Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:54:39

A pochi giorni dall’apertura delle urne è arrivata la notizia che l’opposizione sperava: Muharrem Ince si è ritirato dalla corsa alle elezioni presidenziali in Turchia. La lettura piuttosto unanime della stampa internazionale è che la decisione di Ince favorisca l’Alleanza della Nazione e aumenti le possibilità di vittoria di Kemal Kılıçdaroğlu. Sia i sondaggi MetroPOLL che quelli KONDA mostrano un vantaggio di Kılıçdaroğlu  nei confronti di Erdoğan. Non solo: il leader del CHP si troverebbe a meno di un punto percentuale dalla vittoria al primo turno: 49,6% secondo KONDA, 49,1% per MetroPOLL.

 

Per di più, questi dati fanno riferimento alla situazione prima del ritiro di Ince, il quale secondo gli stessi sondaggisti godeva del sostegno di poco più del 2% degli elettori. Secondo Seren Selvin Korkmaz (IstanPol Institute) «il ritiro di Ince potrebbe essere il fattore chiave per portare alla vittoria dell’opposizione al primo turno». A questo proposito giova ricordare che Ince aveva corso alle presidenziali del 2018 proprio per il partito CHP di Kemal Kılıçdaroğlu. L’alveo ideologico è dunque quello del partito kemalista. I rapporti con Kılıçdaroğlu, tuttavia, sono molto tesi e Ince si è astenuto dall’indicare ai suoi elettori di votare per la coalizione Alleanza della Nazione. Al contrario, nell’annunciare il ritiro Ince si è scagliato proprio contro i metodi dell’opposizione, più che contro Erdoğan. Vedremo se i sondaggi si dimostreranno attendibili, e soprattutto come si distribuirà l’elettorato di Ince: secondo alcuni infatti, gli elettori avevano già abbandonato l’ex candidato, principalmente a favore di Kılıçdaroğlu. Se così fosse, lo spostamento dovuto al ritiro dell’ultim’ora potrebbe non essere così significativo.

 

Gönül Tol, direttrice del Center for Turkish Studies del Middle East Institute, si è espressa contro coloro che, soprattutto nelle capitali occidentali, credono che la sconfitta di Erdoğan sia impossibile. Secondo Tol, per vincere il presidente uscente «deve ottenere più dei 26 milioni di voti che ottenne nel 2018, perché il corpo elettorale è cresciuto. Il problema di Erdoğan è che si trova di fronte a un contesto politico radicalmente diverso, ciò che rende questo compito molto difficile». Crisi economica, terremoto e l’esistenza di un’opposizione unita (a differenza di quanto avvenuto in precedenti tornate elettorali) sono solo tre esempi di questo cambiamento di contesto che potrebbe, secondo Tol, penalizzare Erdoğan.

 

Un altro tema importante riguarda il voto della diaspora. Sono circa 3,5 milioni i cittadini turchi residenti all’estero che potranno votare a queste elezioni. Negli scorsi appuntamenti elettorali le prestazioni dell’AKP sono state strabilianti nel voto della diaspora, con le preferenze accordate al partito di Erdoğan fino a 10 volte più elevate di quelle riscosse in patria. Un dato che secondo Foreign Policy potrebbe essere legato alla «composizione demografica della diaspora: svantaggi socioeconomici, esclusione politica, combinati con l’identificazione con l’Islam sunnita, hanno favorito il partito di governo». Come ha però scritto Gözde Böcü sul magazine americano, la mobilitazione dell’opposizione nella diaspora è significativamente cresciuta negli ultimi anni e, oggi, potrebbe contribuire in maniera significativa ad allargare i consensi di Kılıçdaroğlu , nonostante le capacità repressive dispiegate dal governo di Ankara siano aumentate anche all’estero.

 

Va inoltre sottolineato che mentre tutte le attenzioni si concentrano comprensibilmente sui candidati presidenti, quelle di domenica saranno anche elezioni parlamentari. Per queste ultime i sondaggi danno l’AKP intorno al 35-37%, al primo posto tra i partiti più votati. A livello di coalizioni, quella guidata da Erdoğan si attesta intorno al 44%, contro il 39% dell’opposizione. Tutti dati da prendere con il beneficio del dubbio, ma che sollevano un interrogativo: Kılıçdaroğlu ha fatto campagna elettorale sostenendo la necessità di abbandonare l’attuale sistema presidenziale in favore di un ritorno a uno parlamentare. Ma come ridare centralità al parlamento qualora Kılıçdaroğlu non fosse in grado di controllare l’assemblea?

 

Intanto il leader del CHP ha effettuato una serie di dichiarazioni distensive verso l’Occidente, e gli Stati Uniti in particolare, in vista del voto. In primo luogo, il candidato dell’Alleanza della Nazione ha reso noto che, qualora venisse eletto, aderirà alle sanzioni occidentali nei confronti della Russia e che farà cadere il veto sull’ingresso della Svezia nella NATO. Già da tempo Kılıçdaroğlu indica anche l’intenzione di rivitalizzare le relazioni con l’Unione Europea, incluso con lo scongelamento del processo di ingresso nell’UE.

 

Le ripercussioni internazionali del voto non finiranno qui. Secondo Soner Cagaptay, direttore del Turkish Research Program del Washington Institute for Near East Policy, la vittoria di Kılıçdaroğlu metterebbe in discussione anche l’influenza dei Paesi del Golfo in Turchia. Gli enormi capitali delle monarchie petrolifere sono stati fondamentali negli ultimi anni per l’iniezione di valuta straniera nel Paese (l’ultimo caso è il deposito da 5 miliardi di dollari dell’Arabia Saudita presso la Banca Centrale turca), ma Kılıçdaroğlu ritiene che la cessione di importanti quote di aziende turche ai fondi del Golfo siano stati degli «omaggi». Alla luce di questa convinzione, come ha fatto notare Cagaptay, in caso di vittoria è il ruolo del Qatar in Turchia che potrebbe subire un ridimensionamento maggiore.

 

L’arresto (e il successivo rilascio) di Imran Khan gettano il Pakistan nel caos

 

L’arresto dell’ex primo ministro Imran Khan ha gettato il Pakistan nel caos. Anche per una nazione abituata alle iperboli e «ai colpi di stato, alle crisi politiche e alla violenza, i tumulti di questi giorni sono stati senza precedenti». Scuole e università sono state chiuse nel Punjab e in altre zone del Paese.

 

L’arresto di Khan, avvenuto martedì per mano di un’agenzia paramilitare attiva nel contrasto della corruzione, è giunto dopo che l’esercito aveva fortemente criticato l’ex stella del cricket, il quale a sua volta aveva accusato l’esercito di aver non soltanto organizzato la caduta del suo governo, ma anche di essere coinvolto in un tentativo di assassinio nei suoi confronti. Secondo il ministro dell’Interno Rana Sanaullah, Khan è stato arrestato per non essersi costituito in seguito all’accusa di aver ricevuto, quando ancora era primo ministro, beni terrieri per un valore di oltre 24 milioni di dollari da un imprenditore accusato di riciclaggio in Gran Bretagna. Successivamente all’arresto, i sostenitori di Khan sono scesi nelle strade e nelle piazze, nonostante le autorità avessero vietato ogni raduno. In breve tempo la situazione è degenerata e mercoledì si contavano già 7 morti, decine di feriti e 1500 arresti, mentre le autorità giudiziarie pachistane estendevano il fermo di Khan di otto giorni e annunciavano il dispiegamento dell’esercito nelle province del Punjab e del Khyber Pakhtunkhwa. Le autorità hanno inoltre bloccato l’accesso a diversi social media e, in alcuni casi, hanno anche limitato le linee telefoniche mobili. «Siamo i soldati di Khan», ha detto uno dei manifestanti.

 

Secondo l’opposizione l’arresto di Khan è motivato politicamente: nel prossimo ottobre si terranno le elezioni (Khan è dato in vantaggio nei sondaggi), e una sua eventuale condanna gli impedirebbe di concorrere. Di certo c’è che, come ha ricordato il Washington Post, le autorità avevano già provato ad arrestare Imran Khan lo scorso maggio. L’esito è stato lo stesso: proteste e violenze. Quando era al potere, Khan non ha esitato a usare i mezzi che ora rimprovera al governo, «arrestando i suoi avversari politici […] e indicando alle autorità statuali di perseguirli sulla base di accuse a volte dubbie», ha scritto il giornalista pachistano Zarrar Khuhro su al-Jazeera. «Ora, come spesso accade in Pakistan, i ruoli si sono invertiti e Khan stesso è entrato a far parte di una lista vergognosamente lunga di primi ministri, in carica e non, che si sono trovati […] dalla parte sbagliata di un sistema giudiziario piuttosto malleabile».

 

Mentre l’Alta Corte di Islamabad ha inizialmente confermato la legalità dell’arresto, giovedì la Corte suprema pachistana ha stabilito il rilascio dell’ex primo ministro, gettando il Paese nel caos istituzionale. Khan si trova ora nelle mani della Corte suprema in un luogo sicuro, ha dichiarato il suo avvocato. Ufficialmente “sotto protezione” nella capitale pachistana, Khan è atteso venerdì davanti all’Alta Corte di Islamabad. Nell’attesa di ulteriori sviluppi e colpi di scena, va sottolineato che, comunicando l’intenzione di rilasciare Khan, la Corte Suprema sembra segnalare il suo giudizio positivo nei confronti del ricorso presentato dai legali del PTI che ritenevano incostituzionale l’arresto. Inoltre, come ha scritto il quotidiano Dawn (riportato da Reuters), la natura e il luogo delle proteste mostrano che la rabbia della popolazione è sempre più rivolta anche all’esercito, e non soltanto alle altre forze politiche.

 

La Siria nella Lega Araba: uno degli effetti della nuova politica saudita

 

Domenica scorsa i rappresentanti dei Paesi arabi riuniti al Cairo hanno ufficialmente stabilito la riammissione della Siria nella Lega Araba. Non tutti gli Stati della regione vedono di buon occhio il regime di Assad e la reintegrazione di Damasco nell’organizzazione regionale, eppure, come ha sottolineato il Financial Times, quest’ultimo fatto non implica automaticamente la normalizzazione delle relazioni con i singoli Paesi. Il Qatar, per esempio, resta contrario. Discorso diverso per l’Arabia Saudita, che non ha perso tempo: due giorni dopo la decisione della Lega Araba, Riyad ha riaperto l’ambasciata a Damasco, e viceversa.

 

Alcuni Stati sono preoccupati dal fatto che Assad non abbia compiuto alcun passo per favorire un ritorno a normali relazioni bilaterali, a cominciare dall’aver ignorato le preoccupazioni per le questioni umanitarie, la gestione dei rifugiati e il mancato contrasto al commercio di captagon, «diventato un’ancora di salvezza economica per Damasco». Come ha dichiarato il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi, «la riammissione della Siria è solo l’inizio del processo per portare a una conclusione politica la crisi siriana. Tutti i Paesi concordano con questa necessità, ma c’erano differenze su quale fosse il miglior approccio». Secondo Safadi, citato anche da Reuters, il processo sarà comunque «lungo, difficile e laborioso». Chi guarda con timore alla riabilitazione di Assad sono senza dubbio i profughi, i quali temono che questo sia l’inizio di un percorso che li costringerà a rientrare in Siria. Un sondaggio condotto dall’UNHCR mostra che soltanto l’1,7% dei profughi siriani sarebbe disponibile a rientrare volontariamente nel Paese. Un dato che secondo Charles Lister (Middle East Institute) dimostra il «terrore palpabile» dei rifugiati davanti all’ipotesi di un rientro.

 

Il rientro della Siria nella Lega Araba è uno dei frutti del nuovo approccio dell’Arabia Saudita alla politica regionale. Un cambiamento che il Financial Times ha descritto come il passaggio dall’essere un Paese «piantagrane a uno diplomatico». Un altro esempio della nuova politica estera saudita si coglie guardando alla situazione in Sudan: qui Riyad ha svolto un ruolo nell’evacuazione di diversi cittadini stranieri e, in particolare, è stata una delle capitali che ha maggiormente cercato di favorire il raggiungimento di un cessate-il-fuoco. Secondo Emile Hokayem (International Institute for Strategic Studies), il principe ereditario Mohammed bin Salman «si sta godendo il suo momento: l’economia cresce, le grandi potenze si coinvolgono [con l’Arabia Saudita], lui sta ricalibrando la politica estera per dare priorità alle sue agende geo-economiche, trasformative e di prosperità». Del resto, «il nostro successo a livello domestico è legato alla stabilità della regione», ha affermato un diplomatico saudita. Ma è anche legato alla capacità del Regno di ottenere i finanziamenti necessari per realizzare i progetti e le riforme definite dal principe. È probabilmente questo il motivo per cui, nonostante un calo dei profitti quasi del 20%, il governo saudita sembra intenzionato a raccogliere una quantità di fondi maggiore dalla società petrolifera Aramco.

 

Escalation in Israele

 

Non si ferma l’escalation di violenze in Israele. La mediazione tentata dall’Egitto è fallita mercoledì sera, e il lancio di razzi si è intensificato. I bombardamenti israeliani contro l’organizzazione della Jihad islamica hanno portato alla morte di 31 persone nella Striscia di Gaza, mentre in Israele è morto un uomo di 70 anni. L’organizzazione terroristica palestinese ha lanciato razzi anche verso Gerusalemme, ricordando attraverso un comunicato che «il bombardamento di Gerusalemme manda un messaggio: ciò che avviene [nella città santa] non è separato da Gaza». L’intensità dello scambio di missili e bombardamenti ha ricordato quella della primavera del 2021 quando si erano verificati 11 giorni di guerra dopo che i nazionalisti israeliani avevano compiuto la provocatoria “marcia delle bandiere” a Gerusalemme. Il rischio è che si vada verso uno scenario di questo tipo se consideriamo che la polizia israeliana ha fatto sapere di aver già autorizzato la nuova edizione della provocatoria parata, che dovrebbe svolgersi giovedì prossimo.

 

Per ora, come ha scritto l’Associated Press, Hamas non è entrata pesantemente nella contesa. Tuttavia, dopo l’uccisione di tre membri delle Brigate al-Quds in un bombardamento israeliano, il leader politico di Hamas, Khaled Meshaal ha dichiarato che le azioni di Israele sono un «crimine contro tutto il nostro popolo che incontreranno la ferma risposta della resistenza unificata». La situazione mostra anche una volta di più la crisi in cui versa l’Autorità Palestinese: è contro di essa, accusata di collaborare con Israele, che si è rivolta la folla dopo l’uccisione del collaboratore Zuhair al-Ghaleeth, avvenuta a Nablus l’8 aprile.

 

In breve

 

Secondo le rivelazioni di Barak Ravid (Axios) i funzionari emiratini sono rimasti scioccati quando le controparti americane hanno presentato loro una richiesta di pagamento per il supporto militare ricevuto da Abu Dhabi in occasione di un attacco da parte degli houthi.

 

Un membro della guardia nazionale tunisina ha aperto il fuoco alla sinagoga di Djerba provocando la morte di cinque persone (Le Monde). Mentre le indagini sono ancora in corso, il governo tunisino si è limitato a generiche dichiarazioni di condanna dell’avvenuto.

 

Il Saudi Research and Media Group ha avviato le consultazioni per studiare la fattibilità del lancio di un canale in lingua inglese che possa rivaleggiare con l’emittente qatarina al-Jazeera (Financial Times).

 

Nei primi mesi del 2023 l’aeroporto di Dubai ha visto transitare più di 20 milioni di persone. Un dato che riporta il traffico nello scalo emiratino quasi ai livelli pre-pandemia (Associated Press).

 

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