Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:57:03

Come il vantaggio acquisito al primo turno lasciava presagire, Erdoğan ha ottenuto la maggioranza dei voti necessaria a iniziare un nuovo mandato come presidente della Turchia: il 52,1% contro il 47,9% del suo sfidante Kemal Kılıçdaroğlu. Come mostrano anche le percentuali, questa volta Erdoğan ha dovuto sudarsi la rielezione, penalizzato, ha scritto Ben Hubbard sul New York Times, dalla crisi economica, dal terremoto e dal fatto che per la prima volta l’opposizione si è presentata come un fronte (più o meno) compatto. Dall’altro lato, ha osservato Hubbard, Erdoğan ha potuto fare affidamento sull’«ardente sostegno di una parte di popolazione» e sulle sue abilità di comunicatore in campagna elettorale. Anche nelle aree colpite dal terremoto, Erdoğan è andato sopra ogni attesa, ottenendo la maggioranza in otto province su undici. E l’AKP ha fatto ancora meglio alle parlamentari, vincendo in tutte le province tranne una. Perché? Le risposte di alcuni intervistati sono state principalmente di due tipi: alcuni hanno affermato che il terremoto è stato un atto di Dio e che ogni governo avrebbe avuto problemi a gestire una simile calamità. Altri, invece, ritengono semplicemente che il governo guidato da Erdoğan e dall’AKP sia più affidabile per la ricostruzione.

 

Come si sono svolte le elezioni? Gli osservatori dell’OSCE hanno dichiarato che le operazioni di voto si sono svolte correttamente, senza brogli su larga scala. Il problema è tutto ciò che ha preceduto l’apertura delle urne, con Erdoğan che ha potuto utilizzare a proprio vantaggio l’intero complesso (economico e non solo) dello Stato. Prima delle elezioni il presidente ha fatto ulteriore ricorso alla spesa pubblica, aumentando i salari dei lavoratori pubblici e dei pensionati e non facendo pagare ai cittadini un mese di forniture di gas. Così facendo, lo ha segnalato il Financial Times, il PIL turco è cresciuto oltre le aspettative, favorito dall’inflazione galoppante. Un altro esempio di come Erdoğan ha usato a proprio vantaggio l’apparato statale? Nel mese di aprile il presidente uscente ha avuto una copertura televisiva di 32 ore, contro i 32 minuti di Kılıçdaroğlu. Secondo Gonul Tol (Middle East Institute) l’opposizione ha fatto tutto ciò che gli esperti avevano suggerito per tentare di vincere le elezioni: formare un’unica coalizione, offrire soluzioni concrete ai problemi del Paese, svolgere una campagna elettorale dal tono positivo. Ma alla fine ha dovuto arrendersi al fatto che non si scontravano solamente con l’autocrate locale, ma anche con quelli stranieri che hanno aiutato Erdoğan durante gli ultimi mesi, ha scritto Tol. Il fattore chiave della vittoria del presidente, però, è stato un altro secondo Tol: «gli uomini forti populisti e autoritari come Erdoğan resistono di fronte a situazioni sfavorevoli sfruttando le preoccupazioni esistenziali delle loro società, anche se, paradossalmente, sono le stesse politiche dell’uomo forte a causare per prime l’insicurezza». E in una situazione di incertezza, la gente «sceglie il diavolo che conosce».

 

Quella indicata da Tol non è però l’unica spiegazione possibile. Erdoğan ha festeggiato la vittoria il giorno dell’anniversario della presa di Costantinopoli, avvenuta 570 anni fa. Secondo una brillante analisi pubblicata da Nicholas Danforth su Newlines Magazine, la chiave del successo di Erdoğan, e anche la sua eredità più importante, è la «fusione riuscita tra  secolare e divino»: «mentre gli osservatori opponevano il neo-ottomanesimo al kemalismo, il 1453 al 1923, e Mustafa Kemal Atatürk al Sultano Mehmet II, Erdoğan ha capito che molti elettori volevano tutto questo, e gliel’ha dato. Mentre gli osservatori si concentravano sulla differenza tra religione e nazionalismo, Erdoğan ha capito che i due possono essere branditi insieme con efficacia». Questo approccio è stato evidente, ha scritto Danforth, nel discorso che Erdoğan aveva fatto al momento della riconversione di Santa Sofia in moschea (lo stesso luogo dove ha chiuso la sua campagna elettorale): pieno di riferimenti e di retorica religiosa, ma impregnato di nazionalismo. La riconversione in moschea è stata presentata anche come una «difesa della sovranità della Turchia», e a riprova che questa prospettiva intercetta le tendenze dell’elettorato turco vi è il fatto che, all’epoca, tra coloro che difesero la scelta di Erdoğan vi era anche Muharrem Ince, suo sfidante nel 2018 come candidato del CHP e candidato anche a queste ultime elezioni.

 

Cosa succede ora? Come ha scritto il Financial Times in un editoriale, Erdoğan non può perdere tempo crogiolandosi nel successo elettorale. La situazione economica è grave, e la lira ha ulteriormente perso valore dopo l’annuncio della vittoria del leader dell’AKP. Di fronte a questa situazione, la speranza dei mercati è che Erdoğan affidi la politica economica turca a una figura rispettata come l’ex ministro delle finanze Mehmet Şimşek. Tuttavia, il dubbio è il grado di libertà che anche Şimşek potrebbe avere (o non avere) per effettuare i cambi di linea necessari, come il rialzo dei tassi di interesse, ha detto l’economista Timothy Ash alla CNBC. Un articolo del Middle East Eye parla di un graduale rialzo dei tassi d’interesse fino al 25%.

 

Dal punto di vista della politica internazionale, invece, l’Occidente ha ricominciato a premere su Ankara per consentire l’ingresso della Svezia nella Nato. Il Paese scandinavo ha approvato la legge sul terrorismo che la Turchia riteneva fondamentale per dare il suo assenso all’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Stoccolma. Tuttavia, restano ancora alcuni ostacoli, che si intrecciano con la necessità della Turchia di accedere alla tecnologia militare americana. Soner Cagaptay ha sintetizzato così lo stallo davanti a cui ci troviamo: «il Congresso americano ritiene che la Turchia debba fare il primo passo e dare il via libera all’ingresso della Svezia. Ma Erdoğan dirà: “no, voglio che il Congresso faccia il primo passo, e approvi l’invio degli F-16”». Vedremo chi cederà per primo, ma la situazione testimonia quanto descritto da Aaron Stein su War on the Rocks: le élite di Stati Uniti e Turchia sono convinte che le controparti operino contro i propri interessi e le proprie ambizioni. Perciò, «la relazione ora è sostenuta meramente dall’inerzia istituzionale e dal fatto che i due Paesi sono legati da un trattato». Quanto potrà durare?

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