Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:21:20

Lo scorso fine settimana è iniziata la cosiddetta “fase due” dell’attacco israeliano su Gaza. Questa prevede, oltre ai bombardamenti aerei, un maggiore dispiegamento di soldati sul terreno. In teoria, il compito della fanteria dovrebbe essere quello di avanzare all’interno della Striscia, stringere d’assedio la città di Gaza, eliminare i combattenti di Hamas e distruggere i loro rifugi sotterranei, cercando di limitare al massimo i danni alle strutture civili e ai quartieri densamente abitati. La realtà, però, è molto diversa: l’attacco missilistico di martedì scorso sul campo profughi di Jabaliya, dove l’esercito israeliano aveva individuato la presenza di alcuni elementi di Hamas, ha creato un immenso cratere e provocato la morte di decine di civili; secondo le brigate al-Qassam, anche sette ostaggi rapiti il 7 ottobre hanno perso la vita. Come riporta il Guardian, il portavoce delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), Daniel Hagari, ha difeso l’operazione sostenendo che il raid ha ucciso Ibrahim Biari, comandante del battaglione di Jabaliya, e diversi suoi compagni; il militare ha inoltre precisato che la voragine formatasi sull’ex campo profughi è stata causata dal collasso della “metro”, come gli israeliani chiamano l’intricata rete segreta di cunicoli che si snoda sotto le città della Striscia, piuttosto che dai missili dell’aviazione. Ma il Guardian, quasi a mettere in dubbio la versione di Hagari, ha commentato severo: «l’entità delle devastazioni causate da queste armi è tale che Israele deve avere una solida giustificazione militare per averle usate in un’area abitata da moltissimi civili».

 

Il massacro di Jabaliya ha infatti sollevato un’ondata di sdegno e riprovazione a livello internazionale: Cile, Colombia, Giordania e soprattutto Bahrein, che tre anni fa era stato tra i firmatari degli Accordi di Abramo, hanno richiamato i loro ambasciatori; la Bolivia ha rotto le relazioni diplomatiche con Tel Aviv accusandola di essere responsabile del “genocidio del popolo palestinese”. Il segretario di Stato Antony Blinken ha ribadito il sostegno degli Stati Uniti a Israele, ma allo stesso tempo ha sottolineato l’importanza di garantire il soccorso umanitario e la protezione dei palestinesi. In questo discorso si inserisce la recente riapertura del valico meridionale di Rafah, al confine con l’Egitto, a stranieri e palestinesi con doppio passaporto. Per quanto vitale per il transito degli aiuti, la riattivazione del check-point è osteggiata dal presidente al-Sisi, che teme un “effetto valanga”, con decine di migliaia di sfollati pronti a riversarsi nella penisola del Sinai. Per un Paese affetto da una grave e prolungata crisi economica, la nascita di tendopoli nel deserto sarebbe foriera di problemi di ordine logistico, securitario e financo politico. 

 

Sgomento e preoccupazione sono presenti in gran parte della stampa occidentale: la BBC ha confermato che le IDF hanno colpito anche le città meridionali della Striscia, Rafah e Khan Younis, che dovevano essere “zone sicure” per i civili in fuga dal settore Nord, devastato dal fuoco dell’aviazione e dell’artiglieria. Per il quotidiano francese Le Monde, colpire Hamas nascosta in mezzo alla popolazione locale è una «strategia impossibile» e sottolinea come per i generali israeliani il bombardamento indiscriminato costituisca, di fatto, una scelta obbligata. Anche i media dello Stato ebraico riconoscono i pericoli dell’invasione terrestre. Joe Buccino, ex colonnello dell’esercito americano, la paragona sul The Times of Israel alla guerra del Vietnam: come i marines americani, equipaggiati con armi all’avanguardia, subivano le imboscate dei Viet Kong asserragliati nei tunnel “Cu Chi” scavati a mani nude sotto la jungla, così i soldati israeliani rischiano la vita tra le strette vie di Gaza. Eppure Tel Aviv, sostiene Buccino, non può permettersi di commettere passi falsi: gli «occhi del mondo» sono puntati su Gaza e la retorica di Netanyahu sullo “sradicamento di Hamas” e sulla “guerra di indipendenza” risulta inconsistente: l’attuale governo israeliano dovrà condurre campagne militari il più equilibrate possibili, riportare a casa gli ostaggi sani e salvi, salvaguardare la rete di alleanze nella regione, vincere la guerra di informazione e, soprattutto, spiegare chi governerà Gaza, una volta che Hamas verrà sconfitto. «Il cordoglio internazionale per gli attacchi del 7 ottobre sta svanendo rapidamente» osserva Amos Harel sul quotidiano israeliano Haaretz, e l’orrore di Gaza si sta sostituendo a quello di Sderot e Ofakim.  

 

La reazione israeliana è talmente violenta che un editorialista del Washington Post, Ishaan Tharoor, l’ha paragonata alla strategia della Roma imperiale, citando la frase che Tacito fa pronunciare a Calgaco, il capo dei Caledoni che organizzò l’ultima disperata resistenza all’invasione romana della Britannia  (“fanno il deserto e lo chiamano pace”), a indicare la furia distruttiva propria tanto degli imperi del passato quanto delle potenze contemporanee. Per Tharoor, l’attacco a Jabaliya si basa sul principio della “punizione collettiva” da impartire all’intero popolo palestinese, in crescente diffusione all’interno della società israeliana: «molti cercano un risultato definitivo, non solo la sconfitta totale di Hamas, ma la distruzione di Gaza e l’intero contesto in cui si è sviluppata Hamas». Significativa, a tal riguardo, la presa di posizione di diversi rabbini israeliani che hanno vergato e inviato al premier Netanyahu una lettera in cui asseriscono che, dal punto di vista della legge ebraica (halakha), non vi è alcuna proibizione nel bombardare gli ospedali dove i miliziani utilizzano i civili come scudi umani. Come rivela Middle East Eye, gran parte dei religiosi firmatari della missiva intrattengono stretti rapporti con l’estrema destra israeliana. Tra gli altri, «Dov Lior è il leader spirituale di tutta la “Coalizione Sionismo Religioso” che comprende Sionismo Religioso e Potere Ebraico, guidato da Itamar Ben-Gvir […] Zvi Yisrael Tau è capo dell’influente scuola sionista Har Hamor Yeshiva di Gerusalemme e leader spirituale del partito anti-LGBTQ Noam». Su questo revival ultra-ortodosso si concentra anche il giornalista israeliano Uri Misgav su Haaretz: “Attenta, Israele: in tempo di guerra, gli apocalittici ebrei ultra-ortodossi sono in estasi”: «i loro occhi brillano. Parlano di una seconda Nakba. Credono che questi siano i giorni del Messia», senza considerare in alcun modo l’acuirsi della crisi umanitaria nella Striscia e lo spaventoso numero di vittime causate dai bombardamenti. «Per i sionisti haredì [ultraortodossi], questioni del genere sono una dannosa perdita di tempo. Gaza è Amalek e deve essere eliminata dalla faccia della Terra».

 

Anshel Pfeffer, editorialista di Haaretz, segnala invece lo stato confusionale in cui versa Netanyahu. La conferenza stampa tenutasi lo scorso sabato, che avrebbe dovuto rilanciare la sua figura, è stata un disastro. Tra errori, contraddizioni, ripetizioni, scaricabarile e voce in falsetto, il premier ha risposto solo a sette domande sulle dodici concordate, soppesando qualsiasi parola per timore di venire attaccato. The New Arab lo schernisce soprannominandolo “Mr. Security” e chiosa: «il 2023 sarà senza dubbio ricordato come un anno critico per Israele. Quanto a Netanyahu, quest’anno ha inequivocabilmente dimostrato più di qualsiasi altro quanto egli è inadatto a governare il Paese, sia in tempo di pace che di guerra. Con metà degli israeliani che chiedono le sue dimissioni, e i rivali politici che lo vogliono fuori, la sua lunga lotta per la sopravvivenza politica è probabilmente giunta a termine».   

 

Aumenta la violenza in Cisgiordania [a cura di Francesco Pessi]

 

Mentre l’attenzione di osservatori e analisti è fissa su Gaza, a partire dallo scoppio del conflitto anche in Cisgiordania si è assistito a un aumento delle aggressioni dei coloni ebrei nei confronti dei palestinesi. È, tra gli altri, il quotidiano libanese L’Orient le Jour a segnalarlo nel commento a un recente rapporto dell’Ufficio Affari Umanitari delle Nazioni Unite. I dati sul numero di incidenti tra coloni e residenti palestinesi riportati dall’Ufficio indicano un vertiginoso aumento degli episodi di violenza: si è passati da una media di tre al giorno nel periodo pre-7 ottobre a una di sette. In quindici comunità rurali novantotto famiglie sono state espulse dalle proprie case, per un totale di circa ottocento persone nell’ultimo mese. In un terzo dei centosettanta incidenti segnalati dalle Nazioni Unite i coloni hanno utilizzato armi da fuoco; in metà degli attacchi armati i coloni erano scortati o «attivamente supportati» dalle forze armate israeliane, con un bilancio totale di 26 vittime palestinesi.

 

 L’aumento delle violenze ha spinto il presidente americano Joe Biden a dichiararsi preoccupato dai «coloni estremisti [che] aggiungono benzina al fuoco». A seguito della pubblicazione del report le maggiori testate americane hanno commentato la brusca evoluzione dello scenario cisgiordano. Il Washington Post, per esempio, riporta che a seguito degli attacchi di Hamas, il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir avrebbe ordinato diecimila fucili da distribuire ai coloni. Ciò significa che le milizie armate ebraiche in Cisgiordania «si stanno espandendo numericamente e si stanno istituzionalizzando». L’escalation di violenza da parte dei coloni ebrei in Cisgiordania dopo il 7 ottobre è iniziata dalla valle di Wadi Siq, a est di Ramallah: la popolazione beduina di questa valle, che vive di pastorizia, è stata perlopiù espulsa dalla zona. Secondo uno dei palestinesi espulsi, intervistato dal quotidiano americano, l’intimazione da parte dei coloni non è stata più «andatevene a Ramallah», come prima della guerra, ma addirittura «andatevene in Giordania».

 

La collusione tra esercito e coloni, o quantomeno il tacito assenso del primo alla violenza dei secondi, è ben descritta dall’episodio avvenuto sabato a Sawiya, dove un colono ha freddato a colpi di arma da fuoco il trentottenne palestinese Bilal Saleh. Chiamato a testimoniare, Hashem, fratello di Bilal, è stato arrestato dalla polizia israeliana con l’accusa di supportare Hamas.

 

A Qusra, villaggio palestinese poco lontano dalla roccaforte dei coloni estremisti di Esh Kodesh, quattro palestinesi sono stati uccisi in rappresaglia alla strage del 7 ottobre. L’attentato non è stato rivendicato dai coloni, né le sue dinamiche chiarite dalle IDF. Secondo il Wall Street Journal, durante i funerali dei quattro palestinesi un manipolo di coloni avrebbe aperto il fuoco sulla processione. Le forze di sicurezza israeliane, con cui il sindaco di Qusra aveva precedentemente concordato il percorso della processione, non sono intervenute a difesa dei palestinesi.

 

Un reportage di Le Monde descrive invece la quotidianità di Huwara, cittadina commerciale confinante con insediamenti israeliani e spesso oggetto di rappresaglie da parte di questi ultimi, regolarmente scortati dall’esercito. Il quotidiano francese insiste sulla sostanziale continuità nella dinamica delle violenze prima e dopo il 7 ottobre. Infatti, due giorni prima dello scoppio della guerra e in occasione della festa ebraica di sukkot, i coloni avevano marciato su Huwara spaccando vetrine e saccheggiando le attività locali per vendicarsi di un attentato da parte di un residente della cittadina. A seguito dell’uccisione di un diciannovenne palestinese da parte delle IDF durante il saccheggio, Ben Gvir commentava su X: «le nostre vite hanno la priorità sulla libertà di movimento e commercio dei palestinesi. Continueremo a dire tale verità e a lavorare attivamente per realizzarla».

 

Il rischio è che si apra un nuovo fronte in Cisgiordania: il Times of Israel ha riferito  giovedì  di una sparatoria che ha causato la morte di un trentenne israeliano presso Bayt Lyd,  scatenando così l’ennesima “caccia ai terroristi” da parte delle IDF, mentre il giorno prima il governo nominava Zvi Sukkot, volto noto dell’estrema destra israeliana, a dirigere il comitato per gli Affari Cisgiordani.

 

Hezbollah rompe il silenzio, senza colpi di scena [a cura di Francesco Pessi]

 

Il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha rotto il silenzio, tenendo oggi un discorso fiume che al momento non cambia le dinamiche della guerra tra Israele e Hamas.

 

L’intervento di Nasrallah, annunciato con grande enfasi all’inizio della settimana, ha tenuto  con il fiato sospeso non solo i suoi sostenitori, riunitisi a Beirut sud, Baalbek e Nabatea, ma l’intera popolazione libanese. Arab News ha scritto che «più del settanta per cento della popolazione è [al momento] contraria a entrare in guerra»; malgrado ciò, tale posizione potrebbe invertirsi se «Israele colpisse il Libano», nel qual caso la narrazione cambierebbe dal «non entrate in guerra» al «fate il vostro lavoro». Secondo il Soufan Center di New York, la drammatica situazione socioeconomica interna al Libano condiziona fortemente la linea di Hezbollah. Infatti, un’offensiva contro Israele comprometterebbe innanzitutto lo stesso Libano, già alle prese con una gravissima crisi che rischia di farne collassare le istituzioni. A ciò si aggiunge il palpabile dissenso interno nei confronti allo Stato nello Stato che Hezbollah costituisce nel Paese levantino, non solo tra cristiani e musulmani sunniti ma anche tra gli stessi sciiti. A questo proposito, un articolo fortemente polemico del quotidiano libanese L’Orient le Jour si chiedeva se i miliziani di Hezbollah amassero a sufficienza i propri concittadini per risparmiare loro la guerra, riconoscendo in «Hamas il peggior nemico dei Palestinesi dopo Israele».

 

Malgrado ciò, la causa palestinese e antisraeliana è parte integrante della ragion d’essere di Hezbollah, la cui strategia del “Fronte Unito” (cioè, la stretta cooperazione tra i membri dell’Asse della Resistenza volta a circondare Israele da ogni parte) non può prescindere dalla sopravvivenza di Hamas, che si trova sotto minaccia. Secondo Anthony Samrani e Rita Sassine (L’Orient le Jour), Nasrallah, cosciente sia del rischio di una dichiarazione di guerra totale che del “dovere” che lo lega a Hamas, giocherà sulla contraddizione di «una [dichiarazione di] guerra senza la guerra» o piuttosto di una guerra , «ma con dei limiti». Secondo i due giornalisti libanesi, tre sono i punti ostici che Nasrallah avrebbe dovuto affrontare nel discorso. Il primo è la definizione delle sue «linee rosse»: annientamento di Hamas, espulsione dei Palestinesi dalla Striscia, cambio dello statu quo all’interno della stessa. Il secondo è come inquadrare lo scontro sul fronte meridionale. La presentazione di quest’ultimo come guerra, ma non totale (del resto Hezbollah ha già subito oltre cinquanta vittime), ridimensionerebbe le aspettative della propria base senza correre rischi eccessivi. Terzo punto dirimente è quanto Nasrallah voglia associarsi all’operazione «Diluvio di al-Aqsa». Anche qui la “strategia della contraddizione” prevede di dichiarare il supporto dell’Asse della Resistenza all’operazione senza associarvi direttamente il Partito di Dio, esercitando così un potere di dissuasione sui piani israeliani a Gaza senza compromettersi. Le parole del leader sciita hanno sostanzialmente confermato le previsioni formulate dall’articolo.

 

Anche se il più immediato e minaccioso avversario di Israele rimane Hezbollah, alle cui scelte, secondo Amwaj Media, sarebbe subordinata la strategia stessa di Teheran, quest’ultima fa comunque i propri conti. In un’intervista rilasciata a La Croix, Pierre Razoux, direttore scientifico della Fondazione Mediterranea di Studi Strategici (FMES), interpreta la congiuntura attuale dalla prospettiva del regime iraniano. Alla guerra di Gaza, che «per un effetto meccanico» avvantaggia l’Iran, corrisponde una strategia di «massima pressione» da parte di Teheran, volta a tenere il nemico in costante apprensione sul fronte settentrionale e su quello orientale (Libano e Cisgiordania). Allo stato attuale, secondo Razoux, all’Iran conviene mantenere Israele sull’attenti piuttosto che colpire severamente correndo gravi rischi: la difficoltà di tale strategia sta però proprio nel mantenersi sull’orlo dell’escalation senza metterla in moto. In effetti, la visita da parte del ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian ad Ankara mercoledì sembra confermare tale interpretazione, dal momento che Abdollahian ha reiterato anche con il proprio omologo turco Hakan Fidan il rischio di un allargamento del conflitto.

 

In questo senso, la rivendicazione di un attacco missilistico a Israele da parte dei ribelli Houthi dello Yemen, avvenuto martedì, andrebbe ascritta secondo gli esperti alla strategia iraniana di circondare Israele da ogni lato, più che all’ambizione Houthi di scatenare una guerra contro Israele.  L’Associated Press, che ha smentito la notizia di una dichiarazione di guerra da parte Houthi, ha riferito che lo Stato ebraico avrebbe intercettato i missili dallo Yemen ben prima che questi raggiungessero il proprio spazio aereo. Secondo Zoran Kusovac (al-Jazeera) infatti, Sana‘a ha scarsa capacità bellica conto Israele: troppi i duemila chilometri che separano quest’ultimo dallo Yemen e troppo pochi i missili in possesso degli Houthi capaci di coprire tale distanza. Tuttavia, l’intervista realizzata da Amwaj Media all’esperto di studi strategici Fabian Hinz contraddice in parte tale prospettiva. Se è vero che Sana‘a è tecnicamente un rivale di secondo piano per Gerusalemme, lo Yemen, data la notevole distanza geografica e lo stato quasi perenne di guerra cui la società yemenita è abituata, ha molto meno da perdere sia sul piano strategico che su quello politico rispetto ad altri Paesi della regione, cui una controffensiva aerea israeliana potrebbe essere fatale (vedi Libano).

 

Il costo economico della guerra a Gaza [a cura di Claudio Fontana]

 

Come ogni guerra, anche quella in corso a Gaza ha (e avrà) profonde ripercussioni sull’economia dei Paesi direttamente coinvolti e non. L’economia mondiale viene da anni decisamente turbolenti: prima la pandemia, poi il conflitto in Ucraina e infine, in parte proprio come eredità di questi eventi, lo shock dell’inflazione. Come ha dichiarato Indermit Gill, capo economista della World Bank, questa è la «prima volta che ci troviamo davanti a un doppio shock energetico»: quello dovuto alla guerra in Ucraina e quello provocato da quella in Medio Oriente. L’aumento del costo dell’energia non influisce soltanto sulla diminuzione del potere d’acquisto di famiglie e imprese, ma porta al rialzo dei prezzi dei generi alimentari, colpendo soprattutto Paesi in via di sviluppo come Egitto, Pakistan e Sri Lanka. La risposta all’inflazione, inoltre, si è tradotta nell’aumento dei tassi d’interesse, ciò che rende più difficile e costoso rifinanziare il debito, sia pubblico che privato. Proprio il debito è uno degli aspetti critici che pongono l’Egitto in una situazione particolarmente grave. Lo scenario peggiore, prospettato dagli economisti interpellati dal New York Times, è quello di un allargamento della guerra in corso, che potrebbe portare i prezzi del petrolio dagli attuali 85 dollari al barile a 150. Ad ogni modo, al di là delle singole previsioni sull’andamento del confronto bellico, la guerra a Gaza aggiunge incertezza nel quadro geopolitico e, dunque, in tutti gli scenari economici.

 

Se poi passiamo dalla situazione globale a quella regionale che ci accorgiamo di quanto saranno gravi le conseguenze economiche della guerra, anche nel caso in cui il conflitto non si espanda ulteriormente. In Medio Oriente la situazione economica stava leggermente migliorando ma, come ha scritto al-Monitor «l’inizio dei combattimenti tra Israele e Hamas nell’ottobre 2023 ha compromesso la ripresa del turismo in Terra Santa dopo anni di fatica». La guerra è scoppiata proprio sul più bello: mentre la piena ripresa del settore turistico globale non è prevista prima del 2024, la regione mediorientale è stata la prima a raggiungere – già nel primo trimestre 2023 – un numero di turisti superiore a quello pre-pandemia.

 

Il Paese che più di tutti rischia di collassare è il martoriato Libano. Da un certo punto di vista la già critica situazione libanese potrebbe spingere Hezbollah a tenersi fuori dal conflitto per evitare di infliggere un costo così pesante a una popolazione già allo stremo. L’Institute of International Finance (IIF) ha pubblicato un report, riassunto da L’Orient-Le Jour, secondo cui l’economia libanese «collasserebbe completamente nel caso di un conflitto esteso e prolungato». Il PIL libanese crollerebbe del 30% nel 2024, ha stimato l’IIF. Ma anche qualora la guerra rimanesse confinata alla Striscia di Gaza, l’economia libanese non ne uscirebbe comunque indenne e si potrebbe contrarre del 4% nel 2024.

 

Il rischio è grande non solo per le vittime del conflitto, ma anche per chi, in un certo senso, l’ha innescato. Se guardiamo all’Iran, infatti, ci accorgiamo che «lo scoppio dell’ultima guerra in Medio Oriente ha aggiunto nuove tensioni a un’economia iraniana già in difficoltà», ha scritto Mohammad Salami sul sito dello Stimson Center. Tra due anni è previsto che giunga a compimento la “Vision” iraniana lanciata vent’anni fa, che puntava a fare della Repubblica Islamica la prima potenza economica e scientifica della regione. A due anni dal termine, il progetto iraniano è un fallimento pressoché totale, ha sentenziato Salami. I motivi sono diversi e includono «sanzioni, corruzione e l’enfasi del regime sulle posizioni ideologiche piuttosto che sugli interessi nazionali». Tra le molte ragioni per cui gli iraniani sono sempre più insoddisfatti nei confronti del loro governo c’è «il fallimento nel fornire benefici economici tangibili e una visione per un futuro prospero». Dare il via a una guerra regionale rischierebbe dunque di allontanare ulteriormente i cittadini iraniani dai loro governanti.

 

Naturalmente, la guerra ha un costo economico anche per l’economia di Israele, probabilmente la più sviluppata della regione. Il 7 ottobre, scrive il Jerusalem Post, «sono cambiate le realtà e le necessità del Paese, e perciò la politica economica di Israele deve adattarsi immediatamente». Da questa considerazione consegue che il bilancio per i prossimi anni deve essere radicalmente rivisto basandosi su nuove «priorità nazionali», scrive il quotidiano israeliano. Il nodo, però, è politico: «come primo e necessario passo, il governo deve revocare immediatamente gli accordi di finanziamento della coalizione [ovvero] chiudere i ministeri superflui e dispendiosi che sono stati creati solo per risolvere problemi politici e che non possono essere giustificati allo stato attuale delle cose». I fondi liberati in questo modo contribuirebbero a pagare gli stipendi dei riservisti, il costo degli armamenti, la gestione degli sfollati e la ricostruzione di case e intere comunità. Secondo le stime del quotidiano di Gerusalemme il costo totale della guerra, anche qualora non si aprisse il fronte nord, eccederà quello della guerra in Libano del 2006. Netanyahu avrà la forza di imporre questa “spending review” ministeriale agli alleati della coalizione? I dubbi non mancano.

 

Gli interrogativi che la guerra a Gaza pone a tutto il mondo [a cura di Claudio Fontana]

 

La scoppio della guerra in Medio Oriente ha oscurato quasi completamente quella in Ucraina. Non soltanto dal punto di vista dell’attenzione mediatica, ma anche per quel che riguarda l’impegno politico dei governi occidentali.

 

Mohamed Chebaro sul quotidiano di proprietà saudita Arab News, evidenzia come la Russia stia guardando attentamente a quanto accade a Gaza. Per Mosca la riaccensione del conflitto israelo-palestinese è una «benvenuta distrazione dallo stagnante fronte ucraino». Lo scontro tra israeliani e palestinesi, tuttavia, ricorda anche che «una crisi lasciata irrisolta raramente svanisce. [Al contrario] generalmente riemerge – e in tempi e luoghi che non rientrano nelle agende a breve termine dei governi occidentali democraticamente eletti». È per questo che Zelensky non si accontenta di raggiungere una pace che non risolva le cause della guerra. Tuttavia, conclude Mohamed Chebaro, «la volatilità causata da entrambi i conflitti ha soffocato la diplomazia e ha reso l’ambiente dei conflitti globali più caotico che mai. Anche se è difficile per gli Stati Uniti e l’Unione Europea abbandonare completamente il loro impegno nei confronti dell’Ucraina, sembra che Kiev debba ammettere che la crisi mediorientale ha distolto l’attenzione dalla sua guerra esistenziale, costringendola a operare con aiuti e visibilità ridotti se non è disposta a “congelare” il conflitto ora per combatterlo un altro giorno».

 

Anche Gaïdz Minassian su Le Monde traccia un quadro nel quale la guerra a Gaza è collegata a quella in Ucraina. Minassian vi aggiunge anche quella nel Nagorno-Karabakh. Questi tre fronti sono in qualche modo collegati non solo perché sono «di prossimità», nel senso che sono tutti all’interno del «perimetro euromediterraneo». Ad accomunare queste tre «guerre esistenziali», sono anche i traumi collettivi della storia dei popoli coinvolti: la Shoah per gli israeliani, la Nakba per i palestinesi, Holodomor per gli ucraini e Medz Yeghern per gli armeni. La memoria dei genocidi subiti, ha scritto Minassian, attraversa le epoche e rivive oggi. Tuttavia, al di là delle questioni del passato, tanto la situazione in Ucraina, quanto quella a Gaza e in Armenia, sollevano una stessa questione: quella «dello Stato come protettore della popolazione e dello Stato come garante del proprio futuro». Israeliani, armeni e ucraini si trovano a combattere una guerra contro tre potenze «neo-imperiali»: Russia, Turchia (che muove le fila dell’Azerbaigian) e Iran (ispiratore e sostenitore di Hamas). In questo contesto le guerre in corso sono sì territoriali, ma sono anche «guerre d’identità» che pongono degli interrogativi anche alla potenza che guida il mondo occidentale, gli Stati Uniti. Su questo aspetto si è focalizzato il Wall Street Journal: per il quotidiano americano le guerre a Gaza e in Ucraina sono «un test per la democrazia degli Stati Uniti». Nello specifico, il giornale economico si domanda se le differenti fazioni politiche americane sapranno mettere da parte le loro differenze per sostenere gli alleati che si trovano di fronte a sfide per la loro sopravvivenza. Il problema è ancora più urgente per il presidente americano Joe Biden, il quale ha legato il suo futuro a quello di Benjamin Netanyahu. Purtroppo per l’inquilino della Casa Bianca, però, Biden «non ha potere di veto sulle azioni del primo ministro israeliano», potendo contare soltanto sulla sua capacità di «influenza». Tuttavia, come ha scritto Edward Luce sul Financial Times, «tutto di Netanyahu suggerisce che la suasion dietro le quinte non è un metodo che funziona» con lui. Così, mentre Israele continua con quella che «agli occhi del mondo sembra una punizione collettiva», Biden sarà ritenuto corresponsabile. Soprattutto se Washington continuerà ad opporsi a un cessate-il-fuoco preferendo, piuttosto, insistere solo su delle «pause umanitarie», come sottolineato anche da Antony Blinken nel suo odierno viaggio in Israele.

 

 

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