6].

Tre antinomie Ma attenzione: insistendo sul ruolo della bâtiniyya si descrive solo un aspetto della tormentata personalità del cieco di Ma‘arra. Cadrebbe in effetti ancora una volta nella trappola dell’unilateralismo chi volesse semplicemente ricondurre al-Ma‘arrî al movimento ismailita. Il poeta non si lascia ridurre a formule, siano pure i veli di una sfuggente dottrina iniziatica. In realtà egli fa propria la problematica ismailita, ma non la sua soluzione. Scrive a chiare lettere nelle Luzûmiyyât:

La gente spera che un Imâm parlante (nâṭiq) sorgerà nei muti ranghi. Vano pensiero! Non c’è altro Imâm che la ragione per fungere da guida al mattino e alla sera[7].

Non meno severa è la critica alle velleità rivoluzionarie carmate:

Quando si realizza la congiunzione astrale sperate in un Imâm, mal guidato; ma quando è passata, dite: “Sarà tra qualche anno”[8].

Ben oltre questi e altri simili passi, che in fondo potrebbero essere dettati da considerazioni politiche, è tutta la parte costruttiva, sul ruolo dell’Imâm e sulle complesse gerarchie delle sue epifanie a mancare completamente dalle opere di al-Ma‘arrî. La bâtiniyya agisce in lui come un potente solvente, ma non conosce alcun approdo positivo. Dopo tutto l’esercizio del dubbio metodico, consegnarsi mani e piedi al califfo del Cairo sembra ad Abû l-‘Alâ’ inconcepibile. Per il poeta, unico Imâm rimane perciò la ragione, dei cui limiti egli è peraltro consapevole. L’incessante meditazione approda così a tre insolubili dilemmi: immortalità dell’anima o sua corruzione insieme al corpo, libero arbitro o determinismo, provvidenzialità del male o sua assurdità.

Su queste alternative la ragione non è in grado di pronunciarsi, anche se al-Ma‘arrî appare piuttosto incline al pessimismo. Al tempo stesso egli mantiene fermo il principio dell’esistenza di un Dio personale e creatore in una forma di monoteismo ridotta all’essenziale, ma che sarebbe sbagliato ignorare in favore di un’immagine di al-Ma‘arrî “libero pensatore”, che rappresenta una forzatura dei testi uguale e contraria a quella di chi vuole farne un devoto anacoreta, pensosamente dedito a fustigare i cattivi costumi della propria epoca. Ismailita a metà, al-Ma‘arrî rimane piuttosto un testimone della forza corrosiva della bâtiniyya in un contesto religiosamente plurale e al tempo stesso dell’incapacità di tale movimento a costruire un nuovo universale concreto che prenda il posto delle religioni storiche. [Questo articolo rielabora il saggio introduttivo a L’Epistola del Perdono. Il Viaggio nell’Aldilà, 2011. Si ringrazia l’editore Einaudi per l’autorizzazione concessa]


[1] La citazione è tratta dall’introduzione alla traduzione tedesca (Al-Maʿarrī, Paradies und Hölle: die Jenseitsreise aus dem "Sendschreiben über die Vergebung", Beck, München 2002, 29).
[2] Henri Laoust, La vie et la philosophie d’Abû l-ʿAlâʾ al-Maʿarrî, «Bulletin d’Études orientales» 10 (1943-44), 128.
[3] Cfr. Elias S. Ghali, Le végétalisme et le doute chez Abul-ʿAlâʾ al-Maʿarrī, «Bulletin d’Études orientales» 32-33 (1980-81), 103-104. Sul significato di walî cfr. Mohammad-Ali Amir-Moezzi e Christian Jambet, Qu’est-ce que le shî’isme?, Fayard, Paris 2004, 38-39.
[4] Louis Massignon, Mutanabbî devant le siècle ismaélien de l’Islam, in Écrits mémorables, II, a cura di Christian Jambet, François Angelier, François L’Yvonnet e Souâd Ayada, Robert Laffont, Paris 2009, 647.
[5] Lett. “i puri monoteisti”, ma il termine è nella pratica quasi sinonimo di musulmani.
[6] Luzûm mâ lâ yalzam, II, 301 (Reynold A. Nicholson, Studies in Islamic Poetry, Cambridge University Press, Cambridge 1921, n° 239).
[7] Luzûm mâ lâ yalzam, I, 66 (Nicholson n° 109). Il concetto di Imâm parlante è centrale nell’ismailismo.
[8] Luzûm mâ lâ yalzam, I, 224-225 (Nicholson n° 112).

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