Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 30/05/2025 17:00:34

Ancora una volta, Gaza si conferma epicentro dell’attenzione dei media arabi, che hanno duramente criticato la prima distribuzione di aiuti umanitari organizzata dalla Gaza Humanitarian Foundation (GHF). Dopo ore di attesa sotto un sole implacabile, accalcati dietro recinzioni di ferro, migliaia di palestinesi esasperati hanno assistito all’esplosione della tensione. I soldati israeliani hanno risposto aprendo il fuoco: il bilancio è di cinquanta feriti e un morto.

Su al-Quds al-Arabi, il ricercatore palestinese Jamal Zahalka scrive: «È evidente che l’obiettivo del progetto israeliano non è quello di fornire autentici aiuti umanitari. Se lo fosse, Israele potrebbe semplicemente aprire i valichi e consentire l’accesso alle agenzie ONU». La GHF è stata infatti istituita congiuntamente da Israele e Stati Uniti, in seguito alla decisione della Knesset di bandire l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, dal territorio israeliano. Una mossa che ha compromesso le operazioni dell’agenzia anche nei Territori palestinesi. Zahalka ha definito l’episodio un «fallimento già previsto», spiegando: «L’UNRWA gestiva circa 400 centri di distribuzione per rispondere ai bisogni dell’intera popolazione. Al contrario, la Gaza Humanitarian Foundation (GHF) controlla soltanto quattro punti. È evidente che un numero così ridotto di centri non può soddisfare le necessità di due milioni di persone».

Con toni simili, anche Mahmoud Hamid Alaila sottolinea su al-Araby al-Jadeed che Israele starebbe orchestrando in modo unilaterale la distribuzione degli aiuti con l’obiettivo di spingere la popolazione affamata verso sud, in vista dell’operazione militare “Carri di Gedeone”, che prevede l’occupazione del 75% della Striscia. Scrive Alaila: «Nulla, nella politica israeliana, è lasciato al caso […]. Gli aiuti sono uno strumento politico per produrre controllo. Israele usa il cibo e le medicine non per soccorrere le vittime, ma per domarle» e continua: «Il nuovo “ordine” si sperimenta anche nella forma di aiuti condizionati, somministrati con umiliazione, dove chi gestisce un camion di farina risulta più potente di chi impugna un fucile».

Mohanad Mustafa, esperto di politica israeliana, spiega sull’emittente qatariota al-Jazeera che «Israele si trova in una posizione imbarazzante: ha cercato di eludere le pressioni occidentali mascherando l’operazione militare dietro una missione umanitaria fallimentare». Questo fallimento, aggiunge, «aumenterà la pressione internazionale per far entrare gli aiuti, minando così l’operazione dei Carri di Gedeone, poiché il piano militare e quello umanitario sono strettamente intrecciati nella strategia israeliana». E conclude: «Per porre fine all’assedio su Gaza serve una pressione internazionale continua».

Quasi come una voce fuori dal coro, l’articolo dello scrittore Mohamed al-‘Amery sulla testata emiratina al-Ayn al-Ikhbariyya, arriva a descrivere la situazione di Gaza come un successo degli Emirati Arabi Uniti. Intitolato «Davanti al valico di Rafah», il testo riporta con toni entusiastici l’esperienza del suo autore di fronte all’arrivo degli aiuti inviati da Abu Dhabi: «Decine di camion, stipati di beni di prima necessità, attendevano il permesso per attraversare il confine e soccorrere una popolazione allo stremo. Uno spettacolo potente». Elogiando il proprio Paese, lo scrittore commenta: «Gli Emirati hanno normalizzato le relazioni con Israele per una scelta strategica. Ma, detto con franchezza, a beneficiarne maggiormente sono stati proprio i palestinesi, soprattutto a Gaza. Grazie a questa normalizzazione, gli Emirati sono riusciti ad aprire corridoi umanitari via terra, mare e aria, senza clamori, senza retorica, senza strumentalizzare la tragedia palestinese».

Sul fronte opposto, non si placa l’ondata contro il silenzio del mondo arabo. Il giornalista libanese As’ad Abu Khalil, amareggiato, definisce su al-Akhbar lo scenario a Gaza come «un’ecatombe», muovendo una dura accusa ai governi e alle società della regione: «Ogni giorno scorrono davanti ai nostri occhi immagini di rifugiati bruciati nelle tende o nelle baracche… Eppure, sembra che il mondo arabo abbia abdicato alla propria identità, e l’umma islamica al proprio Islam. Ma soprattutto, abbiamo rinunciato alla nostra umanità».

Su Arabi21, anche il giornalista Taha Al-Sherif punta il dito contro l’inazione della Lega Araba:
«È concepibile che questa organizzazione continui nel suo vergognoso silenzio, in una complicità sempre più indecente, fatta solo di parole fredde e posizioni inconsistenti? Perché non viene sciolta, una volta per tutte, questa istituzione incapace? Perché non si destinano le sue risorse ai popoli che dice di rappresentare?». Al-Sherif conclude, quasi rassegnato: «Perdonaci, Gaza… siamo diventati una nazione umiliata».

Tornando a al-Araby al-Jadeed, il giornalista Salama Abdul-Hamid dedica un articolo alla dottoressa Alaa al-Najjar, medico palestinese e madre di dieci figli, nove dei quali rimasti uccisi in un bombardamento israeliano. Scrive Abul-Hamid: «Nel giro di poche ore, la storia della perdita di Alaa al-Najjar è diventata un’icona mediatica, ripresa dai principali mezzi d’informazione. Una madre che perde nove figli in un solo colpo non è una notizia qualunque: è una ferita che attraversa il cuore del mondo». E aggiunge: «Che questa tragedia contribuisca ad accrescere la richiesta globale di fermare il massacro a Gaza, e che l’opinione pubblica internazionale non archivi troppo in fretta questa storia insanguinata, dopo quasi 600 giorni di indifferenza verso il destino dei bambini di Gaza».

Infine, sempre su al-Araby al-Jadeed, il giornalista di Gaza Haidar al-Ghazali lancia un appello carico di esasperazione: «L’autore di queste righe, sotto la pioggia degli aerei e il fuoco della fame che aggrava la desolazione dei nostri corpi, propone che Hamas consegni il dossier di Gaza nelle mani della Lega Araba e dichiari la propria piena disponibilità a ritirarsi politicamente e militarmente da Gaza, a uscire, e a consegnare le armi a una gestione esclusivamente araba/palestinese. È un passo che può sembrare un azzardo, ma non è meno rischioso della scommessa sul sangue e sulla violenza come carta di pressione e strategia negoziale. Un passo che spinge le trattative e mette gli arabi di fronte alla storia e alla realtà. Hamas chieda ai popoli arabi di lasciare le loro coperte, di abbandonare i tasti dei loro telefoni, per scendere in strada, per educare i propri governi e spingerli ad agire, qualunque sia il prezzo da pagare». E conclude: «Gente, politici: è arrivato il momento di rischiare. Il carro armato ha fame di sangue. La Palestina vive nei cuori dei vivi, non nelle tombe. E la patria, per quanto vicina, resterà sempre lontana quanto un pezzo di pane».

 

Il rapporto sull’islamismo in Francia divide la stampa araba [a cura di Chiara Pellegrino]

Il rapporto intitolato Fratelli musulmani e islamismo politico in Francia”, pubblicato la scorsa settimana nella République, ha avuto una vasta risonanza anche nei media arabi. Tutti i principali quotidiani panarabi hanno commentato la vicenda, ma con toni molto diversi secondo la loro linea editoriale. La stampa di proprietà del Qatar, tradizionalmente più vicina alle posizioni dei movimenti islamisti, si è indignata accusando gli autori del rapporto di distorcere la realtà e mancare di rigore e imparzialità. I media vicini agli Emirati e all’Arabia Saudita, notoriamente ostili all’islam politico, hanno esultato, vedendo nel documento una conferma della loro tesi.

Su al-Quds al-‘Arabi, il giornalista sudanese Mada al-Fatih esprime forte preoccupazione per quello che considera  un imminente giro di vite del governo francese nei confronti di tutti i musulmani mascherato dal pretesto della lotta contro l’islamismo. Secondo al-Fatih c’è il rischio concreto che nel mirino finisca chiunque manifesti pubblicamente la propria fede islamica: in altre parole, tutti i musulmani per il solo fatto di esserlo. Il pericolo maggiore, sottolinea, risiede nell’assenza di una definizione chiara e condivisa di che cosa s’intenda per «estremismo» o «islamismo», una vaghezza che rende potenzialmente ogni musulmano un bersaglio. L’allarme poi cresce «quando si ascoltano i funzionari o gli “esperti” francesi associare la recente diffusione del velo, anche tra le sportive, alla diffusione delle idee dei Fratelli musulmani. Allora ci si rende conto che il semplice fatto di aderire ai rituali basilari come la preghiera o il digiuno, o il rifiuto di consumare la carne di maiale, è sufficiente per essere etichettati come membri del movimento islamista, che minaccia per la coesione sociale», conclude l’articolo.

Su al-‘Arabi al-Jadid, Omar al-Morabit – ex vicesindaco di una municipalità nella periferia di Parigi – accusa il rapporto di assenza di rigore analitico e obiettività. A suo dire, il documento non risponde ai criteri di un’analisi scientifica seria, risultando parziale, allarmista e confuso nei concetti. Non solo manca di integrità intellettuale e neutralità, prosegue al-Morabit, ma mostra una visione distorta del fenomeno religioso. Il giornalista mette in dubbio la metodologia usata per stilare il rapporto, fondato sugli studi di Florence Bergeaud-Blackler, antropologa «nota per le sue posizioni estremiste» e per un approccio metodologico incoerente, che fonde e confonde salafismo e Fratellanza musulmana, descrivendoli «ora come alleate in un unico progetto, ora come rivali». Al-Morabit contesta anche l’interpretazione che stigmatizza l’adozione, da parte dei musulmani europei, della cosiddetta giurisprudenza delle minoranze (fiqh al-aqalliyyāt) – ovvero l’adattamento delle pratiche islamiche al contesto occidentale – descrivendola come una forma di «ipocrisia o di deliberata dissimulazione». Rileva inoltre la presenza nel rapporto di alcune contraddizioni. Da un lato si parla di «separatismo islamista», dall’altro di «infiltrazione islamista». Ma, osserva, «come può qualcuno che ha scelto la via del separatismo e dell’isolamento prendendo le distanze dalla società e rifiutando di interagire e armonizzarsi con le sue componenti, riuscire al tempo stesso a infiltrarla, penetrarla e pervaderla scalandone le strutture sociali e politiche, arrivando perfino a ricoprire incarichi pubblici?» L’ex vicesindaco prosegue dicendo che l’estremismo esiste ed è compito dello Stato affrontarlo. Ma invece di «individuare la malattia e proporre una cura» questo rapporto confonde le acque e fornisce un pretesto per colpire indiscriminatamente tutti i musulmani, trasformandoli in sospettati per il solo fatto di professare la loro fede, conclude l’articolo.

In un articolo pubblicato su al-Sharq al-Awsat, quotidiano panarabo di proprietà saudita, il ricercatore libico Jebril Elabidi lancia invece una dura crociata contro i Fratelli musulmani, accusando l’Europa di aver reagito troppo tardi alla «minaccia». Secondo Elabidi, i Fratelli musulmani stanno tentando di instaurare un «califfato europeo» sfruttando il disagio sociale nelle comunità emarginate, in particolare nelle banlieue francesi, per infiltrare il tessuto sociale e politico del Paese. Questa strategia fondata sull’infiltrazione della società è, secondo il giornalista, una tecnica già sperimentata in altri contesti. Se le autorità francesi non agiranno in fretta, integrando i gruppi emarginati e abbandonando ogni forma di indulgenza verso di essi, la Francia rischia di offrire terreno fertile alla diffusione dell’ideologia della Fratellanza, descritta come un «cancro» per la società. Elabidi sottolinea inoltre come nelle loro esperienze di governo i Fratelli abbiamo dimostrato la loro incapacità di rappresentare una nazione o un popolo, poiché «la loro lealtà resta esclusivamente rivolta all’organizzazione». Il giornalista paragona il movimento a un «genio uscito dalla lampada» che si rivolta puntualmente contro chi lo ha liberato: già in passato, leader come re Idris al-Sanusi, Anwar al-Sadat e Muammar Gheddafi liberarono dalle carceri i Fratelli musulmani od offrirono loro protezione, ma furono sempre traditi. La conclusione dell’articolo è netta: i Fratelli musulmani non sono affidabili e rappresentano un pericolo persistente, pronto a riemergere ogni volta che si presenta un’opportunità a loro favorevole.

Toni trionfalistici caratterizzano il commento di Mohammed Khalfan al-Sawafi, ricercatore del think thank emiratino Trends, pubblicato sul quotidiano emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariyya. La diffusione del rapporto francese viene accolta come una conferma del ruolo pionieristico svolto dagli Emirati nella lotta contro l’estremismo. Secondo il ricercatore, il documento contiene «due immagini significative» che valorizzano il contributo di Abu Dhabi alla battaglia globale contro il radicalismo islamista. La prima immagine è rappresentata dal risveglio della comunità internazionale di fronte alla minaccia rappresentata dai Fratelli musulmani, ciò che è potuto avvenire «grazie alla posizione politicamente coraggiosa» adottata negli anni dagli Emirati. Il Paese, si legge, ha avuto il merito di denunciare il legame tra la Fratellanza e le ideologie estremiste, contribuendo a sensibilizzare i governi occidentali fino a poco tempo fa ancora reticenti. In questa visione, la strategia emiratina si configura come un impegno per la «stabilità globale», spiega ancora al-Sawafi. La seconda immagine riguarda il riconoscimento ufficiale, da parte delle autorità francesi, della competenza del centro di ricerca Trends Research & Advisory (presso il quale lavora al-Sawafi), che ha collaborato attivamente alla stesura del rapporto. Il giornalista presenta il coinvolgimento del centro come una conferma della sua efficacia nel portare all’attenzione delle democrazie occidentali la minaccia rappresentata dall’islam politico. Il ricercatore ribadisce infine che «i Fratelli musulmani sono l’organizzazione politica che più di ogni altra ha distorto i concetti e i valori dell’islam nel mondo, attraverso una dottrina che giustifica per sé ogni forma di violazione religiosa e morale, arrivando perfino a legittimare l’uccisione di innocenti per raggiungere l’obbiettivo finale: ripristinare il califfato». I Fratelli musulmani, conclude al-Sawafi con una certa soddisfazione, stanno progressivamente diventando un «gruppo paria» a livello globale.