Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:09:50

La crisi del Nagorno-Karabakh ha subito un’accelerazione martedì, quando le forze dell’Azerbaijan hanno scatenato una fulminea offensiva nel territorio armeno che si trova al suo interno e che nel 1991 ha proclamato la propria indipendenza. Come scrive tra gli altri l’Economist, gli azeri hanno approfittato della situazione creatasi con la guerra in Ucraina e dell’impossibilità russa di intervenire in favore dell’Armenia, Stato tradizionalmente collocato nell’orbita geopolitica di Mosca. Così, è stata del tutto ininfluente la presenza di un corpo militare russo stanziato lungo il corridoio di Lachin, che collegava il Nagorno-Karabakh all’Armenia. Il blitz, il cui bilancio finale è di circa duecento morti, è terminato mercoledì, e giovedì l’autoproclamato governo dell’Artsakh (il nome armeno del Nagorno-Karabakh) ha incontrato le autorità azere per discutere una resa. Lo scenario attuale è quello di un Azerbaijan che si prepara a “integrare” gli Armeni, mentre i suoi protettori vecchi e nuovi stanno a guardare. Le Monde ha riportato infatti che allo scoppio dell’offensiva, il presidente armeno Nikol Pashinyan ha immediatamente sentito il segretario di Stato americano Antony Blinken e il presidente francese Emmanuel Macron, ma per il momento questi contatti non hanno portato a nulla. L’Azerbaijan ha invece potuto contare sul sostegno dei suoi alleati, a partire dalla Turchia di Erdoğan, il quale all’Assemblea delle Nazioni Unite ha esplicitamente affermato che il Karabakh è territorio azero. L’offensiva ha avuto ripercussioni immediate nella capitale armena, dove il presidente è stato accusato di tradimento dai suoi connazionali, che si sono scontrati con la polizia di fronte agli edifici governativi e presso l’ambasciata russa. Come riferisce il New York Times, a Pashinyan come ai russi è imputato l’abbandono dei centoventimila armeni etnici che si trovano adesso segregati in Azerbaijan. Intanto, il presidente azero Ilham Aliyev ha dichiarato che creerà «un paradiso» per gli abitanti del Nagorno e che il primo incontro tra le controparti tenutosi giovedì a Yevlakh è avvenuto in un’atmosfera «costruttiva e positiva». L’opinione pubblica armena ha accolto queste dichiarazioni «con qualche perplessità», riporta eufemisticamente il giornale.

 

Il quotidiano francese La Croix sottolinea la faglia religiosa che sta alla base dell’ormai trentennale conflitto nel Nagorno. «La questione religiosa è al centro del conflitto dell’Alto Karabakh, dal momento che abbiamo a che fare con Paesi dove non si separa il politico dal religioso», ha affermato al giornale cattolico Monsignor Pascal Gollnisch, direttore dell’Œuvre d’Orient. Gollnisch ha anche fatto notare come l’attacco azero riproponga la questione armena. Infatti, se «l’Alto Karabakh sarà abbandonato, l’Armenia sarà minacciata a sua volta». Peraltro l’atteggiamento degli azeri, che nella loro avanzata stanno devastando anche il millenario patrimonio architettonico cristiano degli armeni, riesuma tragicamente il passato: «discorsi e gesti come l’esibizione di un francobollo che mostra un soldato azero mentre spruzza un insetticida su un armeno ricordano direttamente il genocidio del 1915».

 

Derna il giorno dopo [a cura di Mauro Primavera]

 

Le proporzioni del disastro di Derna hanno fatto sì che la stampa internazionale sia tornata a occuparsi della Libia. Come avevamo scritto la scorsa settimana, l’incuria e l’assenza di manutenzione delle dighe sono i fattori principali, insieme al cambiamento climatico, della piena del wadi. Eppure, nota il Financial Times, qualche campanello d’allarme era stato lanciato: un report del 2021 commissionato da un’agenzia statale (presumibilmente il governo di Tobruq) sottolineava il degrado delle due infrastrutture; la cosa più grave è che le autorità locali avevano ricevuto dallo Stato più due milioni di dollari tra il 2012-13 per ripararle. Inoltre, nel novembre 2022 uno studio pubblicato sulla rivista di un’università libica (non si specifica quale) segnalava la presenza di crepe negli invasi. La situazione geopolitica nel Mediterraneo – che vede una pletora di attori regionali in competizione tra loro per esercitare un’influenza politica su Tripoli – non ha favorito la nascita di un programma internazionale per la ricostruzione del Paese e per la sua riunificazione statuale. Per la testata l’unico effetto positivo, se così si può dire, è che ora l’Occidente è tornato a interessarsi della Libia: il deterioramento dei già fragili apparati istituzionali potrebbe infatti favorire l’ingresso della Russia e di nuovi gruppi estremisti, minacciando la stabilità dell’intero Nordafrica.    

 

Il fattore umano incide anche sull’intensità e nell’eccezionalità della tempesta “Daniel. Il Wall Street Journal riferisce che in realtà il Centro Meteorologico Nazionale libico basato a Tripoli (e quindi dipendente dal governo di Dbeiba) era riuscito, nonostante l’assenza di personale e la mancanza di sistemi di osservazione tecnologicamente avanzati, a segnalare l’arrivo di “Daniel” con settantadue ore di anticipo: sarebbero state le autorità del governo libico concorrente, quello di Tobruq e del generale Haftar, a non aver provveduto all’evacuazione dei cittadini.  

 

A tal proposito, The New York Review pubblica un lungo reportage sul “centro meteorologico nazionale” della capitale che, non avendo a disposizione una struttura dedicata, al momento è situato in «un anonimo edificio di cemento nascosto lungo via Qurji». Il direttore Ali Salem Eddenjal racconta come gli effetti del cambiamento climatico siano visibili anche agli occhi dei non esperti: in Libia l’innalzamento della temperatura media è fra i più alti del mondo (si prevede un aumento di due gradi entro il 2050), il livello del mare sale di tre millimetri all’anno, le precipitazioni diventano sempre più rare e violente. Una situazione ambientale del genere, associata all’instabilità politica e alle devastazioni belliche, sta creando le condizioni per una “tempesta perfetta” (espressione che dà il titolo all’articolo) dalle conseguenze tragiche. Inoltre, i pochi campi adatti alle coltivazioni sono stati confiscati dalle tante milizie locali per edificare appartamenti e negozi. La mala gestione non è una novità della guerra civile: il colonello Gheddafi (che questa settimana è al centro delle osservazioni della stampa araba) negli anni Ottanta aveva promosso la deforestazione delle esigue aree alberate per dar vita a «utopiche collettivizzazioni della proprietà». Per contenere gli effetti del riscaldamento climatico che minaccia la produzione agricola e orto-frutticola, vitale per un Paese in gran parte arido e desertico, il governo di Tripoli ha fatto ben poco: l’iniziativa più rilevante del primo ministro Dbeiba è stata quella di aprire nella città di Misurata un nuovo osservatorio meteorologico: peccato che il direttore, osserva costernato Eddenjal, non sia uno scienziato, bensì un avvocato. 

     

Per quanto riguarda la macchina dei soccorsi, Al Jazeera nota la differenza del modus operandi tra le due Libie: il governo di Dbeiba, riconosciuto dalle Nazioni Unite, ha ricevuto aiuti internazionali, mentre quello di Haftar ha fatto affidamento sull’aiuto dei suoi alleati, in particolar modo dal vicino Egitto. La competizione fra le due istituzioni non si è fermata nemmeno in un momento così delicato: il generale Haftar avrebbe infatti utilizzato la tragedia per lanciare la carriera politica dei figli: Saddam si è fatto carico della gestione dei flussi di aiuti umanitari, mentre al-Siddiq, in questi giorni in Europa in cerca di sostegno politico, non ha fatto mistero di volersi candidare in futuro per la presidenza dello Stato libico unificato. Nel frattempo la lentezza dei soccorsi e le inefficienze del governo di Tobruq hanno portato la popolazione di Derna a manifestare in piazza contro il sindaco e lo speaker del parlamento di Tobruq Aguila Saleh, anche se ha evitato di mettere in discussione la leadership del generale Haftar. Quest’ultimo ha ritenuto comunque opportuno adottare le dovute contromisure: stando all’organizzazione Democracy for the Arab World Now (DAWN), il generale della Cirenaica avrebbe rallentato di proposito i soccorsi e tagliato Derna fuori dal mondo, vietando alla popolazione di manifestare. La giornalista Sarah Dadouch parla di una vera e propria censura mediatica che ha bloccato non solo il lavoro dei reporter occidentali e arabi, ma anche le attività delle squadre di soccorso delle Nazioni Unite.

 

Israele-Arabia Saudita: stop alla normalizzazione. O forse no [a cura di Claudio Fontana]

 

L’azione diplomatica dell’Arabia Saudita continua a muoversi in molteplici direzioni, tanto nel contesto regionale (relazioni con i vicini emiratini, negoziati con gli houthi, eventuale normalizzazione con Israele) quanto a livello internazionale, dove continua a tenere banco la questione dei rapporti con gli Stati Uniti. Su tutti questi temi ci sono stati sviluppi importanti questa settimana.

 

Cominciamo dalle trattative in merito alla normalizzazione con Israele. Secondo una notizia riportata domenica dal quotidiano saudita Elaph, l’Arabia Saudita avrebbe informato gli Stati Uniti dell’intenzione di sospendere i negoziati, nonostante le pressioni di Washington. Il motivo andrebbe rintracciato nell’indisponibilità del governo di estrema destra israeliano a fare concessioni significative ai palestinesi. Pesano, in particolare, le posizioni oltranziste dei ministri Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, che impediscono ogni passo avanti perchè «senza progressi con Ramallah, non possono esserci progressi con Riyad», si legge su Elaph. Il Times of Israel, tra gli altri, scrive però che la notizia data dal quotidiano saudita sarebbe stata smentita da funzionari americani e israeliani. In effetti, a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, si è tenuto un incontro bilaterale tra il presidente americano Joe Biden e il primo ministro Benjamin Netanyahu durante il quale la normalizzazione con Riyad è stata argomento di discussione.

 

Di certo, quello dei rapporti con i palestinesi resta uno dei punti più sensibili della trattativa. Un aspetto sul quale anche chi ha già compiuto il passo della normalizzazione, come gli Emirati, continua a scontrarsi. Martedì il Ministero degli Esteri emiratino ha infatti dovuto diramare l’ennesimo comunicato di condanna di quanto avvenuto nel complesso di al-Aqsa, dove i coloni israeliani protetti dalla polizia hanno attaccato i musulmani a Bab as-Silsila, uno degli ingressi principali alla moschea. I problemi non sono però legati soltanto alle azioni di figure estremiste, ma anche al ruolo dell’Autorità Palestinese. Quest’ultima dovrebbe avere un ruolo fondamentale nel caso di creazione di uno Stato palestinese, condizione verosimilmente richiesta da Riyad. Secondo Ben Caspit (Al-Monitor) Netanyahu ha ormai completamente rovesciato la sua politica nei confronti di Ramallah: fino a fine 2022 «Netanyahu ha cercato di indebolire la AP in Cisgiordania e di rafforzare il suo rivale Hamas nella striscia di Gaza. Era una strategia per perpetuare la divisione tra Gaza e West Bank ed escludere ogni possibilità di una rafforzata leadership palestinese a Ramallah che avrebbe potuto essere [considerata] un partner per la pace con Israele». Ora, al contrario, l’interesse di Netanyahu è il rafforzamento dell’Autorità Palestinese, aiutata anche con la fornitura di blindati e armamenti per cercare di favorire il controllo su Jenin e Nablus. Il problema per Netanyahu è quanto a lungo potrà sostenere questa politica: per alcuni dei suoi alleati di governo, a cominciare dai già citati Smotrich e Ben-Gvir, gli obiettivi sono diametralmente opposti, tanto da minacciare la tenuta della coalizione di maggioranza da cui dipende il futuro (politico, ma anche giudiziario) di Netanyahu.

 

Tornado dall’altro lato delle negoziazioni, come ha scritto Thomas Friedman sul New York Times, sia i sauditi che gli americani stanno valutando se intraprendere azioni importanti e politicamente molto costose pur di raggiungere l’obiettivo diplomatico della normalizzazione. Per convincere Riyad, Washington si è spinta fino a offrire nuove garanzie securitarie a Riyad. La novità di questi giorni è che la Casa Bianca sembra pronta a mettere nero su bianco il suo impegno militare nei confronti dell’alleato del Golfo, proponendo un accordo di mutua difesa sul modello di quelli in essere con Giappone e Corea del Sud, considerati tra i più stringenti che gli Stati Uniti abbiano mai firmato al di fuori di quelli previsti dal Trattato Atlantico. Secondo funzionari sauditi citati dal New York Times, «un forte accordo di difesa scoraggerebbe possibili attacchi da parte dell’Iran» e delle milizie di cui spesso e volentieri si serve. Resterebbe comunque da superare, nota il quotidiano americano, l’opposizione congressuale nei confronti di un accordo che, dopo anni di guerre americane in Medio Oriente, rischierebbe di riportare soldati americani a combattere nella regione. Fino a pochissimi anni fa soltanto l’idea di un accordo di questo tipo sarebbe sembrata assurda, ricordando l’ostilità con cui Biden ha trattato Mohammed bin Salman. Tuttavia, l’idea americana è che un accordo di questo tipo porterebbe vantaggi geopolitici anche per gli Stati Uniti, perché sarebbe un passo verso l’allontanamento di Riyad dall’influenza della Cina, sempre più presente nel Golfo.

 

Intanto ci sono altri attori regionali che sostengono la spinta verso la normalizzazione: è il caso della Turchia di Erdogan, il quale durante un briefing a New York ha fatto sapere che Ankara considera positivamente ogni sforzo verso la diminuzione delle tensioni nell’area. Secondo una fonte turca interpellata da Ragip Soylu per Middle East Eye, «il sostegno turco alla normalizzazione è soltanto la continuazione e la riflessione di una politica generale. La normalizzazione può diventare una leva politica per spingere Israele ad agire in maniera più intelligente nella regione».

 

Oltre all’uccisione di Jamal Khashoggi, era l’intervento saudita in Yemen ad aver provocato l’avversione di Biden nei confronti dell’Arabia Saudita. Dopo i passi avanti fatti nei mesi scorsi, questa settimana una delegazione houthi si è recata in Arabia Saudita, dove ha avuto cinque giorni di colloqui insieme anche ai mediatori omaniti. Seguiranno consultazioni in patria e «presto» ci saranno nuovi incontri, riporta al-Jazeera. Secondo l’emittente qatarina «sono stati fatti dei progressi su alcuni dei principali punti critici tra Houthi e Arabia Saudita, tra cui un calendario per il ritiro delle truppe straniere dallo Yemen e un meccanismo per il pagamento dei salari pubblici». Il ministero degli Esteri saudita, scrive l’Associated Press, ha parlato di «risultati positivi». Anche in questo caso la diplomazia regionale si intreccia con quella internazionale: è in Yemen che sono emerse le crepe più significative nel rapporto tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi, con questi ultimi che sostengono il Consiglio di Transizione del Sud con le sue aspirazioni separatiste. Gli Stati Uniti, si legge sul Financial Times, sono preoccupati che le divergenze tra Riyad e Abu Dhabi rallentino gli sforzi per porre fine a uno dei più sanguinosi conflitti scoppiati dopo il 2011. Una pace che servirebbe proprio a convincere anche i più scettici membri del Congresso nei confronti di un eventuale accordo per la difesa dell’Arabia Saudita.

 

Lo scambio di ostaggi sanziona lo status quo delle relazioni tra Iran e Stati Uniti [a cura di Francesco Pessi]

 

Interpellato da Susannah George, corrispondente del Washington Post dal Golfo, l’esperto di Iran Ali Vaez sostiene che lo scambio di prigionieri avvenuto lunedì tra Iran e Stati Uniti (con annesso scongelamento di sei miliardi di dollari sudcoreani) non è altro che «il frutto a maggior portata di mano» tra le questioni al momento appese all’albero della diplomazia. Lo scambio, quindi, non va visto tanto come un successo diplomatico, quanto come un passo inevitabile. Questo sostanziale scetticismo è condiviso dal Financial Times, che riporta la sfiducia espressa dal presidente iraniano Ebrahim Raisi nel contesto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in questi giorni a New York. È poi la testata israeliana Haaretz a sottolineare ancora l’imprescindibilità della questione nucleare in un potenziale tavolo di trattativa sulle sanzioni o sul reciproco status diplomatico. A commento del rilascio, il britannico Guardian allega le dichiarazioni di uno dei cinque ostaggi liberati, Siamak Namazi, che era agli arresti in Iran da ben otto anni. Namazi, intervistato, ha sottolineato come l’unica soluzione agli abusi di Teheran sia «l’assunzione di misure draconiane rispetto al Paese, mentre molti fanno ancora profitti con il regime iraniano». L’Economist, pur facendo eco al Washington Post riguardo all’impasse nucleare, definisce lo scambio come parte di una «più ampia strategia diplomatica» che di fatto concilia le necessità attuali di entrambi i governi. Raisi continua a usare la diplomazia degli ostaggi per combattere l’inflazione (il periodico arresto di cittadini con doppio passaporto è divenuto ormai uno strumento del regime per riscuotere un po’ di liquidità). Tuttavia, il recente rallentamento sul nucleare serve a dimostrare agli americani che più che al revisionismo l’Iran punta al mantenimento dello status quo. Tale strategia si sposa con la prudenza del presidente Joe Biden, il quale non è assolutamente disposto a fare mosse arrischiate in vista delle elezioni 2024. Secondo l’Economist, Biden si accontenterebbe di un memorandum di massima per minimizzare i costi politici della questione iraniana.

 

I funzionari americani sottolineano che i sei miliardi di pagamenti sbloccati dalla Corea del Sud rappresentano un condono, e non un pagamento, avvenuto peraltro via Qatar e quindi non accreditato direttamente all’Iran. Ma è propria la consistenza della somma a scatenare le critiche di parte della stampa americana. In particolare, il Wall Street Journal si chiede come verranno utilizzati i fondi, dal momento che le rassicurazioni di Biden in proposito (le banche qatariote che li gestiscono dovrebbero garantirne l’utilizzo “a scopo umanitario”)  non sembrano sufficienti a evitare che il Paese disponga di nuovo budget militare e terroristico. Il giornale ricorda la polemica innescata dall’amministrazione Trump su condoni e trasferimenti di liquidità all’Iran effettuati da Obama all’indomani della sigla del JCPOA. L’Iran importa annualmente cibo, medicine e beni primari dall’estero per un valore di dieci miliardi di dollari, il che implica che i nuovi soldi disponibili per l’import farebbero guadagnare al regime margine per altri tipi di spese interne. Di taglio diverso la critica della ricercatrice Sahar Soleimany sulle pagine di The Hill. Soleimany non polemizza tanto sull’entità economica dello scambio, quanto sul fatto che esso avvenga sulla pelle di quanti, in Iran, si sono battuti e si battono per libertà e democrazia. Nell’anniversario della morte di Mahsa Amini, l’attivista uccisa l’anno scorso dal regime per non aver indossato il velo, il riscatto pagato dagli Stati Uniti appare così come il duplice simbolo della sostanziale arrendevolezza degli americani di fronte all’autoritarismo e dell’irrisone al sacrificio di tanti cittadini della repubblica islamica.

 

Per finire, al-Jazeera riporta la ricezione iraniana. La testata ultraconservatrice Keyhan titola senza mezze misure che “l’America si inginocchia di fronte all’Iran”, con chiaro riferimento alla transazione economica; lo scambio sarebbe anche la confessione occidentale della propria sconfitta. Il più equilibrato Shargh invece, giornale di indirizzo riformista, parla di «passo diplomatico positivo».

 

In breve

 

Il re del Marocco ha annunciato un piano del valore di 11 miliardi di dollari per la ricostruzione delle zone colpite dal terremoto.

 

Cristiano Ronaldo era a Teheran lunedì. Il suo al-Nasr ha sfidato i campioni iraniani del Persepolis nell’ambito dell’Asia Football Confederation Champions League. La città era in fibrillazione per questa presenza inedita e non priva di ricadute politiche. Il match, giocato martedì, e finito 2-0 per la squadra araba (Financial Times).

 

Hisham Kassem, editorialista del quotidiano liberale cairota Al-Masri al-Yawm, è stato condannato a tre mesi di carcere per avere insultato il ministro del Lavoro, e ad altri tre per aver attaccato verbalmente tre poliziotti. L’arresto va letto alla luce dell’avvicinarsi delle elezioni presidenziali e del fatto che Kassem sia una delle voci più audaci dell’opposizione al presidente al-Sisi, in carica dal 2013 (Wall Street Journal).

 

 

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