Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 23/05/2025 17:04:46

Sulla stampa araba continuano numerosi i commenti sulle prospettive della Siria, «ritornata alle sue radici arabe» dopo l’annuncio di Trump sulla revoca delle sanzioni. Questa svolta rappresenta per Damasco una preziosa occasione di riposizionamento nella regione e «conferisce all’Arabia Saudita un ruolo di primo piano nella riorganizzazione degli equilibri regionali dopo la fine dell’influenza iraniana», scrive su al-‘Arabi al-Jadid la scrittrice siriana Rania Mustafa. L’articolo sottolinea come gli interessi statunitensi in Siria coincidano con quelli di alcuni Paesi arabi – Giordania, Qatar ed Emirati in particolare – su questioni chiave come l’eliminazione della presenza iraniana, la lotta al traffico di Captagon e il controllo dei confini. Tra le condizioni poste da Trump per la rimozione delle sanzioni figurano l’espulsione dei combattenti stranieri, la prevenzione contro il ritorno dello Stato Islamico, la gestione dei centri di detenzione dei jihadisti, l’espulsione delle fazioni palestinesi considerate terroristiche e, soprattutto, l’adesione di Damasco agli Accordi di Abramo. È proprio su quest’ultimo punto che Mustafa esprime una critica: al-Sharaa, afferma, ha accettato la proposta americana senza porre come condizione la restituzione del Golan alla Siria né denunciare le ripetute violazioni israeliane nel Paese. Segno che «lo Stato occupante si comporta come uno Stato “bullo” nella regione, con l’approvazione americana ed europea». 

Il nuovo scenario siriano può essere efficacemente descritto con il proverbio arabo «Dio ci dà le mandorle, ma non ce le sbuccia», scrive il ricercatore saudita Youssef al-Dini su al-Sharq al-Awsat. La revoca delle sanzioni è un’«opportunità storica» per Damasco e pone i siriani «di fronte al più grande bivio politico dall’inizio della rivoluzione». Dopo anni di isolamento, la Siria ha la possibilità di riposizionarsi all’interno dell’ambiente arabo, ma la vera sfida sarà saper cogliere questa occasione e affrontare il nodo dei combattenti stranieri, diventati «un fardello a livello sicuritario, legislativo, sociale e culturale». In epoca recente, nessuna zona di guerra ha attirato un numero così elevato di combattenti stranieri quanto la Siria. Dal 2012, osserva al-Dini, il Paese «ha attratto decine di migliaia di combattenti, sunniti e sciiti, provenienti da oltre 100 paesi», spesso portatori di agende che travalicavano i confini siriani. Secondo il giornalista, le esperienze dei Paesi che in passato sono stati teatri di guerra non lasciano ben sperare: «Dopo la guerra in Afghanistan, gli “afghani arabi” sono tornati per fondare al-Qaeda. In Bosnia, decine di combattenti stranieri hanno lasciato dietro di loro sacche culturali estremiste, che hanno influenzato l’identità dell’Islam moderato bosniaco. In Iraq, i jihadisti rimpatriati hanno contribuito alla nascita dell’ISIS, mentre l’Iraq, lo Yemen e il Libano dipendono dalle milizie sciite, che assumono la forma dello Stato e ne influenzano la stabilità». Le autorità siriane hanno davanti a sé tre opzioni, scrive al-Dini: rimpatriare i combattenti nei loro Paesi di origine, una strada difficile, perché molti hanno perso la cittadinanza; valutare un’integrazione selettiva distinguendo tra chi ha commesso crimini gravi e chi, avendo vissuto in Siria o formato legami familiari, potrebbe essere riassorbito nella società; ignorare il problema, con il rischio di trasformare la Siria in un rifugio per reti armate transnazionali.

Anche se il presidente siriano avesse davvero l’intenzione di espellere i combattenti stranieri, volere non è potere, osserva lo scrittore siriano Raghid Okla sempre su al-Arabi al-Jadid. A suo avviso, la reale capacità di al-Sharaa di attuare questa misura resta limitata, nonostante le dichiarazioni di intenti, a causa degli equilibri di potere che ancora condizionano la scena siriana. I combattenti «costituiscono la parte più numerosa e potente delle forze che lo sostengono», perciò non è detto che al-Sharaa sia davvero pronto a sacrificarli. L’altra grande incognita, prosegue l’articolo, è se il presidente riuscirà a «vendere l’idea degli Accordi di Abramo, con le loro implicazioni dottrinali e di fede, alla cerchia più ristretta dei suoi sostenitori e seguaci, soprattutto tra le fila dei combattenti fondamentalisti. Non è un segreto che sia lui che loro aderiscono a un approccio e a un’ideologia rigorosamente salafiti, al punto che hanno celebrato la preghiera dell’Eid al-Fitr nel palazzo presidenziale, un fatto senza precedenti nella storia siriana, per evitare di dover partecipare a una preghiera dell’Eid che avrebbe potuto includere le consuete lodi e il ricordo (dhikr) del Profeta, nello stile islamico asharita del Levante».

Su al-Quds al-‘Arabi lo scrittore palestinese Suhail Kiwan prende le distanze dalle teorie complottiste che paragonano Ahmed al-Sharaa a Eli Cohen, la celebre spia israeliana che negli anni ’60 operò in Siria sotto il falso nome di Kamal Amin Thabet e fu giustiziato nel 1965. Il recente annuncio del Mossad di aver recuperato circa 2000 oggetti personali appartenuti a Cohen ha sollevato interrogativi sul modo in cui questi oggetti siano stati ottenuti e se facciano parte di un’intesa legata alla revoca delle sanzioni contro la Siria. Queste speculazioni hanno alimentato l’idea secondo cui al-Sharaa sarebbe «una creazione israelo-americana», «il nuovo progetto Eli Cohen che ce l’ha fatta ad arrivare ai vertici del potere» come esito di una strategia orchestrata tra le file jihadiste – prima nello Stato Islamico, poi in Jabhat al-Nusra, infine in Hay’at Tahrir al-Sham. Kiwan ritiene questa lettura priva di fondamento e parte di un tentativo di screditare la transizione siriana in corso. Questa illazione, prosegue l’articolo, si inserisce in una lunga serie di attacchi che mirano a demonizzare al-Sharaa nella speranza che il presidente siriano faccia la stessa fine dell’ex presidente egiziano Mohamed Morsi, votato e poi destituito con un colpo di Stato nel 2013. Mettere in dubbio la capacità di governo della nuova amministrazione siriana e dipingere il presente come una semplice riedizione del passato sotto nuove sembianze, insieme all’insistenza sulla necessità di una democrazia immediata, senza passare attraverso una transizione, e alla descrizione del Paese come Tora Bora o Kandahar, rivela il vero intento di questi attacchi: delegittimare al-Sharaa e minare le fondamenta del nuovo assetto istituzionale. Ma la democrazia non nasce dall’oggi al domani, conclude l’articolo, soprattutto in un Paese devastato dalla crisi economica, lacerato dalle divisioni confessionali e minacciato dalle ingerenze straniere.

Toni decisamente diversi su al-‘Arab, dove lo scrittore palestinese Aws Abu Atta tesse le lodi di al-Sharaa – che «ha superato sé stesso anteponendo gli interessi del suo popolo a tutto il resto e cercando di soddisfare gli americani, nonostante li avesse combattuti ferocemente in gioventù e fosse stato imprigionato nelle loro prigioni in Iraq». La Siria, prosegue il giornalista, «ha iniziato a raccogliere i frutti del suo ritorno alle radici arabe. […] La bussola siriana punta verso Riyad, Abu Dhabi e Doha: le tre capitali arabe che hanno lavorato instancabilmente per liberare la Siria dalle catene delle sanzioni economiche».

 

L’Europa volta le spalle a Netanyahu. E il mondo arabo? [a cura di Farah Ahmed]

Dopo 19 mesi di assedio a Gaza, l’Europa comincia a prendere le distanze da Israele. Il blocco totale degli aiuti umanitari, in vigore dal 2 marzo, e la crescente intensità delle operazioni militari nella Striscia hanno spinto diversi governi occidentali a rompere il silenzio.

Nel Regno Unito, il ministro degli Esteri David Lammy ha annunciato la sospensione degli accordi commerciali con Tel Aviv e l’applicazione di sanzioni contro i coloni​​​​​​​​​​​​​​. In Spagna, il parlamento ha promosso una mozione che chiede un embargo sulle armi. La Francia e il Canada, invece, hanno lanciato un appello a Netanyahu di fermare le operazioni a Gaza. Infine, l’Unione Europea, su spinta dell’Olanda, ha approvato la proposta presentata dall’Irlanda e dalla Spagna 15 mesi fa per rivedere l’Accordo di Associazione con Israele.

Di fronte a questa svolta senza precedenti, le reazioni nei media arabi sono state prevalentemente critiche verso il risveglio tardivo delle coscienze europee. Alcuni commentatori hanno optato per il sarcasmo, come la giornalista libanese Sawsan al-Abtah, che sulla testata saudita al-Sharq al-Awsat, descrive la scena come «una festa in maschera internazionale». Secondo al-Abtah, le prese di posizione occidentali sono poca cosa rispetto alle atrocità commesse e rappresentano «una dichiarazione preventiva d’innocenza di fronte all’inevitabile catastrofe che Israele insiste a provocare». E con tono amareggiato, la giornalista conclude: «Netanyahu ha definito la posizione europea come un’“ipocrisia morale”. Forse, questa volta, ha detto la verità».

Sempre sullo stesso quotidiano, Mashary al-Thaidi, accoglie invece con favore le nuove posizioni europee, che finalmente «smentiscono un’idea radicata nel mondo arabo-islamico sull’eterna e sacra alleanza dell’Occidente con Israele». Tuttavia, lo scrittore saudita avverte che «questa rara opportunità di isolare Israele, se non colta dal mondo arabo, rappresenterà un grave fallimento strategico».

Sulla testata libanese al-Akhbar, invece, Walid Sharara adotta un approccio analitico, sottolineando come la trasformazione delle politiche europee verso Israele sia legata a una questione di interessi strategici: «La prosecuzione di questa guerra dal governo Netanyahu rappresenta un principale fattore di instabilità per i paesi partner regionali dell’Occidente, come Giordania, Egitto e Arabia Saudita», e «la loro destabilizzazione danneggerebbe gli interessi di molti paesi europei».

Inoltre, Sharara evidenzia il ruolo decisivo degli Stati Uniti: «Non c’è dubbio che i governi europei non avrebbero innalzato il tono delle loro critiche senza la crisi silenziosa tra Trump e Netanyahu e senza l’assenza di un’opposizione americana a una certa pressione su quest’ultimo».

Con una visione speranzosa il giornalista libanese scrive: «le attuali posizioni europee, contribuiranno ad aumentare l’isolamento di Israele e a farne uno Stato paria», aprendo uno spiraglio politico «per il raggiungimento dei legittimi diritti del popolo palestinese».​​​​​​​

Da un’altra prospettiva, Munsif al-Marzouqi, ex presidente tunisino ad interim (2011-2014), in un intervento sull’emittente di proprietà qatariota al-Jazeera, spiega che questa trasformazione delle posizioni europee è stata possibile grazie alla mobilitazione della società civile nelle strade, a differenza dei «popoli-sudditi nei paesi arabi, che hanno assistito alla tragedia senza muovere un dito», e aggiunge: «le nuove generazioni occidentali hanno rifiutato di essere complici del progetto sionista, sostenuto dai loro governi per espiare il senso di colpa nei confronti dei discendenti dei sopravvissuti di Auschwitz». L’ex presidente tunisino coglie l’opportunità per criticare aspramente i regimi arabi: «la posizione europea, per quanto insufficiente, resta comunque più avanzata rispetto alla vergognosa passività dei governi arabi, che sembrano conoscere soltanto la sottomissione».

Allo stesso modo, sul quotidiano filo-islamista Arabi21, il giornalista palestinese Mohamed Aiesh descrive i regimi arabi come dei grandi assenti, «in una sorta di vacanza permanente dall’azione politica e diplomatica». Inoltre, Aiesh fa notare come le recenti prese di posizione europee siano giunte pochi giorni dopo il vertice arabo di Baghdad, conclusosi con un nulla di fatto: «Nessuno Stato si è attivato per contrastare l’occupazione o fermarne i crimini. Anzi, le capitali arabe che intrattengono relazioni dirette con Israele hanno avuto cura di non compromettere tali rapporti».

Ancora lo stesso giornalista, in un articolo pubblicato su al-Quds al-Arabi, scrive: «La realtà è che il massacro in corso a Gaza è una “guerra rivelatrice”: ha smascherato molti regimi arabi e persino molti individui, mettendo a nudo la verità dei fatti. Ha anche dimostrato che la causa palestinese è una questione umanitaria universale, sostenuta solo da chi ha dignità, ovunque si trovi, e abbandonata soltanto dai più vili tra gli emarginati».

Infine, il giornalista palestinese Ayman Khaled, in un articolo pubblicato sul portale del canale saudita al-Arabiya, esprime un’opinione in netto contrasto con le critiche di Aiesh e al-Marzouqi: «La vittoria della causa palestinese a livello globale […] è stata raggiunta grazie al sostegno arabo illimitato, esercitato dalla diplomazia araba che si è schierata al fianco della sofferenza palestinese per fermare la guerra e ottenere lo stato palestinese. Questo, ovviamente, si riflette su Israele, che si avvia verso l’isolamento se non concede ai palestinesi i diritti riconosciuti dalla comunità internazionale». E conclude, «gli arabi aprono le porte del futuro».