Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:23:03

Per la prima volta dall’inizio del conflitto, Israele e Hamas hanno raggiunto, dopo lunghi e difficoltosi negoziati con la mediazione dell’Egitto, degli Stati Uniti e soprattutto del Qatar, una tregua che, stando agli ultimi aggiornamenti, prevede: l’entrata in vigore, a partire dalle sette del mattino di oggi, 24 novembre, di un “cessate il fuoco” della durata di quattro giorni; il rilascio di almeno 50 donne e bambini prigionieri di Hamas (oggi è previsto il rilascio di 13 persone) in cambio della liberazione di 150 palestinesi, anch’essi donne e minorenni, detenuti nelle carceri israeliane; l’invio di beni di prima necessità a Gaza; il ritiro dell’esercito israeliano dalla strada Salah el-Din, l’unica arteria che attraversa la Striscia da nord a sud. Nel commentare l’evento, la stampa internazionale si è mostrata assai cauta: è vero che si tratta di un «primo passo» verso la cessazione delle ostilità, ma la crisi è lungi dall’essere risolta. Se La Croix titola che «la pausa è benvenuta, ma insufficiente», il Washington Post scrive che per lo Stato Ebraico «la guerra è tutt’altro che conclusa», mentre la testata cinese Global Times osserva con preoccupazione che quattro giorni di «pausa» salveranno poche vite, a meno che la comunità internazionale non si adoperi per a mettere in atto una tregua duratura.   

 

Commentando le ricadute della tregua, Zvi Bar’el osserva su Haaretz che l’accordo ha accresciuto a dismisura il ruolo del Qatar, che di fatto è in grado di esercitare fortissime pressioni su Hamas grazie alle sue cospicue elargizioni («funge da bancomat», scrive senza mezzi termini il giornalista). Col passare del tempo, questo «aiuto impressionante» ha permesso al piccolo Stato del Golfo di incrementare il suo peso politico, geostrategico ed economico nello scenario regionale. Doha ha quindi sovrastato il ruolo dell’altro attore arabo coinvolto, l’Egitto, che si limita a tatticismi legati alla gestione del valico di frontiera di Rafah. Il Middle East Eye, testata filo-qatarina, tesse le lodi di Doha, spiegando come il suo approccio moderato e razionale sia frutto di un lungo processo storico: in passato il Paese ha sempre cercato di presentarsi come un interlocutore serio e affidabile, «anche se – si ammette – la sua avventura nelle Primavere Arabe grava ancora sulla sua immagine». Il ruolo giocato nell’evacuazione del personale americano dall’Afghanistan nell’agosto del 2021 e la capacità di far da tramite tra Washington e Teheran hanno permesso al Qatar di sviluppare agenda e modus operandi molto diversi dagli altri Paesi del Golfo.  

 

Per quanto riguarda Israele, Yossi Verter riconosce su Haaretz che il cessate il fuoco non andrà a beneficio della campagna militare avviata dallo Stato ebraico: «si teme davvero che Hamas uscirà dalla tregua più forte, motivata e organizzata, il tutto a detrimento delle vite dei soldati che sono esposti a gravi pericoli. È quasi certo che negli ultimi giorni si verificheranno difficoltà, contrattempi e incidenti, così come alcuni ostaggi “non saranno più ritrovati”. Se qualcosa può andare storto, andrà sicuramente storto». Per il Guardian, l’accordo non implica in automatico che il governo israeliano ammorbidirà la sua posizione nei confronti di Hamas. Quello che è cambiato, dopo le tensioni tra il premier Netanyahu e le famiglie degli ostaggi, sono semmai le priorità: dopo alcune resistenze da parte di esponenti della destra estrema come il ministro della Sicurezza Nazionale Ben-Gvir, è passata la linea di mettere anzitutto in salvo i civili detenuti a Gaza, e di occuparsi dello sradicamento di Hamas solo più avanti. Su Le Monde Frédérique Leichter-Flack, professoressa di letteratura politica al centro storico di Sciences Po, discute la questione delle priorità da un punto di vista etico e spiega che il governo, pur andando incontro ai sentimenti dell’opinione pubblica, si trova ora di fronte a un nuovo dilemma morale: quello di aver approvato la lista delle cinquanta persone da liberare, presumibilmente stilata da Hamas, mettendo in conto il fatto che gli altri duecento ostaggi potrebbero non sopravvivere alla guerra che, stando a quanto riferito dal ministro della Difesa Yoav Gallant, continuerà per almeno altri due mesi.      

 

Quanto ad Hamas, l’emittente qatariota Al Jazeera non esita ad attribuire al movimento una «importante vittoria psicologica, politica e strategica». Dal punto di vista militare, però, l’organizzazione terrorista avrà poco da guadagnare perché con così pochi giorni di tregua non avrà tempo materiale per riorganizzare le difese. Per contro, la testata libanese L’Orient-le Jour sostiene che Hamas ha un gran bisogno di chiudere questo accordo, in quanto permette di riorganizzare le milizie e di ricevere rifornimenti vitali. Inoltre, esso dimostra alla popolazione di Gaza che Hamas è attiva anche sul piano diplomatico ed è determinata a liberare i detenuti palestinesi. L’identità di queste persone non è chiara: secondo Al Jazeera si tratta di persone che sono state tradotte in carcere in maniera arbitraria e che comunque non sono accusate di omicidio. Per Haaretz, invece, appartengono a diverse sigle della Resistenza: Hamas, al-Fatah, Fronte del Jihad Islamico e Fronte Popolare.     

 

Gli houthi alzano la posta, per i sauditi aumentano i dilemmi [a cura di Claudio Fontana]

 

Mentre la diplomazia internazionale ha lavorato per raggiungere il rilascio di alcuni ostaggi e l’entrata in vigore di una tregua almeno temporanea a Gaza, nella regione continuano gli attacchi delle forze legate al cosiddetto Asse della Resistenza. Questa settimana i ribelli houthi yemeniti hanno dirottato la Galaxy Leader, una nave cargo di proprietà di un cittadino israeliano, gestita da un armatore giapponese e battente bandiera delle Bahamas, mentre si trovava nel Mar Rosso diretta in India. Gli houthi hanno diffuso un video dell’operazione, dove si osserva un elicottero con bandiere dello Yemen e della Palestina atterrare sulla nave e far scendere i militari che si impossessano dell’imbarcazione. Pensare che le forze di un Paese distrutto da anni di guerra compiano un’operazione come questa senza l’apporto degli alleati iraniani risulta difficile, nonostante le smentite del portavoce del ministero degli Esteri della Repubblica islamica. Non a caso gli israeliani hanno immediatamente accusato Teheran di essere dietro a questo «atto di terrorismo». Secondo Zoran Kusovac (Al Jazeera) sono soltanto tre le opzioni per impedire che le 50 navi che in media attraversano ogni giorno lo stretto di Bab el-Mandeb siano sottoposte al rischio-dirottamento: inviare navi armate al seguito di quelle commerciali, distruggere o limitare fortemente la capacità offensiva in mare degli houthi, oppure persuaderli a non compiere gesti di questo tipo. Le prime due opzioni sono estremamente rischiose secondo Kusovac, e dunque non resta che la terza che, però, passa dal coinvolgimento iraniano. Inoltre, secondo Farea al-Muslimi (Chatham House) la rinnovata azione regionale degli houthi mette a rischio il processo di pacificazione del conflitto che ha devastato lo Yemen a partire dal 2014: se fino a prima della guerra a Gaza sembrava che un accordo di pace fosse ormai in procinto di essere firmato, ora le cose si sono complicate. In particolare, secondo al-Muslimi l’Arabia Saudita è preoccupata che firmare un accordo con gli houthi possa provocare l’ira statunitense: come accordarsi su «un ampio accordo di pace con un gruppo che lancia razzi verso Israele e attacca navi commerciali?». Il quadro peggiorerà ulteriormente qualora avesse ragione Abdulghani Al-Iryani, ricercatore del Sana’a Center for Strategic Studies, secondo il quale gli houthi traggono un beneficio in termini di politica interna dall’azione contro Israele e, pertanto, proseguiranno con questo tipo di attività.

 

Gli houthi non sono gli unici a colpire obiettivi legati agli Stati Uniti o a Israele nella regione. A partire dal 17 ottobre in Iraq e Siria sono stati diversi gli attacchi contro basi americane e martedì, per la prima volta, Washington ha risposto in Iraq, colpendo due centri operativi e di comando di Kataeb Hezbollah, milizia legata all’Iran su cui Baghdad esercita scarso controllo. Finora gli Stati Uniti hanno circoscritto il più possibile la loro reazione, soprattutto in Iraq, nel timore che un approccio più muscolare potrebbe rinvigorire il sentimento antiamericano nel Paese. Secondo il Washington Post la mancata risposta americana e l’assenza di un deterrente nei confronti dei continui attacchi (61 nel periodo 17 ottobre-17 novembre, secondo i dati del quotidiano americano) hanno generato malcontento anche all’interno del Dipartimento della Difesa statunitense.

 

Secondo Simon Henderson (direttore del Bernstein Program on Gulf and Energy Policy) sia l’azione degli Houthi che i possibili tagli alla produzione di petrolio potrebbero spingere i prezzi del greggio nuovamente verso l’alto. Nel week end, ha ricordato Henderson, è prevista una riunione dell’OPEC+ e non vanno sottostimate le pressioni cui sono sottoposti i leader del Golfo da parte della propria popolazione, che chiede una risposta alla guerra a Gaza anche utilizzando l’arma dei mercati energetici. Kuwait, Algeria e Iran sono descritti come i Paesi «più agitati», ma sarà interessante anche vedere come il principe ereditario saudita «bilancerà il suo status nel mondo con le pressioni dei comuni sauditi», ha scritto Henderson. Come ha ricordato Ahmad Ghaddar (Reuters) è in particolare l’Iran a chiedere che il petrolio venga usato come un’arma per colpire Israele. Tuttavia, è estremamente difficile che si arrivi a un embargo come quello messo in atto nel 1973: lo scenario geopolitico è radicalmente diverso e oggi «due terzi delle esportazioni di petrolio del CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo) sono acquistate da clienti asiatici. [Inoltre] la trasformazione economica attualmente pianificata e attuata nella regione richiede una prolungata assenza di conflitti», ha scritto JP Morgan. In particolare, è la Cina, la cui presenza politica in Medio Oriente è in crescita, a figurare al primo posto tra i compratori di greggio mediorientale. Dunque, sarebbe Pechino la più colpita da un forte rialzo dei prezzi conseguente a un eventuale embargo energetico.

 

Proprio la Cina è stata chiamata in causa per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese da una delegazione arabo-islamica guidata dal principe Faisal bin Farhan, ministro degli Esteri saudita. La delegazione composta da esponenti di Arabia Saudita, Egitto, Giordania e Indonesia (tutti alleati degli Stati Uniti…) e delegati dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica ha incontrato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi nel tentativo non solo di favorire l’accordo per una tregua, ma anche di «esercitare pressione per il lancio di un processo politico serio che porti al raggiungimento di una pace duratura e integrale», come ha riportato il Financial Times. Dal canto suo, Wang ha ricordato che la Cina «si oppone a qualsiasi spostamento e trasferimento forzato di civili palestinesi, [mentre] Israele dovrebbe fermare la punizione collettiva nei confronti della popolazione di Gaza, aprire corridoi umanitari il prima possibile e prevenire un disastro umanitario su larga scala».

 

L’iniziativa diplomatica saudita non è consistita solo nel viaggio in Cina ma anche nell’intervento da remoto di MbS al summit dei Paesi BRICS, durante il quale il principe ereditario ha richiesto lo stop alle esportazioni di armi verso lo Stato ebraico. Più significativa, secondo quanto riportato da Le Monde, è la sostanziale assenza di una posizione univoca all’interno dei Paesi BRICS+ (gli attuali membri più Argentina, Egitto, Etiopia, Arabia Saudita e Iran), che falliscono l’occasione per esprimere la «voce del Sud Globale».

 

In breve

 

Secondo un nuovo report di Human Rights Watch il governo cinese continua a discriminare i musulmani. Molte moschee sono state chiuse, demolite o convertite ad altri usi nelle province di Ningxia e Gansu, nel tentativo di limitare le possibilità di praticare l’Islam.

 

Sono ormai 9.000 i morti nel conflitto in Sudan e 5,6 milioni gli sfollati (Guardian). Secondo l’esperta ONU Alice Wairimu Nderitu è molto alto il rischio di ripetizione di un genocidio nel Darfur.

 

Dopo un prolungato e gravissimo periodo di siccità, violenti inondazioni hanno improvvisamente colpito la Somalia, provocando la morte di almeno 50 persone e la fuga di 500.000 (Guardian).

 

In Olanda il politico anti-Islam Geert Wilders ha vinto le elezioni ed è il primo indiziato per formare un governo di coalizione (Associated Press).

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