Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 18/07/2025 15:57:53

Di fronte alla nuova ondata di violenze scoppiate a Suwayda, nel sud della Siria, la stampa araba esprime profonda preoccupazione per il futuro del Paese. Tuttavia, gli analisti divergono significativamente nell’attribuire le responsabilità degli scontri.

Sul quotidiano al-Quds al-Arabi, il giornalista libanese Gilbert Achcar punta il dito contro il governo siriano, accusandolo di aver indirettamente favorito la fazione beduina sunnita coinvolta negli attacchi contro la comunità drusa: «Che questi scontri siano parte di un piano israeliano volto a destabilizzare la regione, oppure rientrino nella strategia di espansione di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) nel sud della Siria, resta il fatto che la nuova autorità a Damasco – pur esercitando pressioni per il disarmo delle fazioni –  non esercita alcun reale controllo sui gruppi arabi sunniti. Al contrario, ne facilita l’armamento».

Ancora più grave, secondo Achcar, sarebbe la passività mostrata da Ahmed al-Sharaa, accusato di aver ignorato le richieste di messa in sicurezza dell’asse stradale che collega Damasco a Suwayda: «Questo disinteresse deliberato ha aperto la strada al caos attuale, che si sarebbe potuto evitare se il governo avesse realmente voluto contenere le milizie beduine alleate, con lo stesso entusiasmo con cui ha poi sfruttato le tensioni per intervenire a Suwayda in modalità più simili a un’occupazione militare che a un’operazione statale per ristabilire l’ordine».

Sempre sulla stessa testata, lo scrittore marocchino Bilal al-Talidi propone una chiave di lettura alternativa, collegando le violenze interne all’attacco israeliano su Damasco avvenuto mercoledì scorso. Secondo al-Talidi, l’obiettivo di fondo di Tel Aviv è quello di alimentare una frammentazione settaria della Siria: «Il progetto principale di Israele è dividere la Siria in cantoni etnici – drusi, curdi, alawiti – e creare una cintura di sicurezza che si estenda dalle alture del Golan occupate, sostenuta da un alleato stabile e forte, costruito attorno alla minoranza drusa».

Al-Talidi sottolinea che Israele tende a intensificare le proprie operazioni militari ogni volta che lo Stato siriano rafforza il proprio controllo territoriale e promuove l’integrazione delle minoranze. Da qui l’appello dello scrittore ai decisori politici del mondo arabo: «La questione delle minoranze può diventare estremamente pericolosa se non viene affrontata all’interno di un quadro costituzionale e legale capace di promuovere un’integrazione civile – sia giuridica sia culturale – e di proteggere lo Stato dalle minacce esterne».

Una linea interpretativa simile è espressa anche dal giornalista palestinese Osama Abuirshaid, che su al-Arabi al-Jadid analizza la strategia israeliana nella regione, individuandone una duplice natura: «Israele adotta due modalità operative. La prima è quella del predatore implacabile, sempre pronto ad attaccare la preda e incapace di riconoscere alleati. La seconda è quella di un virus maligno e opportunista, capace di approfittare di qualsiasi corpo indebolito per distruggerlo dall’interno». Secondo Abuirshaid, è proprio attraverso questa seconda modalità che Tel Aviv giustifica la propria aggressione contro la Siria, presentandola come un’azione volta a “proteggere la comunità drusa”. In questo contesto, Israele impone «una zona smilitarizzata nel sud della Siria, svuotando l’area della sovranità statale e lasciando presagire una possibile futura spartizione del territorio».

L’articolo dedica attenzione anche alla posizione di Hikmat al-Hijri, una delle guide spirituali druse in Siria, la quale: «non rivendica una convivenza equa, ma ambisce alla creazione di uno Stato indipendente a Suwayda, sotto la protezione israeliana». Una presa di posizione che, secondo l’autore, ha trovato sostegno anche all’interno della comunità drusa israeliana, ma che Abuirshaid condanna duramente: «La cittadinanza comporta diritti e doveri, indipendentemente da appartenenze religiose, etniche, ideologiche o politiche. Ma quando qualcuno ritiene che la propria condizione minoritaria gli conferisca il diritto di invocare il sostegno di uno Stato criminale come Israele contro il proprio Paese e il proprio popolo, non si tratta più di cittadinanza: è sedizione».

Anche da ambienti della stampa saudita e filosaudita arrivano segnali di preoccupazione. Sul quotidiano al-Sharq al-Awsat, l’intellettuale libanese Samir Atallah descrive il caos siriano con toni angosciati: «Assistiamo, come tanti altri, a piazze che si sono trasformate in campi di battaglia, senza sapere chi combatte e per quale motivo. Dal nulla sgorgano fiumi di sangue, accompagnati da promesse e minacce di ulteriori massacri. Perché tutto questo? E chi ha introdotto adesso la questione dei drusi?». Secondo Atallah, la crisi di Suwayda deve essere letta nel quadro di una più ampia disgregazione regionale: «Temiamo che venga risucchiata non solo la Siria, ma anche il Libano e l’intero mondo arabo. Temiamo che la Siria non riesca più a rialzarsi, perché dopo tutti questi anni ha dimenticato cosa significa essere uno Stato, cosa sia la legge, e che non esiste dignità per un popolo senza uno Stato che protegga i suoi diritti».

In difesa dello Stato siriano si schiera anche lo scrittore libanese Amine Kammourieh, che sul sito d’informazione Asasmedia chiarisce la posta in gioco: «Quello che accade oggi in Siria non è solo una questione interna: è il confronto tra due progetti. Il primo mira a proteggere lo Stato nazionale e le sue istituzioni; il secondo, al contrario, vuole smantellarlo trasformandolo in un’arena di guerre confessionali ed etniche». Per questo l’autore rivolge un appello agli Stati arabi affinché si uniscano contro ogni tentativo di ridefinizione geopolitica della regione: «La protezione della Siria è una condizione necessaria per garantire la stabilità del mondo arabo. I confini di Libano, Siria e Palestina sono ormai aperti all’ingerenza israeliana, e anche le frontiere di altri Paesi sono minacciate. Gli inviati americani continuano a parlare della fine dell’accordo Sykes-Picot, ma il nuovo ordine che si profila non promette nulla di meglio. Le nuove mappe regionali si stanno disegnando col sangue, seppellendo la questione palestinese e applicandone lo schema a tutta la regione».

Infine, una prospettiva complementare giunge dallo scrittore siriano Amjad Ismail al-Agha, attraverso le colonne della testata filo-emiratina al-Arab. Al-Agha riconosce gli sforzi della nuova leadership siriana nel ricollocarsi a livello regionale e internazionale, ma mette in discussione l’efficacia di un approccio centrato quasi esclusivamente su un appoggio esterno. Le iniziative di ricostruzione e rilancio economico, osserva l’autore, restano vulnerabili se non ancorate a un consenso interno solido e inclusivo: «Il governo ha intrapreso una rete di relazioni diplomatiche per favorire la stabilizzazione ma senza un coinvolgimento autentico delle forze politiche e sociali siriane, questi tentativi resteranno fragili e soggetti alle pressioni delle potenze straniere».

Per al-Agha, la chiave della stabilità non sta solo nella proiezione esterna, ma in un processo di riconciliazione e dialogo nazionale che riduca l’influenza degli attori regionali e internazionali nel futuro della Siria: «Solo attraverso un reale partenariato interno sarà possibile avvicinarsi a un modello statuale moderno e duraturo».

 

L’Iraq e lo «stato parallelo» delle milizie 

Negli ultimi mesi, l’attenzione mediatica panaraba si è comprensibilmente concentrata sui grandi sconvolgimenti in corso in Medio Oriente, lasciando sullo sfondo Paesi e contesti, come l’Iraq, meno toccati da questi processi. Tuttavia, questa settimana, alcune testate hanno riportato il Paese al centro del dibattito, analizzando questioni tanto interne quanto regionali.

Lo scrittore iracheno Yahya al-Kubisi, in un articolo pubblicato su al-Quds al-Arabi, rivolge una dura critica al sistema giudiziario iracheno «feudalizzato» e ne mette in risalto le distorsioni attraverso il caso dell’assassinio del politologo Hisham al-Hashimi. Quest’ultimo fu ucciso nel 2020 dopo aver rivelato che dietro lo pseudonimo di un miliziano delle Brigate Hezbollah che pubblicava messaggi incendiari sui social network si nascondeva un dirigente della stessa organizzazione, Hussein Mounis. Tra i responsabili dell’omicidio era stato identificato ed arrestato un agente del Ministero degli Interni, rilasciato poi a distanza di un anno.

Al-Kubisi spiega che a riaccendere l’attenzione pubblica sul caso è stato «un video in cui l’imputato ammette di aver eseguito l’omicidio su ordine di Mounis, lo stesso che nel 2021 è stato eletto in Parlamento». Il vero scandalo, sottolinea l’autore, è l’inazione del Consiglio Superiore della Magistratura, che ha ignorato il video e non ha avviato alcuna procedura legale. Da qui, la denuncia di al-Kubisi: «In Iraq tutti sanno che a dettare le regole sono i rapporti di forza, non la Costituzione, né la legge, né la logica, e nemmeno la morale. Tutti sanno che esiste una complicità collettiva che rende possibile tutto ciò. E tutti sanno che le milizie – lo Stato parallelo – non avrebbero mai permesso che l’assassino del dottor al-Hashimi venisse processato, forti della certezza che “il loro uomo” ne sarebbe uscito indenne, e che i mandanti e i complici, pur citati nelle indagini, non sarebbero mai stati chiamati in causa».

Anche il giornalista iracheno Ayad al-Dolaymi, in un articolo pubblicato su al-Arabi al-Jadid – testata vicina al Qatar – fornisce una visione cupa della realtà irachena. L’autore descrive le strade di Baghdad come «l’incarnazione della corruzione» e racconta come ogni angolo della città nasconda una storia di furto, saccheggio e malaffare. «Una storia che continua», prosegue l’articolo, «dall’arrivo degli “esportatori di democrazia” d’oltreoceano, e dal ritorno degli “oppositori” decisi a esercitare il loro diritto al dissenso. Alla fine, Baghdad ha scoperto l’ipocrisia di entrambi».

Inoltre, al-Dolaymi evidenzia le pressioni esercitate dagli Stati Uniti sul governo iracheno affinché sciolga tutte le milizie armate, comprese le Forze di Mobilitazione Popolare (FMP), coalizione nata nel 2014 per combattere il sedicente Stato Islamico: «Washington ha posto Baghdad di fronte a due opzioni: o scioglie le milizie e centralizza il controllo delle armi nelle mani dello Stato, oppure gli Stati Uniti ritireranno la loro protezione». Il premier Mohammed Shia al-Sudani avrebbe già trasmesso il messaggio ai leader delle milizie, i quali, secondo l’articolo, attendono le direttive di Teheran, data la loro fedeltà alla Guida Suprema iraniana. Tuttavia, l’autore insiste sull’urgenza della questione: «La Baghdad esausta ha bisogno di riprendersi. Il primo passo è sciogliere le milizie, disarmarle e portare in tribunale i loro leader responsabili di crimini e sangue versato. Solo così potrà iniziare un percorso di pace e stabilità».

Sulla testata filo-islamista Arabi21, il politologo Jasem al-Shimri approfondisce ulteriormente il tema, evidenziando le dinamiche interne legate alla questione del disarmo. Secondo quanto riportato, Muqtada al-Sadr – leader del movimento sadrista – ha ritirato le proprie milizie da Samarra e ha invitato le altre fazioni a consegnare le armi. Tuttavia, questa iniziativa ha suscitato reazioni ostili e, secondo al-Shimri, i sadristi potrebbero decidere di rispondervi anche con la forza. L’analista evidenzia però una contraddizione: «È curioso notare che al-Sadr non abbia rinunciato alle armi; si è limitato a ritirarsi da Samarra, senza rinunciare concretamente al potere militare».

In questo contesto, l’articolo getta luce sul ruolo sempre più ambiguo dell’Ayatollah Ali al-Sistani, la massima autorità religiosa sciita in Iraq, che nel 2014 aveva emesso la fatwa che legittimò la nascita delle FMP. Secondo al-Shimri, al-Sistani è pentito della decisione, ma oggi evita di chiedere apertamente lo scioglimento delle milizie, temendo che i loro leader dichiarino fedeltà alla dottrina di Ali Khamenei, oltrepassando così la cornice religiosa irachena. L’articolo si chiude con una riflessione aperta: «Sembra che la fase in cui la fatwa per il jihad poteva essere strumentalizzata sia finita. Ora si gioca a carte scoperte. Il rifiuto di una potenziale fatwa per lo scioglimento delle FMP è ambiamente condiviso tra le varie fazioni. Ci troviamo di fronte a milizie che si sono ribellate sia alla dottrina sia alla legge: come reagiranno ora l'autorità religiosa e il governo a quella che è forse la crisi più grave del processo politico iracheno dal 2004?».

Infine, in un’analisi di respiro regionale pubblicata sulla testata panaraba di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat, il giornalista libanese Ghassan Charbel osserva come l’Iraq sia riuscito finora a sopravvivere ai recenti sconvolgimenti mediorientali, tra cui la caduta di Bashar al-Assad e la guerra dei dodici giorni. Tuttavia, l’articolo avverte che le elezioni parlamentari previste per novembre potrebbero riaccendere forti tensioni interne: «L’esperienza insegna che le “guerre elettorali” in Iraq non sono mai semplici. Lo stesso vale per le lotte intestine al “club dei primi ministri”, specialmente ora che al-Sudani ha confermato la propria candidatura, sperando di poter completare quanto iniziato durante l’attuale mandato».

Charbel conclude con una nota d’incertezza, e soprattutto di preoccupazione: «L’appuntamento elettorale è reale e cruciale. Gli iracheni sperano solo che non divampi nuovamente un incendio nel vicino Iran, che rischierebbe di trascinare l’Iraq in una crisi ancora più profonda e complessa della stessa competizione parlamentare».