Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:20:51

La terza settimana di conflitto in Medio Oriente è iniziata con i pesanti bombardamenti israeliani di lunedì, che secondo il Ministero della Sanità della Striscia di Gaza avrebbero provocato 700 morti. I militari israeliani hanno parlato di 400 obiettivi colpiti, tra cui «decine» di soldati di Hamas, inclusi tre comandanti. Testimoni oculari e le autorità sanitarie della Striscia hanno invece riferito ad al-Jazeera che le bombe avrebbero preso di mira edifici residenziali e rifugi indicati ai civili come sicuri dalle stesse autorità israeliane.

 

Sul fronte diplomatico, hanno fatto discutere le parole del segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, il quale martedì ha affermato che gli attacchi di Hamas non sono «capitati in un vuoto», ma in un contesto di «soffocante occupazione lungo 56 anni». Guterres ha inoltre dichiarato che i bombardamenti e l’assedio a cui Gaza è sottoposta si configurano come una «punizione collettiva del popolo palestinese». All’inizio del suo intervento, riferendosi «all’atroce attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre», il segretario generale aveva anche messo in chiaro che «nulla giustifica l’uccisione deliberata e il rapimento di civili», ma questo non è bastato a evitare una durissima reazione israeliana. Come riporta tra gli altri il Times of Israel, il ministro degli Esteri Eli Cohen ha cancellato un incontro con Guterres, l’ex ministro della Difesa e attuale membro del Gabinetto di guerra Benny Gantz ha accusato il segretario generale dell’ONU di «apologia del terrorismo», mentre l’ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite si è detto indignato. Israele ha anche minacciato di ritirare il visto ai rappresentati dell’ONU, ed è servita la mediazione americana per evitare un’ulteriore esasperazione della crisi. Dal canto suo Guterres che si è detto «scioccato» dalla mistificazione delle sue parole.

 

Nel frattempo la diplomazia europea ha tentato di battere un colpo, finendo però per risultare goffa e scomposta. Il presidente francese Emmanuel Macron, che ha incontrato il primo ministro Benjamin Netanyahu e il presidente israeliano Isaac Herzog, ha invitato a un «rilancio deciso» del processo di pace, sottolineando come la causa palestinese vada nettamente distinta da quella di Hamas. Macron ha però anche invitato a estendere alla striscia di Gaza le operazioni della coalizione internazionale che ha sconfitto ISIS, in modo da arrivare all’eliminazione di Hamas, un accostamento che ha suscitato non poche critiche.

 

La diplomazia del Vecchio Continente è anche inciampata sulla proposta di una “pausa umanitaria” proposta per consentire l’arrivo di aiuti all’interno della striscia di Gaza. Tale proposta, sostenuta con fermezza dal primo ministro inglese Rishi Sunak (il quale ha però negato qualsiasi sostegno all’ipotesi di cessate il fuoco), ha trovato il consenso della maggioranza dei ministri degli Esteri dell’Unione, ma non l’unanimità, come riferito da Politico.

 

Sul fronte interno, Israele affronta più sfide contemporaneamente. A livello popolare l’attacco del 7 ottobre ha avuto l’effetto di unire, almeno temporaneamente, una società fortemente polarizzata. In questo senso è notevole l’immediata riconversione bellica del cosiddetto “movimento per la democrazia”: molti dei suoi membri,  che avevano boicottato il servizio militare in segno di protesta contro il governo guidato da Netanyahu, non hanno esitato a imbracciare le armi nel momento del pericolo collettivo, come scrive il Washington Post.

 

Tuttavia, mentre la popolazione si dice pronta ad affrontare la guerra, esecutivo e vertici militari continuano a temporeggiare sull’invasione di terra della Striscia che, all’indomani del 7 ottobre, sembrava imminente. Il primo ostacolo all’inizio delle operazioni è l’assenza di chiarezza circa il modo per raggiungere l’obiettivo di «sradicare Hamas». In un articolo pubblicato dal Financial Times, l’ex-capo dei servizi segreti britannici John Sawers ha messo in dubbio la possibilità di eliminare un movimento ramificato e volatile come Hamas, che ha basi e sostegni politici in Paesi quali Iran e Qatar. Sempre secondo Sawers, i sanguinosi precedenti di Mosul, Aleppo e Mariupol hanno messo in luce l’elevato prezzo da pagare per portare a termine un’operazione simile (di fatto, intere città rase al suolo e migliaia di vittime civili). Se anche l’invasione andasse a buon fine, conclude l’esperto, ovvero se Hamas venisse cancellata dalla Striscia, rimarrebbe il gigantesco problema della gestione amministrativa di Gaza, impossibile sia per gli israeliani che per l’Autorità Nazionale Palestinese.

 

L’altissimo costo di una guerra urbana viene sottolineato sul Wall Street Journal anche da Yaroslav Trofimov, il quale mette l’accento sul numero delle vittime civili (tra le nove e le undicimila) causato a Mosul dalla coalizione a guida americana nei 277 giorni necessari per riconquistare la città irachena. Sul fronte ucraino, il numero di civili morti nella città di Mariupol conquistata dai russi sarebbe dell’ordine di decine di migliaia. Il fatto che Mariupol sia stata colta impreparata (Hamas possiede invece scorte di munizioni, carburante e fortificazioni, oltre a un sistema di tunnel sotterraneo) e che a Mosul «la tolleranza nei confronti delle vittime civili non fosse in alcun modo paragonabile a quella di cui Israele dispone a Gaza» dà una misura dei potenziali effetti collaterali che un’operazione via terra comporterebbe. Di simile avviso anche Foreign Affairs, mentre il New York times definisce la Striscia un «diabolico campo da gioco» per la fanteria israeliana.

 

A queste valutazioni si aggiunge l’analisi di Ben Caspit su al-Monitor, secondo il quale la vera causa del ritardo delle operazioni è il semaforo rosso degli Stati Uniti. Se infatti da un lato Israele deve «dimostrare di essere ancora una potenza regionale» a seguito dell’umiliazione militare subita per mano di Hamas, e non può quindi non invadere la Striscia, lo Stato ebraico sta aspettando che Washington completi il dispiegamento delle sue forze e dei sistemi di difesa nella regione, al fine di proteggere i propri asset e alleati qualora divenissero obiettivi di un più esteso conflitto regionale. Nel riportare le frasi bellicose di Netanyahu («Abbiamo già ucciso migliaia di terroristi, e questo è solo l’inizio. (…) Simultaneamente, ci stiamo preparando per un’invasione via terra»), Reuters conferma che la reticenza israeliana riguardo a modi e tempistiche dell’invasione è probabilmente dovuta alla necessità statunitense di prepararsi a un conflitto regionale, oltre a quella di mantenere aperto il più a lungo possibile il canale di mediazione del Qatar.

 

L’opinione pubblica israeliana inizia nel frattempo a chiedere il conto ai responsabili della débâcle securitaria del 7 ottobre. In un articolo pubblicato su Haaretz, David Rothkopf stila un lungo elenco delle imputazioni mosse al leader dell’esecutivo in carica: la politica di annessione della Cisgiordania, con il relativo spostamento di truppe, la logica del divide et impera tra le autorità di Gaza e quelle della West Bank, gli abusi di potere, l’indebolimento del sistema democratico e soprattutto la sua «colpa» più grave, quella di avere volutamente ignorato la questione palestinese nell’ottusa convinzione che l’assenza di dibattito sul tema ne avrebbe significato la scomparsa. Rothkopf conclude così che «uno dei primi passi nella lunga strada da percorrere verso una pace durevole» sia «la rimozione della memoria di Netanyahu piuttosto che quella del problema palestinese».

 

Oltre alla costante minaccia di Hezbollah sul fronte nord, Israele teme possibili escalation in Cisgiordania, da tempo epicentro della politica coloniale e securitaria di Netanyahu, ma passata in secondo piano a seguito degli attacchi terroristici di Hamas. Secondo il Wall Street Journal, tale timore è ampiamente giustificato, dato l’intensificarsi del traffico di armi dall’Iran verso la West Bank. Vi sono poi altri due fattori potenzialmente destabilizzanti. Il primo è la massiccia presenza delle milizie del Jihad Islamico Palestinese in Cisgiordania, vicine a Teheran. Il secondo, segnalato da Graeme Wood su The Atlantic, è la violenza incontrollata dei coloni israeliani nei confronti degli arabi. Nella delicata congiuntura attuale, la politica volta a schiacciare la presenza araba nella West Bank e successivamente stabilirvi coloni con il supporto delle IDF rischia di produrre frutti molto amari, nel caso i palestinesi reagissero alle provocazioni israeliane che si sono intensificate a partire dal 7 ottobre.

 

L’Asse della Resistenza o della Desistenza? [a cura di Mauro Primavera]

 

In attesa che lo Stato ebraico avvii l’operazione terrestre su Gaza, tre capi dell’“Asse della Resistenza” – Sayyed Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, Ziyad al-Nakhala, segretario generale del Fronte del Jihad Islamico in Palestina e Salih al-Aruri, vice-presidente dell’ufficio politico di Hamas, si sono riuniti in Libano  per pianificare le fasi successive del conflitto o, per usare le loro parole, per discutere «ciò che le componenti della Resistenza possono fare… per ottenere una vittoria reale». I tre esponenti hanno inoltre messo in guardia Israele: qualora questi dovesse entrare con l’esercito a Gaza, la Resistenza è pronta a scatenare «l’inferno sulla terra» aprendo un altro fronte di guerra tramite Hezbollah al confine col Libano, quasi a replicare alle parole altrettanto minacciose del Ministro della Difesa Yoav Gallant pronunciate il 21 ottobre: il partito-milizia libanese «ha deciso di partecipare alla lotta, e per questo sta pagando un prezzo. Dobbiamo essere vigili e prepararci per ogni possibile scenario».

 

Il fatto che le componenti della “Resistenza” si fossero preparate da tempo all’offensiva lavorando in sinergia ha trovato intanto nuove conferme. Come rivelato dal Wall Street Journal, poche settimane prima del “Diluvio di al-Aqsa” circa cinquecento miliziani palestinesi di Hamas e del Fronte del Jihad Islamico avevano ricevuto in Iran un addestramento speciale impartito dalla Forza Quds, una delle branche dei Guardiani della Rivoluzione (pasdaran) all’estero. In realtà, il coordinamento tra le forze sciite e quelle palestinesi vanta una lunga storia, fatta, come ricorda la testata americana, di alti e bassi: i pasdaran, dopo aver contribuito alla nascita di Hamas negli anni Ottanta, interruppero i finanziamenti al gruppo nel 2012, quando quest’ultimo si schierò contro il regime siriano di Bashar al-Assad, per poi ripristinare le relazioni a partire dal 2017. In effetti la stessa Siria, pur indebolita da dieci anni di guerra civile, rappresenta un’altra spina nel fianco per Tel Aviv, in quanto ospita sul suo territorio numerose basi militari e battaglioni iraniani. È per questa ragione che Israele ha bersagliato negli ultimi giorni alcune postazioni sulle alture del Golan e l’aeroporto internazionale di Aleppo.

 

Vi sono tuttavia molti dubbi sulla fattibilità della rappresaglia islamista-sunnito-sciita. The New Arab sostiene che per Hezbollah la “linea rossa” da non oltrepassare consiste non tanto nell’invasione militare della Striscia, quanto nello sradicamento di Hamas da Gaza. La testata vicina al Qatar delinea tre possibili scenari per il futuro: nel primo Hamas resiste all’onda d’urto dell’attacco israeliano e raggiunge un cessate il fuoco senza che i suoi alleati diventino belligeranti; nel secondo il gruppo soccombe, rendendo conseguente l’ingresso di Hezbollah nel conflitto; nel terzo il movimento palestinese viene annientato, ma l’Iran blocca qualsiasi intervento di Hezbollah per timore di perdere entrambi gli alleati nella guerra. Anche per Lina Khatib, direttrice del Middle East Institute della School of Oriental and African Studies di Londra (SOAS), la minaccia dei gruppi della Resistenza di allargare il conflitto al Libano appare azzardata. Anzitutto, «l’Iran non ha bisogno di ordinare ad Hamas di iniziare una guerra con Israele e nemmeno di venire coinvolto nei piani bellici del gruppo. Quello che fa l’Iran è più sfumato: da una parte esprime sostegno per le azioni di Hamas, dall’altra agita il bastone di Hezbollah contro Israele». Così facendo Teheran assume il ruolo di regia occulta, dimostra di essere una potenza regionale, ma al contempo evita uno scontro diretto con l’Occidente e permette ai suoi alleati arabi di accreditarsi come martiri e combattenti del sionismo. Occorre considerare anche che Israele, qualora dovesse aprire un fronte di guerra anche nel Nord, non farà distinzioni tra Hezbollah e il resto del Libano. Il Paese è afflitto da tempo da una grave crisi economica e sociale e non può in nessun modo farsi carico dei gravi costi di una nuova guerra con lo Stato ebraico. Il primo ministro Najib Miqati ha cercato di rassicurare la popolazione promettendo che il governo avrebbe fatto di tutto per garantire la pace. Il discorso è rimasto inascoltato: i libanesi vivono nella paura di un imminente attacco, e molti di loro hanno già disdetto impegni, appuntamenti di lavoro e feste nuziali. Infine, diverse ambasciate occidentali hanno invitato i loro connazionali ad abbandonare immediatamente il Paese.   

 

Eppure, anche per lo Stato ebraico l’annientamento di Hamas è cosa tutt’altro che semplice. Soprattutto, osserva sul Washington Post Adam Shatz, direttore della redazione americana della London Review of Books, la retorica israeliana che equipara il movimento palestinese allo Stato Islamico non aiuta: «Hamas è una organizzazione nazionalista, non una setta nichilista, ed è parte integrante della società politica palestinese; si nutre della disperazione causata dall’occupazione, e non può essere liquidata in maniera sbrigativa, così come non lo possono fare i fanatici fascisti del governo di Netanyahu».

 

Un ruolo fondamentale nello sviluppo degli eventi sarà giocato naturalmente dagli Stati Uniti d’America. La tensione è infatti alta in tutto il Medio Oriente, visto che tra il 18 e il 19 ottobre le basi americane in Iraq e Siria sono state prese di mira da droni, provocando il ferimento di ventuno soldati. Washington, che ha ancora 2.500 uomini in Iraq e circa 900 in Siria, ritiene che i droni appartengano a gruppi militari legati all’Iran, ritenuto il vero responsabile e il mandante di questo attacco. Per Amwaj Media, gli USA avrebbero già sospeso i colloqui sul nucleare con l’Iran previsti questo mese in Oman e “fatto marcia indietro” sullo “scongelamento” degli risorse finanziarie iraniane detenute all’estero. 

 

Una equipe di analisti del Middle East Institute prova invece a delineare alcune linee guida che a suo avviso dovrebbe percorrere la diplomazia statunitense. Per Gerald Feierstein essa deve lavorare alacremente per evitare l’estensione del conflitto, garantendo altresì l’aiuto umanitario a Gaza. Per Mara Rudman occorre adottare una strategia che agisca nell’interesse e nella difesa della Nazione e preparare un piano di lungo termine. Gina Abercrombie-Winstanley invita l’amministrazione americana a organizzare una nuova conferenza di pace in stile “Madrid II” nell’ottica della “soluzione a due Stati”. 

 

Israele-Hamas: chi cerca una mediazione e chi cerca di guadagnarci [a cura di Claudio Fontana]

 

Nella guerra in corso tra Hamas e Israele, per ora concentrata soprattutto nella striscia di Gaza, il ruolo degli attori esterni è fondamentale. Non soltanto quello dell’Iran, col suo sostegno al movimento palestinese, e degli Stati Uniti con l’appoggio a Israele (di cui parliamo in un altro paragrafo), ma anche quello di altri Paesi, della regione e non, che a vario titolo sono coinvolti nel conflitto o sperano di guadagnarci qualcosa. Inoltre, le ripercussioni della guerra in corso si faranno sentire pesantemente sui Paesi limitrofi, anche nel caso (che ci auguriamo) in cui il conflitto non diventi una guerra regionale.

 

Un ruolo che è emerso con forza è quello del Qatar, piccolo emirato governato da Tamim bin Hamad Al Thani. Nel corso di questa settimana l’emiro ha dichiarato che l’escalation minaccia tutta la regione, ma soprattutto che non è accettabile che a Israele sia data «una luce verde incondizionata, una licenza di uccidere, e nemmeno è sostenibile continuare a ignorare la realtà dell’occupazione, dell’assedio e degli insediamenti». Come riporta al-Jazeera, Tamim ha inoltre condannato la violenza contro i civili perpetrata da entrambe le parti, criticato la comunità internazionale per i «doppi standard» utilizzati dall’Occidente, «come se le vite dei bambini palestinesi non fossero degne di essere considerate, come se fossero senza volto o senza nome». Un punto simile è stato espresso dal ministro degli Esteri qatarino Mohammed Bin Abdulrahman al-Thani durante una conferenza congiunta con l’omologo turco: «il numero di bambini uccisi a Gaza è superiore a quello dei bambini uccisi in Ucraina, ma non abbiamo visto la stessa reazione».

 

Al di là delle dichiarazioni, Doha mantiene diversi canali aperti con Hamas. Collegamenti che, in questa fase, tornano utili per lavorare alla liberazione degli ostaggi. Il gruppo terroristico questa settimana ne ha rilasciati quattro, tra cui due donne americane e due anziane israeliane. Secondo il consigliere per la sicurezza nazionale israeliana Tzachi Hanegbi, il ruolo del Qatar è «cruciale». «Sono lieto di affermare – ha detto Hanegbi – che il Qatar stia diventando una parte e uno stakeholder essenziale nella facilitazione delle soluzioni umanitarie». Al contrario, l’atteggiamento del ministro degli Esteri dello Stato ebraico è decisamente più rigido: «il Qatar, che finanzia e protegge i leader di Hamas, può influenzare e rendere possibile l’immediato e incondizionato rilascio degli ostaggi», ha affermato Eli Cohen. Dal canto suo, Abdulrahman al-Thani, che ricopre anche la carica di primo ministro, ha detto di sperare che la liberazione degli ostaggi avvenga «presto». Le trattative sono probabilmente complicate dal fatto che gli ostaggi forniscono ad Hamas un deterrente nei confronti della paventata operazione di terra da parte di Israele. Liberare gli ostaggi potrebbe essere un fattore abilitante dell’ingresso dei soldati israeliani nella Striscia. In ogni caso, come ha scritto Jon Gambrell per l’Associated Press, «i negoziati hanno anche spinto il Qatar in un delicato gioco di equilibri internazionali, in quanto esso mantiene una relazione con quelli che l’Occidente considera gruppi militanti, cercando al contempo di preservare gli stretti legami di sicurezza con gli Stati Uniti». In base agli accordi presi in occasione di precedenti cessate-il-fuoco tra Hamas e Israele, ricorda Gambrell, Doha è incaricata del pagamento dei salari dei funzionari pubblici nella Striscia di Gaza, ma garantisce anche trasferimenti diretti di denaro alle famiglie più povere. Non solo: è a Doha che ha sede l’ufficio politico di Hamas ed è lì che si trovano sia l’attuale capo del gruppo, Ismail Hanyieh, che il suo predecessore, Khaled Meshaal. Con grande attenzione e cautela l’emirato ha navigato acque agitate, bilanciando i legami con gruppi terroristici con attente iniziative diplomatiche e la possibilità di ospitare l’importantissima base americana ad al-Udeid. La difficile posizione in cui il Qatar si trova è testimoniata dal fatto che, secondo quattro fonti diplomatiche citate dal Washington Post, Stati Uniti e Qatar avrebbero deciso di rivalutare il rapporto tra Doha e Hamas una volta risolta la situazione degli ostaggi.

 

Questa settimana il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan si è recato in visita negli Emirati Arabi Uniti, dove ha incontrato Mohammad bin Zayed e, in seguito, in Qatar. Sia Fidan che il presidente turco Erdoğan hanno avuto nei giorni precedenti colloqui telefonici con Hanyieh, e il viaggio di questa settimana giunge mentre anche la Turchia intensifica la sua attività diplomatica nel tentativo di ritagliarsi un ruolo di mediatore tra Israele e Hamas, ha scritto al-Monitor. Il quotidiano online ha anche ricordato come la leadership politica palestinese si trovasse proprio in Turchia al momento dell’attacco del 7 ottobre. Su spinta di Ankara (infastidita dal fatto che i leader di Hamas si vantassero dell’accaduto) Hanyieh e compagni hanno però dovuto abbandonare la penisola anatolica. Come ha scritto Fehim Tastekin, le relazioni della Turchia con Hamas possono essere considerate una risorsa da parte degli Stati Uniti. Erdoğan ha cercato inizialmente di non compromettere il rapporto con Israele, tanto da scontentare i palestinesi: «a differenza dei suoi sfoghi del passato al vetriolo contro Israele, questa volta Erdoğan ha contenuto il suo linguaggio […] ha inasprito un po’ i toni contro Israele a causa delle crescenti perdite a Gaza, ma non ha fornito il sostegno che Hamas avrebbe desiderato».

 

Tuttavia, nonostante l’incontro del mese scorso con Netanyahu, che testimoniava il riavvicinamento tra i due Paesi, Erdoğan, ha via via indurito la sua retorica, fino ad arrivare mercoledì ad affermare che Hamas non è un’organizzazione terroristica, ma un gruppo che combatte per la liberazione della propria terra. Il presidente turco ha insistito sulla necessità di uno scambio di prigionieri per favorire una de-escalation e richiamato la necessità di un cessate-il-fuoco, ma finora, stando a quanto riportato da al-Monitor, le proposte di mediazione turca sono state rifiutate dai palestinesi. D’altronde, secondo una fonte palestinese anonima, «se le parti fossero pronte per un cessate-il-fuoco, l’Egitto non lascerebbero la mediazione a nessun’altro. Il Qatar e la Turchia giocherebbero ruoli secondari».

 

Non a caso John Alterman e Daniel Byman hanno scritto su Foreign Policy che «il mondo non può risolvere la guerra tra Israele e Hamas senza [l’aiuto] dell’Egitto». Nonostante l’ostilità del regime egiziano nei confronti di un movimento islamista come Hamas (secondo Lisa Anderson il governo egiziano sarebbe molto contento di vedere Israele distruggere Hamas), il Cairo continua a esercitare una certa influenza su ciò che avviene a Gaza, non foss’altro perché controlla Rafah, l’unico varco da cui può entrare o uscire qualcosa. Cercare di raggiungere una mediazione può essere vantaggioso per l’Egitto, hanno scritto Alterman e Byman. In primo luogo perché l’Egitto deve evitare che l’instabilità si estenda al Sinai, e in secondo luogo perché per al-Sisi può «assumere un ruolo centrale su una questione panaraba di così alto profilo come la guerra tra Israele e Hamas porta prestigio a un governo che si trova sempre più in difficoltà in patria». Tuttavia, per assicurarsi il sostegno del Cairo nel raggiungere una soluzione almeno temporanea al conflitto, «i governi del Golfo e quelli occidentali dovranno quasi certamente garantire che l’Egitto ne tragga vantaggi finanziari». Da questo punto di vista l’Unione Europea si sta portando avanti: come riporta il Financial Times, nel timore di una nuova crisi migratoria dovuta all’estensione della guerra, Bruxelles sta aumentando gli sforzi per raggiungere un accordo economico con il Cairo. «Anziché focalizzarsi solamente sulla migrazione – si legge sul quotidiano economico – l’accordo dell’UE con l’Egitto cercherà di fornire sostegno finanziario per progetti finalizzati alla creazione di lavoro e a favorire la transizione energetica del Paese […] per aiutare l’Egitto a puntellare la sua economia e indirettamente prevenire una migrazione di massa verso l’Europa». Secondo Lisa Anderson (Foreign Affairs), l’Egitto farà di tutto per capitalizzare da questa situazione, per esempio cercando di ottenere degli sconti sul debito pubblico da parte degli Stati Uniti. Il Cairo, però, corre anche dei rischi, ha scritto la Anderson: sebbene molti egiziani non simpatizzino con Hamas, il sentimento filopalestinese è diffuso. Inoltre, gli egiziani, «come gli abitanti di Gaza, sono intrappolati dalla corruzione e dall’incuria, in una spirale di povertà e sottomissione apparentemente senza fine, mentre il pane, la libertà e la giustizia sembrano sempre più fuori portata. Questo tipo di disperazione genera solo amarezza e rabbia. Il governo di al-Sisi potrebbe essere in grado di […] contenere le proteste contro le proprie politiche, ma solo a costo di una maggiore repressione, dal momento che gli echi locali del malcontento e della frustrazione palestinese non sono difficili da scorgere nelle manifestazioni di solidarietà che si sono diffuse in tutto il Paese».

 

Chi invece sembrerebbe assente dalla scena diplomatica è, secondo Steven Cook (Foreign Policy), l’Arabia Saudita. Il ragionamento proposto da Cook parte da un’osservazione aneddotica: mentre il mondo veniva a sapere che Egitto e Qatar avevano ottenuto la liberazione dei primi due ostaggi, Mohammad bin Salman si faceva ritrarre con Cristiano Ronaldo a un evento sul futuro degli e-sports. Questo fatto evidenzia secondo Cook che, a differenza di quanto avvenuto con il conflitto in corso in Sudan, oggi Riyad è in grande difficoltà e si limita a «pesanti obiezioni» rispetto alla situazione a Gaza. In ultima analisi, secondo l’analista americano ciò è dovuto al fatto che l’Arabia Saudita si trova in una posizione di debolezza: l’attacco di Hamas ha fatto saltare tutta la strategia saudita nella regione (che passava anche dall’avvicinamento a Israele), e dunque ci si sarebbe potuti aspettare – dice Cook – un atteggiamento più duro di MbS nei confronti del movimento islamista palestinese. Tuttavia, «il principe ereditario non vuole agire nel conflitto a Gaza in una maniera tale da suscitare le ire degli iraniani e far sì che […] gli houthi in Yemen ricomincino a colpire i centri abitati sauditi con droni e missili». Intanto, dallo Yemen sono effettivamente partiti dei missili, che però erano indirizzati verso Israele. Una parte, ed era già noto, è stata intercettata dal vascello americano USS Carney, ma la notizia è che, stando a quando riporta il Wall Street Journal, anche le forze di difesa saudite sono entrate in funzione ne hanno intercettato uno. Non stupisce più di tanto, dunque, che anche alla Future Investment Initiative, la cosiddetta “Davos nel deserto”, il conflitto tra israeliani e palestinesi è stato un tema accuratamente evitato, ha scritto il Financial Times.

 

Tags