Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 10/10/2025 11:47:59
Tra i giornalisti arabi, l’annuncio del piano di pace proposto da Trump ha suscitato diverse riflessioni sul futuro di Hamas e dell’Autorità Nazionale Palestinese. Al momento della chiusura di questa rassegna, i commenti sull’intesa raggiunta il 9 ottobre sono ancora limitati, ma il dibattito si sta rapidamente intensificando. Ne parleremo più approfonditamente nella rassegna stampa di venerdì prossimo, anche se qualcosa è già emerso.
Poche ore dopo il raggiungimento dell’accordo, ad esempio, il sito dell’emittente televisiva qatariota al-Jazeera ha pubblicato un articolo firmato da Ezzat al-Rashq, capo dell’ufficio stampa di Hamas. El-Rashq rivendica la legittimità di Hamas definendolo «un movimento di liberazione nazionale palestinese, un’estensione dei movimenti di liberazione globali contro il colonialismo e l’apartheid, che sostiene i valori umani nobili come la libertà, la giustizia e il diritto del popolo palestinese a una vita dignitosa sulla propria terra». Nelle parole del militante islamista, le azioni di Hamas «sono state una risposta doverosa e un rifiuto naturale dell’occupazione, dell’idea di ingiustizia, della brutalità e della macchina di morte israeliana». Al-Rashq attacca poi gli Stati Uniti, accusati di aver «fornito la copertura politica a Israele per completare ed estendere i suoi crimini», e conclude sibillino: «Sbaglia chi crede che la rivoluzione finisca prima che finiscano le sue cause, e che l’idea della rivoluzione possa morire prima della sua vittoria. La storia palestinese moderna è una lezione per voi».
Sul quotidiano filo-emiratino al-‘Arab, il giornalista tunisino Ali Qasim osserva invece come l’accordo di cessate il fuoco «sollevi interrogativi sulla sua sostenibilità nel contesto delle divisioni israeliane e dell’ambiguità delle posizioni di Hamas». L’intesa infatti non è priva di rischi: da un lato, i ministri israeliani dell’estrema destra potrebbero ostacolarne l’attuazione; dall’altro, Hamas ha accettato di rilasciare gli ostaggi, ma senza prendere un impegno chiaro sul disarmo. Quest’ambiguità, prosegue l’articolo, potrebbe portare a nuove violazioni della tregua, come è accaduto in passato. Il successo di questo accordo, conclude Qasim, dipende da diversi fattori: l’istituzione di meccanismi di monitoraggio internazionale per garantirne l’attuazione, l’avvio di una soluzione politica globale che affronti le radici del conflitto, inclusa la creazione di uno Stato palestinese indipendente e, infine, il mantenimento del ruolo di garante da parte di Trump, ma senza la parzialità verso Israele che gli è stata in precedenza contestata.
Anche nei giorni precedenti all’intesa, il dibattito si era concentrato molto sul disarmo di Hamas e sulla sua possibile evoluzione.
L’accettazione da parte del movimento islamista del piano proposto dagli Stati Uniti rende necessario un cambio di strategia, scriveva invece l’8 ottobre il politologo palestinese Ahmed Jamil Azem su al-‘Arabi al-Jadid. Nei prossimi mesi Hamas dovrà ridefinire la propria visione politica e probabilmente persino rivedere il proprio nome, la struttura organizzativa, gli strumenti operativi e le alleanze internazionali, definitivamente compromessi da due anni di guerra e dall’inerzia dei leader del movimento. Hamas, prosegue l’articolo, «non ha avuto alcun ruolo nel definire o orientare gli eventi che hanno accompagnato questa iniziativa. Questa mossa è stata piuttosto una reazione alla distruzione e alla morte causate da Israele e all’arroganza della sua leadership». Tuttavia, scrive Azem, il principale sconfitto politico sembrano essere l’Autorità Nazionale e Fatah, «oggi sostanzialmente ai margini della scena e dei negoziati». È sufficiente ascoltare il discorso del presidente degli Stati Uniti per cogliere un dato evidente, prosegue il giornalista: la comunità internazionale considera Hamas un interlocutore centrale nel processo in corso, sebbene gli venga chiesto di accettare il piano e farsi da parte, mentre all’Autorità Nazionale Palestinese vengono imposte condizioni stringenti come prerequisito per una sua eventuale «riabilitazione politica». Queste condizioni comprendono richieste che mettono in discussione la stessa identità del movimento nazionale palestinese, come la revisione dei programmi educativi e il trasferimento dei prigionieri e delle famiglie dei martiri ai centri di assistenza sociale. Di fronte a questo scenario, il Azem si domanda quale strategia intenda adottare Fatah per la fase successiva. «L’eredità storica, giuridica e istituzionale palestinese, rappresentata dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, dall’Autorità Nazionale Palestinese e dal progetto di Stato palestinese, è ciò che rende l’ANP l’attore principale nello sforzo arabo e internazionale per fermare il deterioramento. Ma senza il sostegno popolare, senza affrontare la questione del contrasto all’occupazione e senza unità nazionale, questa eredità perde il suo significato», conclude il giornalista.
Su al-Quds al-‘Arabi il giornalista egiziano Ibrahim Nawar ha scritto il 7 ottobre che «la questione del disarmo di Hamas e della smilitarizzazione di Gaza rappresenta il nodo centrale di qualsiasi piano per il futuro postbellico di Gaza, di qualsiasi piano di ricostruzione o di qualsiasi accordo volto al raggiungimento della sicurezza». Secondo Nawar, il piano di Trump non potrà garantire la sicurezza senza un accordo che preveda la cessazione totale delle operazioni militari: «Nessuna forza arabo-palestinese o internazionale accetterà infatti di dispiegarsi a Gaza finché Hamas rimarrà armato, poiché anche un semplice disaccordo sull’attuazione del piano potrebbe trasformarsi in un conflitto interno alla Striscia». Allo stesso modo, osserva, non sarà possibile avviare la ricostruzione della Striscia se Hamas continuerà a mantenere il controllo o a rappresentare una minaccia per un’eventuale amministrazione ad interim. Per questo Nawar propone la creazione di un gruppo di lavoro arabo-palestinese incaricato di elaborare una strategia sulla questione delle armi a Gaza.
Che cosa chiede la generazione Z nel «Marocco a due velocità» [a cura di Chiara Pellegrino]
Da oltre due settimane il Marocco è teatro delle proteste della GenZ 212, un movimento composto da giovani tra i 15 e i 24 anni. Sul quotidiano di proprietà qatariota al-‘Arabi al-Jadid, lo scrittore e poeta marocchino Abdul Hamid Jamahiri osserva che «la Generazione Z ha fatto con la rabbia e la politica ciò che Socrate fece con la filosofia: farle scendere dall’alto dell’inquadramento istituzionale per portarle nella vita reale». I giovani hanno posto al centro della loro agenda «la triade “salute, istruzione e lotta alla corruzione”, senza una formula politica di ampio respiro. È una generazione che non cerca di negoziare con il governo né di presentare un classico dossier di rivendicazioni», ma si percepisce come portatrice di una legittimità etica, fondata su richieste chiare e condivise a livello nazionale. Per loro, «il tavolo delle trattative è la strada stessa» e l’esperienza politica non è considerata un prerequisito per ottenere giustizia sociale, spiega lo scrittore. È significativo, sottolinea Jamahiri, che questi giovani abbiano chiesto l’intervento diretto di Re Mohammed VI, evocando l’immagine del «re filosofo, che sa tutto e porta felicità al suo popolo». La fase più intensa della mobilitazione è culminata in una lettera indirizzata al sovrano, nella quale si chiedeva la deposizione del governo e lo scioglimento del parlamento. Per questa generazione, il momento più atteso è probabilmente il discorso che il Re pronuncerà al Parlamento venerdì [al momento della chiusura di questa rassegna, il discorso non era ancora stato pronunciato, NdR]. Jamahiri evidenzia inoltre un elemento nuovo e rilevante: sia i manifestanti, sia le autorità si richiamano esplicitamente alla Costituzione. I giovani rivendicano il diritto costituzionale a manifestare, mentre le autorità giustificano il loro intervento appellandosi al diritto costituzionale alla protezione delle istituzioni. Questa dinamica ha avuto un impatto significativo sul dialogo pubblico, rimasto assente per anni, e lo ha inserito per la prima volta all’interno di un quadro istituzionale, conclude l’articolo.
In un articolo pubblicato su al-Jazeera, il politologo e scrittore marocchino Hassan Aourid, che in passato è stato anche portavoce del palazzo reale e storiografo del regno, richiama l’attenzione sulla natura inedita dell’attuale ondata di proteste. Innanzitutto in diverse città le manifestazioni sono degenerate in atti di vandalismo e saccheggi, estendendosi anche in luoghi che storicamente non avevano mai conosciuto episodi di violenza, come Errachidia, Ouarzazate e Zagora, nel sud-est del Paese. Questo, continua l’autore, «indica un cambiamento nella geografia delle proteste in Marocco, in aree precedentemente note per la loro natura pacifica». Secondo Aourid, inoltre, a differenza delle proteste passate, che si svolgevano in un’unica città e in un solo giorno, la contestazione delle ultime settimane si distingue per la sua diffusione territoriale e per la sua durata temporale. Ed è diversa anche dalle proteste scoppiate il 20 febbraio del 2011 nel contesto della Primavera araba, che avevano un carattere politico, così come dal Movimento del Rif, di natura prevalentemente regionale. Un altro elemento significativo è il consenso trasversale sulle rivendicazioni: paradossalmente sono gli attori politici e le principali forze sociali, incluso il governo, a riconoscere la legittimità delle richieste di miglioramento della sanità e dell’istruzione. L’inefficienza dei servizi sociali, la mancanza di infrastrutture e di risorse umane adeguate, così come le profonde disuguaglianze urbane e le diffuse manifestazioni di povertà, erano elementi già evidenti da anni. Questa condizione di fragilità, spiega il politologo, si è ulteriormente aggravata a causa della pandemia di COVID-19, degli effetti della guerra russo-ucraina, dell’impennata dei prezzi e di anni di siccità. Lo stesso Re Mohammed VI, nel discorso del Trono dello 29 luglio scorso, aveva denunciato l’esistenza di «un Marocco a due velocità»: da un lato una facciata scintillante, dall’altro la dura realtà quotidiana di un Paese che vive profonde disuguaglianze. Questa frattura interna, amplificata dai social media, ha alimentato un crescente risentimento sociale. Come osserva ancora Aourid, «il Marocco è ormai privo di una classe politica e di un’élite intellettuale, con ministri privi di personalità e di carisma, incapaci di parlare o comunicare efficacemente, un principio fondamentale dell’azione politica. Ciò non significa che il Marocco manchi di politici eloquenti e intellettuali acuti, ma questi non sono più influenti. Questo vuoto ha finito per esplodere in forme di rabbia diffusa». A tutto ciò, prosegue l’articolo, si aggiunge un elemento determinante: l’impatto della guerra a Gaza. La situazione nella Striscia ha intensificato la mobilitazione, finendo per intrecciare dimensioni sociali e politiche. Le proteste a sostegno di Gaza sono diventate anche un canale per esprimere il malcontento interno, e viceversa le rivendicazioni sociali si sono caricate di un forte messaggio di solidarietà con la popolazione palestinese, conclude Aourid.
Su al-‘Arab, lo scrittore emiratino Salem Alkebti rinuncia a qualsiasi analisi sulle proteste in corso e si limita tessere le lodi di re Muhammad VI, «simbolo di fermezza e unità, che veglia sul suo popolo come un padre veglia sui suoi figli, con uno sguardo che non dorme mai sulle loro preoccupazioni e un cuore colmo di compassione e sollecitudine». I marocchini, prosegue l’articolo, si sono abituati a vedere il loro re non solo come un leader politico, ma anche come un sostegno morale e una fonte di sicurezza. «Quando la situazione si fa dura, la sua presenza è un messaggio rassicurante, come se la sua voce fosse una preghiera collettiva che rinnova la speranza. È il simbolo della continuità della grande casa marocchina e una garanzia che il Marocco, la sua terra e il suo popolo, resteranno saldi nella giustizia e nella solidarietà, non saranno toccati dalle tempeste né distrutti dalla sedizione». L’articolo si conclude con una serie di altisonanti invocazioni rivolte a Dio affinché protegga il Marocco «con il Suo occhio che non dorme mai e renda questa patria sicura e serena fino al giorno del giudizio, spezzi le schiere degli sciacalli e le disperda».