Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 13/06/2025 16:53:26

L’incessante assedio, la catastrofe umanitaria e la sofferenza della popolazione palestinese continuano a calamitare l’attenzione dei media arabi. Uno dei temi più discussi è il futuro dell’autorità palestinese a Gaza, soprattutto dopo l’uccisione di alcune delle figure più note di Hamas: Ismail Haniyeh, seguito dai due fratelli Mohamed e Yahya Sinwar.

Ancora una volta, emerge una netta divergenza tra l’emittente televisiva emiratina Sky News Arabiyya e quella qatariota al-Jazeera. La prima descrive Hamas come un’autorità in crisi, con una legittimità popolare sempre più vacillante; la seconda ne parla come di un’organizzazione ancora solida e radicata.

La conduttrice televisiva Chantal Saliba, su Sky News Arabiyya, introduce Hamas come un movimento in declino: «Hamas è a un bivio: o ferma la guerra, cercando di salvare ciò che resta della sua struttura, o assisterà alla completa distruzione di Gaza. L’unico leader rimasto è Ezzeldin al-Haddad, nel nord, privo di esperienza politica e del peso simbolico dei fratelli Sinwar».
Ospite della trasmissione, il giornalista palestinese Ayman Khaled precisa che al-Haddad «non ha ambizioni né politiche né militari» e aggiunge: «Le vere decisioni sono nelle mani della leadership di Hamas all’estero, che mira a trasformare Gaza in un affare politico. Sanno che perderanno Gaza, ma vogliono usarla come leva per negoziare con gli Stati Uniti, cercando di delegittimare l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Hamas si illude di poter stringere la mano di Trump, come ha fatto Ahmed al-Sharaa».

Di segno opposto sono invece i commenti provenienti da Doha. I politologi Mohanad Mostafa e Saeed Ziad sottolineano la situazione di stallo, sia militare che politica, in cui si trova Israele nella Striscia. Secondo la loro analisi, Hamas starebbe approfittando di questa impasse per approfondire le divisioni tra esercito, governo e società civile, facendo leva sull’alto costo umano ed economico del conflitto. Ziad afferma: «Non vi è Stato che tragga beneficio da una guerra logorante e prolungata, e questa è la più lunga della storia israeliana. […] Hamas ha mostrato una flessibilità maggiore rispetto a Israele nel riadattare le tattiche militari. Le piccole operazioni, anche con poche vittime, hanno un impatto sociale e politico significativo».

Sempre su al-Jazeera, il ricercatore palestinese Samer Awad ribadisce: «Hamas resterà saldo finché manterrà le carte strategiche: gli ostaggi e il sostegno popolare. La resistenza non rinuncerà alle richieste del popolo palestinese, anche a costo di sacrificare la vita dei suoi combattenti».
Secondo Awad, la legittimità di Hamas non verrà scalfita neanche dalla milizia guidata da Yasser Abu Shabab, figura nota per attività criminali come il traffico di droga e le rapine: «Abu Shabab si presenta come un’alternativa per chi attribuisce a Hamas la responsabilità della distruzione di Gaza, sollevando Israele da ogni colpa. Ma l’unica autorità palestinese legittima è quella che nasce dal popolo, non da Israele. Il caos attuale è il frutto dell’ingerenza israeliana, che arma milizie per saccheggiare gli aiuti umanitari e allo stesso tempo punta il dito contro Hamas». E conclude: «Quando Netanyahu capirà che queste milizie sono inutili, le abbandonerà, lasciando Abu Shabab in balia della Striscia».

Secondo il quotidiano panarabo londinese al-Quds al-ʿArabi, è stato l’ex ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman a rivelare per primo il sostegno di Netanyahu alla milizia guidata da Yasser Abu Shabab. È stato lo stesso Netanyahu a confermare, seppure implicitamente, quanto rivelato dall’ex ministro, nel tentativo di giustificare la propria strategia militare. Le dichiarazioni di Lieberman, prosegue l’articolo, vanno lette come parte «di un tentativo di orientare l’onda di opposizione al proseguimento della guerra». Il quotidiano sottolinea inoltre come il caos interno a Israele sia alimentato anche dal timore di compromettere nuovamente la reputazione di «unica democrazia del Medio Oriente dopo essersi macchiato le mani di crimini contro l’umanità».

In linea con al-Jazeera, lo stesso articolo prevede il fallimento del progetto di Abu Shabab, paragonandolo al “fallimentare esperimento” del libanese Antoine Lahd nel sud del Libano nel 1982: «Soprattutto perché il capo di questa banda è ben consapevole di essere rigettato e disprezzato dalla stragrande maggioranza degli abitanti della Striscia, indipendentemente dal grado di accordo o dissenso nei confronti di Hamas e delle altre forze della resistenza palestinese. […] L’occupazione ha partorito nient’altro che una milizia collaborazionista rachitica, una banda di saccheggiatori, delinquenti e criminali».

In un’analisi della stampa israeliana pubblicata su al-‘Arabi al-Jadid, lo studioso egiziano Ahmed al-Gendy scrive:  Nel tentativo di evitare ulteriori perdite tra i propri soldati e pianificare il “giorno dopo” la guerra, l’amministrazione israeliana potrebbe aver promosso l’ascesa della figura di Yasser Abu Shabab in coordinamento con alcuni Paesi arabi noti per il loro sostegno a milizie e movimenti insurrezionali nella regione. L’obbiettivo, secondo al-Gendy, è sostituire Hamas. E aggiunge: «La riuscita di questo piano dipende dal protrarsi della guerra e dall’assenza di un accordo che imponga una tregua duratura, ciò a cui Netanyahu si aggrappa con tenacia, nonostante il crescente consenso sul fatto che la guerra sia ormai entrata in una fase priva di senso».

Infine, su al-Sharq al-Awsat, pur non menzionando Abu Shabab, l’accademico Abdullah Faisal al-Rabh riflette sull’impasse israeliana: «Netanyahu è riuscito a colpire diversi elementi percepiti come minacce militari per Israele: ha lanciato attacchi mirati all’interno dell’Iran, eliminato i leader di Hezbollah e logorato Gaza e la Cisgiordania. Ma ha perso l’occasione di passare alla storia come leader, proprio nel crepuscolo del suo percorso politico, rendendo ormai lontani e difficili i negoziati con i Paesi arabi che un tempo sembravano a portata di mano». Soffermandosi sul Regno saudita, al-Rabh conclude: «Oggi, la posizione saudita è chiarissima e intransigente: “Nessun accordo senza una soluzione a due Stati”». E chiude con un monito: «La ferma condanna di Riyad rafforza ulteriormente la pressione su Netanyahu, il quale non ha più nulla da offrire al proprio popolo – se non la resa dei conti».

 

«I sudanesi sprofondano nelle profondità dell’inferno» [a cura di Chiara Pellegrino]

Mercoledì l’esercito sudanese, guidato da Abdel Fattah al-Burhan, ha annunciato il ritiro da un’area strategica situata al confine tra Sudan, Libia ed Egitto. La zona è passata sotto il controllo delle Forze di Supporto Rapido (FSR) comandate da Hemedti, grazie anche al sostegno militare fornito dalle truppe del generale libico Khalifa Haftar. L’attacco congiunto è avvenuto pochi giorni dopo che il Cairo ha aderito al “Quartetto” per il Sudan – formato da Stati Uniti, Gran Bretagna, Arabia Saudita ed Emirati – e aveva già lanciato l’allarme sull’espansione delle FSR in alcune aree di confine. Secondo l’esercito sudanese, l’area abbandonata è particolarmente delicata perché utilizzata come corridoio per il traffico di armi dirette alle FSR. Secondo al-Quds al-Arabi, «l’evoluzione militare sul campo evidenzia da un lato l’indebolimento delle forze civili sudanesi allineate con l’Occidente nella ricerca di una soluzione politica, dall’altro il crescente coinvolgimento regionale: con gli Emirati che sostengono Hemedti e l’Egitto schierato con Burhan». L’ingresso diretto delle forze di Haftar nel conflitto potrebbe compromettere i progressi politici conseguiti dal Cairo, che aspira a giocare un ruolo centrale in Sudan, e rimescolerà le carte del gioco regionale ben oltre i confini egiziano-libico-sudanese, prosegue l’articolo. L’operazione solleva peraltro un punto di domanda sulla scelta di Haftar di schierarsi con il progetto emiratino in Sudan mentre mantiene legami politici e militari stretti con l’Egitto. Dall’altro lato, l’adesione dell’Egitto al Quartetto riflette il tentativo del Cairo di uscire dall’isolamento e rafforzare la propria influenza nel Corno d’Africa, consolidando il potere militare in Sudan. Tuttavia, mentre i giochi geopolitici si intensificano, la popolazione sudanese continua a pagare il prezzo più alto: «I sudanesi sprofondano nelle profondità dell’inferno», conclude amaramente l’articolo.

L’Egitto si trova oggi nell’imbarazzo di dover riconoscere che l’offensiva lanciata da Hemedti non avrebbe potuto avvenire senza il via libera di Abu Dhabi. A scriverlo è il giornalista giordano Maen al-Bayari in un articolo su al-‘Arabi al-Jadid, sottolineando come «le calorose strette di mano tra il presidente Abdel Fattah al-Sisi e Mohammed bin Zayed non possono avere la priorità su ciò che compromette la sicurezza e l’integrità territoriale dell’Egitto». Secondo al-Bayari, il Cairo si vede ora costretto a reagire, rafforzando sia l’azione militare sia l’attività di intelligence per arginare le conseguenze dell’attacco e sostenere ogni tentativo dell’esercito sudanese di riprendere il controllo dell’area di confine perduta. Lasciare che questa rimanga nelle mani di Hemedti, spiega, significherebbe consolidare un corridoio strategico per il passaggio di armi e combattenti, aumentando l’instabilità e riducendo l’influenza egiziana in un’area importanza dal punto di vista geopolitico.

Sulle pagine del quotidiano panarabo (filo-emiratino) al-‘Arab, lo scrittore sudanese ‘Abdel Hohimmat, residente negli Emirati, sferra un attacco agli islamisti che «non stanno abbandonando il loro progetto, ma semplicemente ne ridefiniscono le priorità sulla base delle realtà mutevoli. Non ammettono i loro errori, non si assumono le loro responsabilità e considerano la loro sventura una cospirazione contro la religione, anziché una conseguenza naturale della loro corruzione e malagestione. E, peggio ancora, si presentano come parte della soluzione, anziché come la radice del problema». Il progetto di riconciliazione proposto da alcuni attori del governo di Port Sudan, prosegue l’articolo, «non è altro che un tentativo politico di insabbiare la pagina di storia degli islamisti, senza assumersi la responsabilità, fare giustizia o porgere le scuse. La cosiddetta “riconciliazione” non è altro che una copertura per riconquistare posizioni di influenza e potere, attraverso nuovi strumenti e vecchie personalità». Questa strategia, spiega ancora il giornalista, si basa sul presupposto della debolezza della memoria collettiva e dell’assenza di giustizia di transizione, «premesse su cui si sono basate tutte le trasformazioni islamiste in Sudan, dal colpo di Stato del 1989 fino alla caduta del 2019, e ai successivi tentativi di infiltrarsi nel panorama politico e militare».

Sul quotidiano emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariyya, il giornalista sudanese Abdel Moneim Suleiman accoglie con favore la decisione degli Stati Uniti di vietare l’ingresso nel proprio territorio ai cittadini sudanesi a partire dal 9 giugno, insieme al pacchetto di sanzioni in preparazione da parte di Washington. Misure che definisce «un deterrente strategico» pensato per isolare nuovamente il Sudan dal sistema internazionale, fintanto che il Paese resterà sotto il controllo di un «regime militare-religioso che non riconosce le convenzioni internazionali né rispetta le leggi». Suleiman descrive il conflitto in corso come «una battaglia tra un futuro democratico promettente, guidato dalle forze civili, e un passato sanguinoso che tenta disperatamente di tornare al potere».

Osman Mirghani, ex vicedirettore del quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat, sembra rispondere ai quotidiani emiratini criticando la loro strategia ricorrente di etichettare l’esercito sudanese come «esercito degli islamisti» o come una semplice «milizia partigiana». Secondo Mirghani, questa lettura non riflette la realtà delle forze armate sudanesi, che includono sì elementi islamisti, ma anche numerosi ufficiali e soldati appartenenti ad altri movimenti politici, estranei all’islam politico. L’editorialista avverte che smantellare l’esercito nazionale, come dimostrano esperienze drammatiche recenti in Paesi come l’Iraq, la Libia, la Repubblica Democratica del Congo e la Liberia, non porta automaticamente alla democrazia, ma apre le porte al caos. La lezione comune che si trae da questi modelli, spiega il giornalista, «è che l’esercito nazionale è la “colonna portante della tenda”: se crolla, crolla tutto lo Stato». In un contesto fragile come quello sudanese, il collasso dell’esercito, afferma Mirghani, esporrebbe il Paese a «scenari catastrofici», segnati da scontri tribali, richieste separatiste, attività dei gruppi terroristici con conseguenti pericoli per la sicurezza dei Paesi limitrofi.