Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 24/10/2025 14:13:19

Il futuro di Gaza continua a essere al centro del dibattito sui media arabi. Su al-‘Arabi al-Jadid il politologo palestinese Alaa Tartir si interroga sulla capacità dei palestinesi, e più in generale del Medio Oriente, di assumere un ruolo attivo nel proprio futuro e di porsi su un piano di parità con Israele. Quest’ultimo, osserva Tartir, «cercherà di consolidare più “fatti sul terreno” e modellare la regione come vuole, forte del sostegno incondizionato degli Stati Uniti». I segnali provenienti da quest’area, tuttavia, non lasciano ben sperare: «Il Medio Oriente è più militarizzato e armato che mai, visto che riceve quasi un terzo delle armi globali». Questo scenario non lascia intravedere «né una pace duratura, né una reale sicurezza per le persone, poiché la priorità della maggior parte dei regimi resta la propria sopravvivenza, più che la sicurezza dei cittadini». Tartir sottolinea che la guerra è sempre dietro l’angolo e non esclude una nuova fase di escalation regionale, nonostante il linguaggio della pace che oggi domina il discorso pubblico, una pace, osserva però il giornalista, «ben lontana dal suo vero significato». Peraltro la regione, aggiunge Tartir, dovrà prima o poi fare nuovamente i conti con il processo di normalizzazione, oggi temporaneamente sospeso, ma non è da escludere che i Paesi firmatari degli Accordi di Abramo cerchino di rilanciarlo. Infine, la dinamica regionale mostra uno spostamento verso est: cresce la sfiducia nei confronti degli Stati Uniti come partner strategico e aumentano i legami economici e infrastrutturali con la Cina e l’India. I nuovi «corridoi economici» plasmeranno il futuro del Medio Oriente nel prossimo decennio, e resta aperta la grande domanda: quali prospettive e quale ruolo potranno avere i palestinesi in questo nuovo ordine mediorientale?

Sullo stesso quotidiano, il politologo giordano Mohamed Abu Ruman si interroga invece sul futuro di Hamas e sottolinea che è prematuro fare delle previsioni, perché il destino del movimento dipende da numerose variabili che esso non può direttamente controllare. Oggi Hamas soffre di una profonda carenza di sostegno strategico a livello regionale e internazionale. Negli ultimi anni, l’Asse della Resistenza è stato il suo principale fonte di supporto finanziario e militare, ma attualmente non esiste alcuna alternativa capace di sostenerlo. La maggior parte dei Paesi arabi moderati mantiene infatti un atteggiamento ostile, ed «è improbabile che la Turchia possa sostituire il ruolo dell’Iran nel prossimo periodo, date le differenze tra i due. La politica turca, caratterizzata da forte pragmatismo, si è infatti concentrata sulla riconciliazione con i Paesi arabi, sul rafforzamento dell’alleanza con l’amministrazione Trump e sulla tutela dei propri interessi strategici in Siria», scrive il giornalista. Tuttavia, il contesto potrebbe mutare a causa della fluidità regionale, strettamente legata all’agenda di Netanyahu. Molto dipenderà dalle politiche attuate da Israele nei confronti della Cisgiordania e di Gerusalemme. La seconda variabile riguarda l’equilibrio interno del movimento, prosegue l’articolo. Hamas ha un vuoto di leadership e sono in corso riflessioni interne per definire il ruolo del movimento, se sia, cioè, un «movimento jihadista con un’ala politica o un movimento politico con un’ala militare». Negli ultimi anni, spiega Abu Ruman, l’ala militare ha avuto un ruolo determinante nel condizionare le decisioni politiche e le alleanze regionali e internazionali dell’organizzazione. Il destino di Hamas, conclude il giornalista, dipenderà anche dal rapporto tra il movimento e la sua base sociale a Gaza, in Cisgiordania e nella diaspora palestinese, da cui il movimento continua a trarre legittimità e supporto.

Hamas deve «mettere ordine in casa propria, abbandonare l’atteggiamento militante e trasformarsi in un partito politico capace di governare Gaza, o addirittura la Palestina, attraverso le urne, non con la polvere da sparo e i proiettili», scrive il giornalista libico Jebril Elabidi sul quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat. L’articolo denuncia le esecuzioni sommarie perpetrate da Hamas dopo la fine della guerra nei confronti di civili palestinesi accusati di collaborare con Israele. Hamas, prosegue l’articolo, «ha sfruttato la situazione di caos per eliminare alcuni oppositori, tra cui alcuni clan che non erano fedeli al movimento neppure prima del “Diluvio di al-Aqsa” e che erano insoddisfatti della condotta di Hamas e del suo monopolio del potere». Il giornalista denuncia le purghe commesse ai danni del «clan Dughmush, uno dei più grandi e potenti della Striscia, noto da tempo per essere ben armato e con membri appartenenti a vari gruppi armati palestinesi, tra cui Fatah e Hamas», il clan Abu Shabab, apertamente ostile ad Hamas, il clan Helles e il clan Majayda. «La narrativa unilaterale di Hamas, secondo cui tutti questi individui sono “traditori” e collaboratori di Israele non può essere accettata», denuncia Elabidi.

Tra i giornalisti arabi serpeggia una profonda diffidenza verso «l’accordo del secolo» concluso da Trump, il cui obbiettivo, osserva lo scrittore iracheno Yahya Alkubisi su al-Quds al-‘Arabi, non è realizzare uno Stato palestinese. L’accordo è eccessivamente vago e solleva più interrogativi di quanti ne risolva. Pur evocando, per esempio, l’istituzione di una «forza di stabilizzazione internazionale temporanea a Gaza», chiamata ad «addestrare e sostenere le forze di polizia palestinesi», il piano non chiarisce come una simile forza potrebbe essere costituita, chi ne sarebbe responsabile, quale arsenale avrebbe e quale ruolo dovrebbe svolgere in caso di violazione israeliana del cessate il fuoco. Allo stesso modo, la questione del disarmo di Gaza – che il testo presenta come soggetta alla «supervisione di osservatori indipendenti» – resta priva di indicazioni su chi dovrebbe attuarla. Insomma, conclude il giornalista, «nessuna persona ragionevole può considerare il piano Trump un piano di pace. D’altra parte, Trump si illude che l’idea dell’occupazione a cinque stelle possa avere successo, e Israele si illude di poter sottomettere definitivamente Gaza. Le altre parti si trovano costrette ad assecondare Trump, ma sono certe che questo piano sia solo una tregua temporanea in attesa di un’altra esplosione!»

Un’altra questione su cui riflettono soprattutto i quotidiani filo-emiratini è la ricostruzione a Gaza. Chi deve pagare questi costi, la cui stima si aggira attorno ai 70 miliardi di dollari? – si domanda lo scrittore emiratino Salem Alketbi su al-‘Arab. Il mondo si aspetta che siano i Paesi del Golfo a farsene carico, pur non essendo direttamente coinvolti nel conflitto che ha distrutto le infrastrutture della Striscia. Ma si sbaglia, commenta il giornalista: «Dietro gli slogan del dovere umanitario si nascondono interessi complessi e accordi politici che sollevano dubbi sulle reali intenzioni». Ma la posizione degli Emirati è chiara: «Niente soldi per Gaza, niente miliardi per la ricostruzione, né investimenti massicci del Golfo finché Hamas manterrà il controllo della Striscia». Il timore, spiega Alketbi, è che si ripeta lo scenario già visto in passato, quando Hamas deviò parte dei fondi destinati alla costruzione di scuole e ospedali a Gaza per finanziare la realizzazione di una vasta rete di tunnel militari, lasciando peraltro alla fame la popolazione della Striscia. Chi può garantire che questo scenario non si ripeterà? «Hamas controlla ancora la Striscia, l’amministrazione civile è al collasso e le prospettive di una soluzione politica sono lontane. La ricostruzione attraverso i canali tradizionali, in assenza di garanzie di controllo è un’impresa costosa. Nel lungo periodo, l’enorme costo della ricostruzione potrebbe trasformarsi in una trappola economica e politica, di cui generazioni di figli del Golfo pagheranno il prezzo, senza alcun reale beneficio per i palestinesi comuni». Fornire aiuti umanitari ai civili è un obbligo morale, mentre investire nella ricostruzione è un’impresa rischiosa, conclude Alkebti.