Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:04:39

Il mese di agosto ha visto l’Arabia Saudita nuovamente al centro della scena diplomatica internazionale. Non soltanto perché il Regno ha organizzato a Gedda una conferenza per cercare una soluzione alla guerra in Ucraina – colloqui che hanno avuto il merito di coinvolgere anche una delegazione cinese, a differenza di quanto avvenuto in precedenza – ma anche perché è proseguito il percorso di riavvicinamento sia con gli altri attori della regione che con alcuni storici alleati. La conferenza tenutasi a Gedda, pur non avendo fornito una soluzione concreta alla guerra – ma era difficile aspettarsi qualcosa di differente –, ha mostrato «soprattutto tra i membri del G20 [qual è] il potere di mobilitazione internazionale di Riyad» ha commentato Sanam Vakil (Chatham House). Inoltre questa iniziativa diplomatica è un altro segnale del passaggio da un approccio caratterizzato dall’«outsourcing alla gestione diretta dei propri interessi regionali».

 

Oltre alla conferenza multilaterale ospitata sul proprio territorio, l’Arabia Saudita è stata protagonista di diversi incontri bilaterali. Quello che ha attirato maggiormente l’attenzione è la visita in Arabia Saudita del ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian, che ha fatto seguito alla riapertura dei canali diplomatici tra Iran e Arabia Saudita, favorita dalla Cina. L’inviato iraniano ha incontrato, sempre a Gedda, il principe ereditario e primo ministro, Mohammed bin Salman (MbS), con il quale ha avuto un incontro definito dagli iraniani «franco, proficuo e produttivo». MbS avrebbe inoltre accettato l’invito a recarsi a Teheran. Secondo il principe Faisal bin Farhan Al-Saud, ministro degli Esteri saudita, l’incontro «è la continuazione dei passi intrapresi per implementare l’accordo di ristabilimento delle relazioni diplomatiche, ciò che rappresenta una piattaforma fondamentale nella storia dei due Paesi e nel percorso [verso la] sicurezza regionale». La visita di Amir-Abdollahian è stata “benedetta” anche dal ministro degli Esteri cinese Wang Yi, con Pechino che come già accennato ha svolto un ruolo fondamentale nell’avviare il processo di riconciliazione tra le due sponde del Golfo Persico. Il fatto poi che il viaggio di Amir-Abdollahian faccia seguito a quello di Faisal a Teheran avvenuto a giugno mostra come il percorso di riavvicinamento prosegua. Tuttavia, come ha ricordato Amwaj Media, non mancano gli ostacoli e le difficoltà, che principalmente provengono da Washington. Il primo problema riguarda la spinta della Casa Bianca nei confronti di Riyad per arrivare alla normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele, nemico giurato degli iraniani. Il secondo sono invece le sanzioni imposte dagli Stati Uniti all’Iran, che complicano la ripresa dei rapporti commerciali tra Teheran e Riyad e, perciò, limitano i benefici economici che ci si aspetta dal riavvicinamento. Per questo, ha osservato un funzionario saudita anonimo, è necessario che il processo di normalizzazione tra Iran e Arabia Saudita affronti direttamente e risolva le controversie legate sia alla strategia iraniana di «forward-defense» che al dossier nucleare. È fondamentale che questi aspetti siano risolti affinché si possa, in seguito, rimuovere le sanzioni.

 

A livello regionale la distensione è favorita da un cambio di strategia operato da Teheran: come ha scritto Kenneth M. Pollack (senior fellow all’American Enterprise Institute) su Foreign Policy, gli obiettivi generali dell’Iran non sono diversi dal solito, ma sono cambiati i mezzi impiegati per raggiungerli: a livello regionale la Repubblica Islamica è passata dall’uso del bastone alla carota, mentre nei confronti di Stati Uniti e Israele il modus operandi è sempre lo stesso, come testimoniato dalle azioni della marina iraniana nei confronti delle petroliere nel Golfo. Ciononostante, durante l’estate si è fatta strada l’ipotesi di liberazione di cinque prigionieri americani detenuti dall’Iran in cambio della scarcerazione di alcuni iraniani e dello congelamento di 6 miliardi di dollari di proprietà della Repubblica islamica.

 

Tornando all’Arabia Saudita, a testimoniare il nuovo corso intrapreso dalla monarchia del Golfo, caratterizzato da uno sguardo rivolto tanto a Oriente quanto a Occidente e dal tentativo di porsi come una piattaforma internazionale per la risoluzione dei conflitti, si può citare il colloquio tra il segretario di Stato americano Antony Blinken e l’omologo saudita, durante il quale sono state affrontate le questioni relative alle crisi in Yemen e Sudan, o la notizia della prossima visita di MbS a Londra, dove il principe ereditario incontrerà il premier Rishi Sunak. Come ha riportato il quotidiano emiratino The National, il colloquio con Blinken permette di comprendere che Washington e Riyad stanno lavorando insieme per favorire percorsi di de-escalation, nella regione e non solo. Mentre si rifiuta di prendere una posizione decisamente anti-russa nonostante le pressioni americane, Riyad sembra dunque aver fatto propria la formula espressa dal nuovo capo dei servizi segreti turchi, İbrahim Kalın, il quale, parlando della politica estera di Ankara, parte della NATO ma non ostile a Mosca, ha sottolineato che è «impossibile aderire a un solo polo in questo mondo multipolare». Infatti, c’è un filo rosso che passa per l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, ha scritto il Financial Times: è la convinzione di dover sviluppare una politica estera che si sottragga alla richiesta dicotomica statunitense “o con noi o contro di noi”. Tuttavia, secondo Emile Hokayem (International Institute for Strategic Studies) il progetto è ancora più ambizioso: Abu Dhabi e Riyad «vedono più opportunità che rischi in questo ordine mondiale in cambiamento, e pensano di avere a disposizione le politiche e gli strumenti per diventare dei poli del mondo multipolare emergente». A ulteriore conferma della fluidità delle relazioni estere di sauditi ed emiratini, ma anche delle differenze tra di loro, giungono le notizie di giovedì da Johannesburg, dove i Paesi BRICS hanno aperto la strada all’ammissione nel gruppo di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Iran, Argentina, Etiopia ed Egitto. Ma mentre gli Emirati hanno accolto con entusiasmo la possibilità di far parte dei BRICS, Riyad è stata più cauta e il ministro degli Esteri saudita ha affermato che la decisione sull’adesione o meno sarà subordinata a discussioni interne alla casa regnante.

 

Un ulteriore segno del nuovo corso inaugurato da MbS in Arabia Saudita è anche la proiezione nei cinema di un film come Barbie, vietata in altri Paesi della regione come il vicino Kuwait. Al contrario, nel Paese fino a poco tempo fa simbolo dell’intransigentismo religioso la proiezione del discusso film non solo è permessa, ma è accompagnata da tutta una serie di attività commerciali collaterali. E non manca chi dal Kuwait si fa cinque ore di automobile per raggiungere la città saudita di Dammam e godersi la pellicola, rigorosamente documentando il viaggio sui propri canali social. Il commento di un utente kuwaitiano, riportato dal Wall Street Journal, ha colto il punto: «le cose sono cambiate, prima [i sauditi] venivano da noi per il cinema e ora siamo noi ad andare da loro!».

 

Tuttavia, mentre cerca di proiettare una nuova immagine di sé, l’Arabia Saudita è accusata di «aver ucciso centinaia di migranti etiopi che cercavano di entrare nel Paese dallo Yemen» nel periodo compreso tra marzo 2022 e giugno 2023. L’accusa è stata avanzata da un report di oltre 70 pagine pubblicato dell’ong newyorkese Human Rights Watch. Nel documento si leggono alcune testimonianze secondo cui in un gruppo di 170 persone che ha cercato di valicare il confine, almeno 90 sono state uccise, numero noto perché «alcuni sono ritornati per recuperare i corpi dei defunti». La testimonianza di Dahabo, un ventenne etiope, parla invece di un gruppo di 200 migranti ridotto a sole «50 persone sopravvissute». Secondo lo stesso report i ribelli houthi yemeniti, che controllano il nord dello Yemen, svolgono il ruolo di facilitatori delle migrazioni e controllano gli accessi ai due campi profughi informali presenti al confine, Al Thabit e Al Raqw, e si rendono anch’essi protagonisti di abusi e brutalità. L’Arabia Saudita ha dichiarato di prendere molto sul serio il report, ma al tempo stesso ha respinto categoricamente le accuse di uccisioni sistematiche di migranti.

 

Nel Pakistan in crisi i cristiani sono un capro espiatorio

 

Il 16 agosto a Jaranwala, nella regione pakistana del Punjub, le case dei cristiani e 21 chiese, tra cui tre cattoliche, sono state vandalizzate, mentre un cimitero è stato profanato. Centinaia di persone sono state evacuate e ora sono senza dimora. Padre Abid Tanvir, vicario generale della diocesi di Faisalabad, ha parlato ad AsiaNews di «più di 900 famiglie cristiane che sono scappate e si nascondono nei campi con donne, anziani e bambini per salvare le loro vite. Queste persone sono terrorizzate e necessitano di immediato sostegno e protezione».

 

L’attacco è stato capeggiato dai membri del partito Tehreek-e-Labbaik Pakistan e la polizia ha arrestato 146 persone coinvolte nella rivolta, mentre il governo ha predisposto un indennizzo per coloro che hanno perso la casa pari a 2 milioni di rupie per famiglia, equivalenti a circa 6.800€. La settimana successiva all’attacco i cristiani della zona si sono riuniti e hanno celebrato messa nelle zone colpite dalla furia estremista.

 

All’origine dell’eruzione di violenza, ancora una volta, l’accusa di blasfemia rivolta a due cristiani che avrebbero profanato il Corano e scritto frasi offensive nei confronti dell’Islam. Sulla base della controversa legge sulla blasfemia in vigore in Pakistan, per i responsabili delle offese all’Islam è prevista la condanna a morte. Nessuno è mai stato giustiziato per questo motivo, ma in diverse occasioni (quello più tristemente famoso è il caso di Salman Taseer) le uccisioni sono state extra-giudiziali, e anche semplici accuse hanno dato il via a pesanti violenze. Come già avvenuto in precedenza, non mancano i sospetti che le accuse rivolte ai due cristiani siano del tutto pretestuose. Padre Tanvir l’ha detto chiaramente: «questo incidente [è] una cospirazione contro la comunità cristiana. Serve svolgere una vera indagine. I musulmani accusano due cristiani di aver profanato il Corano e di aver scritto una nota blasfema. Ma entrambi sono analfabeti, lavorano come spazzini e manovali: come avrebbero potuto scrivere questa nota?». Inoltre, chi sarebbe così sciocco da pubblicare la propria foto con una nota blasfema, ha aggiunto Padre Tanvir. Ecco perché, ha concluso il vicario diocesano, «si tratta solamente di vendette personali». Anche le forze di sicurezza sono sotto la lente d’ingrandimento: c’è un divario di un’ora e mezza tra la denuncia del fatto e lo scoppio delle violenze. Quel tempo avrebbe potuto essere utilizzato per proteggere i luoghi sensibili. Una nota positiva giunge dal capo del Consiglio degli Ulema pakistani, Hafiz Tahir Ashrafi, il quale si è distinto per una forte presa di posizione: mentre ha riaffermato l’impegno a proteggere i nostri «fratelli cristiani», Ashrafi ha dichiarato: «ci vergogniamo. Non abbiamo adempiuto alla nostra responsabilità di fratello maggiore. Chiediamo perdono».

 

Come evidenziato dalla nota della Diocesi locale questi incidenti mettono in pericolo non soltanto i cristiani, ma tutte le minoranze che vivono in Pakistan. Lo Stato pakistano però, non sembra sensibile a questo tema, almeno a giudicare dalla repressione che ha dovuto subire (prima degli attacchi del 16 agosto) una manifestazione della Minorities Alliance Pakistan (MAP) organizzata a Islamabad in occasione della giornata per le minoranze nazionali pakistane.

 

È comunque in generale la situazione politica e securitaria del Pakistan a destare grande preoccupazione. Il presidente Arif Alvi, membro del partito dell’ex premier Imran Khan (PTI), si è rifiutato di promulgare due nuove leggi – già approvate dai due rami del parlamento – che garantiscono alle autorità maggiori poteri per perseguire coloro i quali commettono reati contro lo Stato e l’esercito. La decisione è arrivata il giorno successivo all’arresto eseguito nei confronti dell’ex ministro degli Esteri del governo Khan. Mentre si avvicinano le elezioni previste per novembre, lo scontro tra militari e il partito di Khan prosegue: Khan è in carcere per aver venduto dei beni ricevuti in dono durante il suo mandato di primo ministro, e questo gli impedirà di correre alle elezioni. L’arresto, avvenuto dopo che la Corte suprema ne aveva imposto la scarcerazione, mostra che in Pakistan «non importa quanto popolare o resiliente sia un leader» civile. Quando si scontra con l’esercito, «i generali prevalgono sempre». Tuttavia è troppo presto per dichiarare irrilevante il PTI: il partito continua ad avere una forte base, potrebbe capitalizzare dalla rabbia dei suoi sostenitori per l’arresto di Khan e di altri maggiorenti del partito, ma soprattutto, «potrebbe rafforzare le sue prospettive elettorali se la sua leadership rimanente ricucisse i legami con i militari». Del resto, come ha spiegato Husain Haqqani (Hudson Institute), per più di un anno lo stesso Khan ha combattuto «non per trasformare il sistema politico pakistano, ma per premere sui generali affinché ne supportassero il ritorno al potere». Lo schema seguito dai politici non è quindi affermare il potere civile su quello militare, ma ottenere il sostegno di quest’ultimo. Ecco perché secondo Haqqani il Paese sembra destinato ad avere un sistema ibrido, «se non un vero e proprio dominio militare».

 

Dopo le violenze di agosto, uno spiraglio per la Libia?

 

A distanza di un anno da precedenti gravi scontri, a Tripoli, in Libia, 55 persone sono morte e 146 sono state ferite in seguito agli scontri tra le milizie della Brigata 444, che fa capo al Ministero della Difesa, e le Forze Speciali di Deterrenza, una realtà definita «ultraconservatrice» da al-Jazeera e che agisce come forza di polizia nella capitale libica. Gli scontri tra i due gruppi armati, entrambi ufficialmente sostenitori del governo tripolino guidato da Abdul Hamid Dbeibah, sono iniziati il 14 agosto e si sono protratti il 15, quando è stato raggiunto un accordo per fermare le ostilità. All’origine delle violenze vi è l’arresto del Colonnello Mahmoud Hamza, capo della Brigata 444, da parte della milizia rivale. Come ha ricordato al-Jazeera le due milizie si erano già scontrate lo scorso maggio, sempre in seguito all’arresto di un membro della Brigata 444. Purtroppo questo genere di violenze ha un forte impatto sulla popolazione civile, perché colpisce in aree residenziali: oltre a provocare la chiusura dell’aeroporto internazionale di Tripoli, le ultime violenze hanno forzato l’evacuazione di 234 famiglie dai quartieri meridionali della capitale. In un messaggio che fa ben capire lo stato in cui si trova la Libia, Dbeibah ha affermato: «siamo abituati al rumore degli scontri, ma avvicinarsi ai civili è vietato». Insomma, sparatevi quanto volete ma fatelo lontano dalle case...

 

Dal punto di vista politico, quanto avvenuto attorno a Ferragosto evidenzia il deterioramento della situazione securitaria in Libia e l’incapacità della comunità internazionale di far fronte al problema delle milizie concorrenti. Comunque proseguano gli eventi, ha commentato Jalel Harchaoui, ricercatore esperto del Paese nordafricano, «gli ultimi tre anni sono stati sprecati da diplomatici, politici, pianificatori della sicurezza e specialisti di peace-building. Tripoli è un territorio ancora più dominato dalle milizie rispetto a prima». Secondo l’Associated Press molti gruppi armati, specialmente nella parte occidentale del Paese, sono diventati via via più potenti e ricchi, traendo profitto anche da rapimenti e dal traffico di esseri umani. Secondo il New York Times c’è anche il rischio che i ripetuti scontri siano interpretati da altre milizie come un’opportunità per entrare a Tripoli. Del resto «Tripoli è un premio», ha detto Emadeddin Badi (Atlantic Council): se una milizia riuscisse a ottenere il controllo di una parte della capitale, potrebbe «tradurre [la sua presenza] in influenza sul governo, sull’economia o, almeno, assicurarsi il proprio finanziamento, perché se sei lì, il governo sarà obbligato a finanziarti, perché hai una leva». Per Anas El Gomati (fondatore e direttore del think tank libico Sadeq Institute), non è un caso che gli scontri siano avvenuti proprio dopo che sono emerse voci riguardo a contatti informali tra Dbeibah e le autorità nell’est del Paese per la formazione di un nuovo governo ad interim. Come ha sottolineato El Gomati, un accordo tra Est e Ovest del Paese «dividerebbe la torta» in più parti e le milizie, dunque, cercano di accaparrarsi più risorse possibili prima che un tale accordo eventualmente si realizzi. La zona interessata dai combattimenti è infatti quella che ha un più alto valore immobiliare.

 

Di segno opposto sono le notizie che arrivano dalla Banca Centrale libica che, dopo anni, ha trovato un accordo per la riunificazione dell’istituzione, dal 2014 divisa in due tra Tripoli e Bengasi. Anche le Nazioni Unite hanno cambiato strategia: mentre finora l’azione diplomatica onusiana ha sempre puntato alla realizzazione di elezioni, a seguito delle quali si sarebbe dovuto formare un governo unificato, ora l’inviato speciale Abdoulaye Bathily ha fatto sapere di muoversi in direzione opposta. Come ha comunicato al Consiglio di Sicurezza, prima si lavorerà alla formazione di un governo unificato e soltanto dopo sarà avviato il percorso verso libere elezioni. Una strada che sembra più percorribile di altre, anche se non mancano i rischi: l’opinione di Tim Eaton (Chatham House) è che una volta stabilito un governo unificato, verranno meno tutti gli incentivi a recarsi alle urne.

 

Un nuovo genocidio armeno?

 

È da mesi che l’Azerbaijan limita i movimenti lungo il corridoio di Lachin, unica via che collega all’Armenia il Nagorno-Karabakh, territorio conteso tra i due Stati caucasici. Le restrizioni si sono intensificate durante l’estate, come ha scritto Ishaan Tharoor sul Washington Post, tanto che la Croce Rossa internazionale non riesce nemmeno più a recapitare l’assistenza umanitaria alle 120.000 persone che vivono in questa enclave. Nonostante non venga prestata grande attenzione a quanto avviene in questa area, la descrizione della situazione è scioccante: «non c’è cibo sugli scaffali nei negozi. Bambini aspettano in fila per ore per ottenere il pane con cui aiutare a sfamare le proprie famiglie. Madri camminano per miglia alla ricerca di olio per cucinare e altre provviste. Elettricità, gas e acqua scarseggiano. Le ambulanze non possono mettersi in moto per la mancanza di carburante. Gli ospedali riferiscono di un incremento di aborti spontanei nelle donne che sono malnutrite, anemiche e consumate dallo stress». La situazione nei supermercati è visibile anche in un breve video pubblicato dal Guardian.

 

Luis Moreno Ocampo, ex procuratore capo della Corte Penale Internazionale, ha pubblicato un testo nel quale afferma che le condizioni a cui è sottoposta la minoranza armena in quest’area equivalgono a un genocidio. La difesa da parte dell’Azerbaijan passa attraverso le dichiarazioni di Yashar Aliyev, inviato azero all’ONU, secondo il quale la restrizione ai movimenti nel corridoio di Lachin, che dovrebbe essere sotto la tutela dei peace-keepers russi, è necessaria per fermare il traffico che porta armi dall’Armenia verso l’enclave.

 

 

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