Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 27/06/2025 15:02:01
I media arabi continuano a riflettere sulle conseguenze dello scontro tra l’Iran da una parte e Israele e Stati Uniti dall’altra. “I festeggiamenti dei perdenti”, titola il sito d’informazione libanese Asasmedia. L’articolo, non firmato, riflette sulla retorica che è seguita alla fine delle ostilità tra i tre Paesi. Nonostante le perdite, più o meno gravi, subite da tutte le parti coinvolte, scrive il giornalista, ciascuna di esse si proclama vincitrice. Trump rivendica la vittoria nonostante un rapporto dell’intelligence statunitense abbia messo in luce che l’attacco alle infrastrutture nucleari iraniane non ha fermato il programma atomico, ma lo ha solo ritardato. Anche gli iraniani stanno festeggiando «e, nella loro logica, hanno tutto il diritto di farlo». Dopo tutto, le perdite finanziarie sono un evento normale in un conflitto, la morte di scienziati e leader è una perdita che verrà comunque «ricompensata da Dio», e la sopravvivenza del regime, «dopo le minacce di Israele di assassinare la Guida Suprema, merita sicuramente di essere festeggiata». Anche Benyamin Netanyahu, pur consapevole di non aver davvero vinto, insiste nel parlare di una vittoria «storica» contro l’Iran.
Secondo Mukhtar al-Dababi, penna del quotidiano panarabo filo-emiratino al-‘Arab, «la fine della guerra verrà interpretata da Teheran come il riconoscimento da parte di Washington del ruolo dell’Iran nella regione e un ritorno all’ostilità con gli Stati del Golfo». Gli iraniani cercheranno di compensare la sconfitta militare inferta dagli Stati Uniti e Israele riconquistando l’influenza nella regione. Per fare questo mobiliteranno le cellule dormienti nel Golfo, non per compiere atti di sabotaggio, ma per riaccendere le tensioni confessionali e alimentare la polarizzazione. Il loro obiettivo è «dimostrare che l’Iran non è stato sconfitto ed è in grado di ritrovare lo slancio creato dalla rivoluzione del 1979. Rispolvereranno vecchi slogan come la “resistenza all’imperialismo” e “il Grande Satana”, e tutto l’arsenale di termini che in precedenza avevano avuto come effetto magico di infiltrarsi tra gli sciiti del Golfo e della regione e attirarli nel perimetro dell’Iran». Internamente, prosegue l’articolo, Teheran cercherà di recuperare terreno rafforzando l’ideologia della rivoluzione per mascherare le perdite subite e mantenere vivo il sostegno popolare. Ma le crescenti pressioni interne ed esterne potrebbero aprire la strada a un cambiamento dall’interno del sistema, specialmente da parte del fronte riformista. Teheran viene inoltre accusata di aver preso di mira il Qatar, un Paese amico. Scrive al-Dababi: l’attacco al Qatar «conferma che l’Iran non ha ancora superato la cultura instillata dalla rivoluzione di Khomeini, fondata sull’odio per i vicini, compresi quelli che esprimono simpatia per l’Iran. Il Qatar in particolare, i cui media hanno svolto un ruolo fondamentale nel promuovere le idee di Teheran e dei suoi alleati nella regione, fornendo loro preziosi servizi mediatici, politici e confessionali». Sebbene l’attacco alla base aerea di Al Udeid sia stato coordinato in anticipo con Washington e non abbia perciò creato danni, prosegue l’articolo, «ha inviato un segnale negativo al Qatar e agli altri Stati del Golfo: non ci si può fidare dell’Iran con questo regime, almeno nel breve e medio termine».
La stampa qatariota locale nega invece che le autorità fossero a conoscenza preventivamente dell’attacco iraniano ad Al Udeid. Su al-Sharq Ahmed Kedidi definisce l’attacco «un episodio che ha colto di sorpresa lo Stato del Qatar» e «violato le regole di buon vicinato». Tuttavia ha anche sottolineato che, in virtù «dell’amicizia e del rapporto di fiducia che legano il Qatar e l’Iran, la lunga storia e la geografia condivisa […], così come i contatti quasi quotidiani tra le due leadership, il Qatar non permetterà che il proprio territorio, spazio aereo o acque vengano utilizzati per lanciare attacchi contro il Paese fratello». E ha ricordato il ruolo di mediazione che il Qatar continua a svolgere.
Questo ruolo è stato peraltro elogiato dal giornalista libanese Gerard Dib, che sul quotidiano panarabo filo-qatariota al-Arabi al-Jadid riconosce a Doha il merito di aver propiziato un accordo per il cessate il fuoco. Proprio la condanna unanime dei Paesi arabi contro le violazioni della sovranità qatariota, spiega il giornalista, testimonia la centralità di questo Paese nelle questioni arabe e il suo ruolo efficace nel promuovere la pace. Per questo, scrive Dib, «“Grazie, Qatar” è oggi l’adagio più sentito nel mondo arabo, soprattutto a Gaza, dove si è visto l’impegno qatariota per fermare la macchina da guerra israeliana. È peraltro la frase che ha attraversato le strade del Libano, da nord a sud, dopo la guerra del 2006. Quanto fatto da Doha riflette una volontà autentica di diffondere pace e stabilità a livello regionale e internazionale».
Sullo stesso quotidiano il ricercatore Ibrahim Fraihat parla invece di un «fallimento strategico israelo-americano» contro Teheran, nonostante alcuni «successi iniziali», tra cui l’uccisione di leader militari e scienziati nucleari iraniani e gli attacchi agli impianti nucleari, che però hanno solo «ritardato il programma nucleare di qualche mese o anno». Tuttavia, sostiene Fraihat, i veri obiettivi di Netanyahu – «la distruzione del progetto di arricchimento dell’uranio, del programma missilistico e il cambio di regime» – non sono stati raggiunti. Il culmine di questo fallimento, secondo il ricercatore, è proprio il cessate il fuoco, che dimostra come l’Iran abbia saputo «colpire a sua volta rafforzando la propria deterrenza regionale».
Sulla testata panaraba londinese al-Quds al-Arabi, anche lo scrittore palestinese Jamal Zahalqa parla di fallimento strategico israeliano. Israele non è riuscito a distruggere il programma nucleare e missilistico iraniano, come invece promette da decenni. Il fallimento, scrive, è ancora più evidente se si considera che «questa è la prima guerra israeliana contro un Paese non arabo. Ciò significa che Israele ha aperto un fronte diretto con l’Iran, le cui conseguenze sono imprevedibili». Il giornalista descrive la situazione che vede protagonisti i due Paesi citando Churchill: «“Questa non è la fine. Non è nemmeno l’inizio della fine. È, forse, la fine dell’inizio”», ovvero è solo il primo round di una lunga serie di scontri diretti tra Teheran e Tel Aviv. «Per quanto grandi possano sembrare le vittorie israeliane, esse restano limitate sul piano tattico e inesistenti su quello strategico», conclude Zahalqa.
Oltre la prima pagina: Siria e Sudan [a cura di Farah Ahmed]
Se il cosiddetto conflitto dei “dodici giorni” tra Iran e Israele ha monopolizzato le prime pagine della stampa panaraba, alcuni articoli hanno posto l’attenzione su altre tensioni nel Medio Oriente. Il quotidiano al-Arabi al-Jadid, vicino al Qatar, ha rivolto particolare interesse alla Siria, in seguito all’attentato terroristico avvenuto domenica scorsa presso la Chiesa di Sant’Elia, nel quartiere cristiano di Dwel’a, a sud di Damasco, dove 22 persone sono state uccise e 60 ferite.
Lo scrittore siriano Ammar Dauib descrive il quartiere come un esempio di pacifica convivenza tra sunniti e cristiani, ma sottolinea che, dopo l’attacco, «i cristiani siriani hanno cominciato a temere per il proprio futuro, così come i drusi e gli alawiti. E anche i sunniti sono allarmati di fronte al carattere salafita della nuova autorità, che non riflette l’Islam moderato praticato dalla maggioranza dei siriani». L’autore denuncia una crescente frattura settaria che mina l’identità nazionale e richiama il governo a definirsi come autorità rappresentativa di tutti i cittadini. Tuttavia, secondo Dauib, «non vengono prese misure serie contro le organizzazioni estremiste. Neppure dopo le carneficine a Homs, Hama, Aleppo e Damasco: nessuno è stato processato, anzi, spesso gli arrestati vengono subito liberati». E prosegue criticando il ritardo della nuova presidenza nell’adottare vere “politiche nazionali”, lamentando l’assenza di una «distribuzione del potere, di un sistema giudiziario indipendente, di trasparenza nella gestione del paese, e la continua esclusione delle minoranze nelle forze armate, dove vengono tenute sessioni religiose dominate da salafiti radicali, anche sulle questioni di sicurezza».
Sul medesimo quotidiano, il giornalista Omar al-Sheikh lancia l’allarme sul Sud della Siria, una regione segnata da «fragilità securitaria e politica, dove fazioni armate non statali colmano il vuoto lasciato da un governo ancora incapace di esercitare un controllo effettivo». In questo contesto, si moltiplicano le ingerenze iraniane sotto il pretesto della resistenza. Secondo al-Sheikh, la “milizia del martire Mohamed Deif”, nonostante richiami il nome dell’ex leader delle Brigate al-Qassam, non appare come un movimento in difesa di Gaza, ma il frutto di un finanziamento esterno: «è un gruppo senza identità chiara, che attacca Israele nascondendosi dietro canali Telegram. Ma il vero attacco politico è rivolto a Damasco, non a Tel Aviv […]. Quanto accade nel Sud è solo il primo capitolo di un gioco lungo, orchestrato dall’Iran per riprendere il controllo». Il giornalista denuncia anche il silenzio mediatico siriano attorno alla regione meridionale e l’assenza di un racconto dal basso: «quando manca una narrazione che parli a nome della popolazione, viene meno anche il senso di appartenenza, e questo vuoto viene riempito da ideologie promosse da altri […]. Per questo bisogna opporsi all’ingerenza iraniana con chiarezza: nessuna resistenza minaccia chi vive sul territorio. Nessun alleato giustifica il caos in nome della causa palestinese».
Toni ancora più amareggiati emergono su al-Quds al-Arabi nell’intervento dell’intellettuale siriano Bakr Sedqi, che evidenzia quanto il futuro del Paese resti incerto, anche a causa dell’incapacità dei siriani di convergere verso un progetto comune: «i siriani non condividono una visione unitaria sul futuro del Paese, sul sistema politico, sul modello economico, o sulle basi della convivenza. È difficile costruire tutto questo sotto un’autorità transitoria che si illude di essere già uno Stato! Sarebbe tragico se questo fallimento persistesse, lasciando campo libero all’ingerenza internazionale, mentre a noi non resterebbe che maledire chi si intromette nei nostri affari».
Diverso lo sguardo della testata libanese filo-saudita Asasmedia, dove il ricercatore Hisham Alaywan interpreta la presidenza di al-Sharaa come un successo, seppur minacciato dalla violenza locale e dalla rabbia popolare verso la linea moderata adottata con gli ex uomini del regime di Assad. L’autore sottolinea come al-Sharaa abbia mutato gli equilibri: «Oggi Hezbollah è militarmente circondato: da Israele a Sud e dalla Siria a Nord. La principale via di rifornimento tra Teheran e Beirut è stata interrotta. Anche l’Iraq risente della situazione, anche se solo dal punto di vista simbolico. Malgrado il controllo delle milizie sciite e il disinteresse di al-Sharaa per i conflitti regionali, i sunniti iracheni vedono nella Siria una speranza». Infine, la transizione da al-Jolani ad al-Sharaa rappresenterebbe «un modello sunnita con cui è possibile dialogare, firmare accordi politici ed economici, e superare la narrativa del post-11 settembre, aprendo una riconsiderazione della politica internazionale».
Anche se con minore attenzione rispetto ad altri dossier regionali, anche la situazione in Sudan ha trovato spazio in alcuni articoli. Sulla testata panaraba con sede a Londra al-Arab, l’analista sudanese Abdulmoneam Himmat critica duramente il discorso con cui il nuovo Primo ministro Kamil Idris ha presentato il progetto di ricostruzione civile del Paese: «sembrava non rivolgersi a un popolo circondato dalle macerie […]. Il comunicato dava per scontato che le parole potessero generare una realtà alternativa, parlando di “governo della speranza”. Ma non ha spiegato da dove comincerà il progetto né dove intende arrivare». Himmat denuncia l’assenza di un piano operativo concreto, che non contiene né tempistiche né strumenti, e soprattutto la mancanza di qualsiasi riferimento alla guerra in corso: «non c’è stato nemmeno un accenno a un negoziato». Secondo l’autore, Idris «non rappresenta la rivoluzione, ma ne è una derivazione esterna: è parte di quel sistema che ha coperto i crimini con il silenzio». E conclude con parole dure: «il Sudan non ha bisogno di diplomatici che negoziano sul cadavere di una nazione, ma di una leadership coraggiosa, consapevole che il futuro non nascerà né da illusioni né da false speranze. Nell’epoca del crimine, il silenzio stesso è un crimine».
Un tono più ottimista si riscontra invece sulla testata filo-islamista Arabi21, dove lo scrittore sudanese Yasser Yusuf Ibrahim riconosce le difficoltà che attendono il nuovo esecutivo, ma intravede segnali positivi. L’articolo sottolinea come il Primo ministro debba prima di tutto superare l’ostacolo della formazione di un governo, per poi affrontare «le questioni più spinose e cominciare davvero a svolgere i propri compiti, un passo tutt’altro che semplice». Nel momento in cui «le forze armate combattono la battaglia della dignità contro le milizie, il governo è chiamato a compiere uno sforzo straordinario per assicurarsi una rete di sostegno, interna ed esterna, capace di portare a termine la liberazione del Paese e sconfiggere il progetto delle milizie». L’articolo insiste sulla necessità che «governo e consiglio sovrano approfondiscano il dialogo con le forze politiche, per organizzare quel dialogo sudanese-sudanese che il Primo ministro ha promesso nel suo discorso di incarico». Nonostante le numerose sfide, il pezzo si chiude con una nota di speranza: «malgrado tutte le difficoltà, l’ottimismo è ampiamente diffuso tra i cittadini, fiduciosi di poter riconquistare sicurezza e stabilità, soprattutto dopo la nomina del Primo ministro, la liberazione della capitale Khartoum e l’inizio del ritorno dei profughi nelle loro case. Una nuova vita sta prendendo forma, e il popolo sudanese comincia a ritrovare le strade della speranza e i sentieri del futuro».