Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 31/10/2025 10:37:37

A quasi un anno dall’ascesa di Ahmad al-Sharaa, la Siria si trova ancora a fare i conti con la presenza di numerosi combattenti stranieri sul suo territorio, concentrati principalmente nel nord-est del Paese, nelle campagne di Aleppo e Raqqa, e a Deir Ezzor, lungo il confine con l’Iraq. La questione è diventata «un pesante fardello, che ostacola qualsiasi tentativo di ripristinare la sicurezza e la sovranità nel Paese», commenta lo scrittore siriano Abdualla Maksour su al-‘Arabi al-Jadid. Di fronte a questo nodo irrisolto, il leader siriano ha due possibili strade. Seguire l’esempio dell’Afghanistan, dove non sono stati attuati piani di reintegrazione dei foreign fighters, con la conseguente nascita di «entità oscure che perpetuano all’infinito la violenza». O «l’opzione Sierra Leone e Liberia», Paesi in cui al termine delle guerre civili sono stati istituiti dei programmi di disarmo, riabilitazione e reinserimento nella società degli ex combattenti, per evitare che potessero costituire una minaccia permanente. Nel caso siriano, spiega Maksour, «questi modelli si sovrappongono, ma nessuno si è realmente materializzato. Lo Stato non è riuscito a stabilire un quadro istituzionale per affrontare il fenomeno, mentre i Paesi di origine [dei combattenti] hanno abdicato alle proprie responsabilità morali e giuridiche nei confronti dei loro cittadini che hanno combattuto in Siria». Si è così venuta a creare una situazione in cui «i combattenti stranieri vivono nel vuoto, intrappolati fra tre fronti: un governo che li considera un peso per la sicurezza, le fazioni che li vedono come strumenti di pressione e i Paesi occidentali che rifiutano di rimpatriarli per timore che la minaccia si estenda ai propri territori». Questo vuoto, conclude l’articolo, ha prodotto una nuova forma di apolidia, in cui il combattente straniero vive senza una causa chiara né una patria riconosciuta, trasformandosi progressivamente in un attore grigio dell’economia di guerra, confinato in enclave dove la violenza continua a perpetuarsi.

 

Nelle ultime settimane, tuttavia, le unità dell’intelligence siriana hanno preso parte, insieme alla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, a un’operazione contro le cellule rimanenti dello Stato Islamico, che ha portato all’arresto di un membro di spicco dell’organizzazione jihadista nei pressi di Damasco. L’operazione, scrive il ricercatore siriano Omar Kouch sempre su al-‘Arabi al-Jadid, riflette il tentativo di Damasco di sottrarre alle Forze Democratiche Siriane curde il monopolio della collaborazione con la coalizione nella lotta al jihadismo. Le FDS, infatti, sono dal 2014 il principale alleato degli Stati Uniti nella lotta contro l’ISIS in Siria. Negli ultimi mesi, prosegue l’articolo, si è registrato un aumento delle operazioni jihadiste nel governatorato di Palmira e nel deserto siriano al confine con l’Iraq. Damasco sembra dunque orientata a collaborare con gli Stati Uniti per prevenire la rinascita dell’ISIS e prendere in carico la gestione dei centri di detenzione che ospitano le migliaia di miliziani dell’organizzazione jihadista nel nord-est del Paese. Ma il governo di al-Sharaa deve fare i conti con le FDS, che non vogliono cedere la gestione di questi centri, consapevoli del peso politico e strategico che essi rappresentano, spiega Kouch. Le forze curde intendono infatti utilizzarli come leva negoziale nei confronti di Damasco per condizionare i termini della loro integrazione nel Ministero della Difesa siriano.

 

Proprio l’accordo tra queste due parti genera oggi molte preoccupazioni, sia in Siria che in Turchia. L’intesa, che avrebbe dovuto ristabilire la sovranità del governo centrale su tutto il territorio siriano entro la fine del 2025, prevedeva anche l’integrazione delle istituzioni civili e militari curde in quelle di Damasco, insieme al riconoscimento costituzionale dei diritti dei curdi. Tuttavia, come osserva ancora Kouch su al-Jazeera, a sette mesi dalla firma del primo accordo tra il presidente Ahmad al-Sharaa e il comandante delle Forze Democratiche Siriane Mazloum Abdi, avvenuta il 10 marzo scorso, non si rileva alcun segnale concreto di attuazione. L’intensificarsi nelle ultime settimane dei contatti tra le due parti siriane e gli americani «fa pensare che quell’intesa continui a essere considerata la pietra angolare per estendere la sovranità del nuovo Stato siriano su tutto il territorio e riunificare il Paese». L’ostacolo principale all’attuazione dell’accordo è la leadership del partito dell’Unione Democratica Curda, che amministra il Rojava e controlla le FDS. Il partito considera infatti il processo di integrazione una «minaccia esistenziale» e perciò temporeggia, scommettendo sulla possibilità di mantenere un’autonomia de facto nelle aree sotto il suo controllo, ricche di risorse naturali strategicamente importanti, conclude Kouch.

 

Lo stallo preoccupa non poco la Turchia, definita da ‘Abdel Rahman al-Rashid, ex direttore di al-Sharq al-Awsat, «il secondo vincitore» (dopo Israele) dell’uscita di scena dell’Iran. Ankara, scrive al-Rashid, «gode ora di un’importanza regionale che non vedeva da un secolo, da quando perse la sua influenza nel Levante e nella regione dopo la Prima guerra mondiale», e questa ritrovata proiezione si manifesta soprattutto in Siria, dove la Turchia si afferma sempre più come attore militare di primo piano.

 

In effetti, scrive il giornalista siriano Ammar Daroubi su al-Jazeera, ci sono diversi segnali di una nascente intesa militare tra la Turchia e il governo siriano, che prevede la fornitura di sofisticati equipaggiamenti militari a Damasco, tra cui blindati, droni, artiglieria, missili e sistemi di difesa aerea. Questa mossa, spiega il giornalista, «rappresenta un cambiamento di strategia della politica turca nei confronti della Siria e potrebbe segnare l’inizio di una nuova fase nella ricostruzione delle istituzioni statali siriane, rimodellando così l’equilibrio di potere nel nord, in concomitanza con il rinnovato sostegno degli Stati Uniti alle FDS, che Ankara considera un’estensione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan».   

 

Su al-Nahar il giornalista libanese Basel Haj Jasem riflette su come Damasco stia cercando di ricollocarsi sullo scacchiere geopolitico. Ciò che la Siria sta vivendo, scrive, «non è un semplice riposizionamento politico, ma un tentativo di ridefinire il proprio posto e la propria identità in un mondo che cambia. Tra Mosca e Washington, tra calcoli regionali e pressioni interne, Damasco cammina su un filo sottile, cercando di ricollocarsi senza scivolare in un nuovo asse o in un confronto imprevedibile». La nuova Siria ha capito che l’era delle alleanze assolute è finita e che il nuovo governo non può essere costruito sulla vecchia mentalità di allineamento, spiega Haj Jasem. La visita del presidente siriano a Mosca avvenuta due settimane fa non è stata una semplice tappa protocollare, ma un passo che porta con sé il segnale di una nuova fase nella politica siriana, caratterizzata dalla ricerca di un difficile equilibrio tra Oriente e Occidente. Trovare un equilibrio però non è un facile, prosegue il giornalista, perché «qualsiasi mossa siriana verso la Russia viene interpretata da Bruxelles e Washington come un ritorno alla vecchia orbita russa, mentre ogni tentativo di aprirsi all’Occidente suscita il timore del Cremlino di perdere il suo alleato più importante nel Mediterraneo. Stretta tra l’incudine e il martello, Damasco sta cercando di ridefinire le sue relazioni estere in termini di interessi e non di sottomissione». E anche Israele guarda con occhio vigile gli sviluppi siriani. Qualsiasi riavvicinamento alla Russia è visto a Tel Aviv come una potenziale minaccia alle intese di sicurezza consolidate negli ultimi anni. La leadership siriana scommette sul ripristino graduale delle relazioni con l’Occidente, come vera chiave per la ricostruzione, il ritorno dei rifugiati e l’allentamento delle sanzioni. «Quest’apertura, conclude il giornalista, se condotta con cautela, potrebbe riportare la Siria nella sua posizione naturale nel sistema arabo e internazionale, a condizione che sia gestita all’interno di una politica chiara che non intrappoli nuovamente il Paese nel pantano degli assi conflittuali».