Nel suo romanzo d’esordio, vincitore nel 2022 del più prestigioso premio letterario del mondo arabo, lo scrittore libico Mohamed Alnaas racconta la storia di un ragazzo che non si riconosce negli stereotipi di genere imposti dalla società in cui vive

Ultimo aggiornamento: 05/04/2023 16:10:04

Il dibattito sugli stereotipi di genere e i ruoli ad essi tradizionalmente legati è all’ordine del giorno un po’ ovunque. Vi sono però alcune società, tra cui quelle arabe, nelle quali vivere senza rispecchiare in toto ciò che il proprio genere tradizionalmente implica sembra essere particolarmente difficile. «O riacquisto la mia virilità o metto fine alla mia vita». Questo il pensiero estremo con cui più volte deve fare i conti Mīlād al-Ustā, protagonista del primo romanzo dello scrittore libico Mohamed Alnaas (Muhammad al-Na‘ās), intitolato Khubz ‘alā tāwilat al-khāl Mīlād (Il pane sulla tavola dello zio Mīlād).

 

Nato in Libia nel 1991, nel 2014 Alnaas ha conseguito la laurea in Ingegneria elettronica presso l’università di Tripoli. Nel 2020 ha pubblicato una raccolta di racconti brevi intitolata Dam Azraq (Sangue Blu) e l’anno successivo ha dato alle stampe il suo primo romanzo: Khubz ‘alā tāwilat al-khāl Mīlād (Il Pane sulla tavola dello zio Mīlād) appunto, con il quale nel maggio del 2022 si è aggiudicato l’ IPAF (The International Prize for Arabic Fiction), il premio letterario più prestigioso del mondo arabo.

 

Come ha affermato lo scrittore e accademico tunisino Choukrī Mabkhout, presidente della giuria che ha assegnato il premio ad Alnaas, Khubz ‘alā tāwilat al-Khāl Mīlād è scritto nella forma di una «confessione delle proprie esperienze». L’autore ha riferito di avere scritto il romanzo in soli sei mesi e di essersi rifugiato nella scrittura «per non impazzire» durante il lockdown e mentre Tripoli veniva bombardata.

 

Ambientato nella seconda metà del XX secolo tra Tripoli e il villaggio di Bir Husayn, questo romanzo custodisce le esperienze e le riflessioni di Mīlād al-Ustā, unico figlio maschio di un noto panettiere della città. Il padre di Mīlād si era trasferito in città dal villaggio d’origine, Bir Husayn, per imparare “l’arte del pane” dal suo maestro italiano e, successivamente, aveva trasmesso la passione per i lievitati e la loro lenta preparazione al figlio. I ricordi più belli dell’infanzia di Mīlād sono infatti quelli trascorsi nella panetteria di famiglia, dove il padre, burbero con le persone ma “gentile” con i suoi impasti, gli ha rivelato i segreti del mestiere. Fin da ragazzo Mīlād è sensibile, riservato, pacifico ed emotivo, si imbarazza facilmente e non riesce a nasconderlo. Cresciuto in compagnia di quattro sorelle, impara a prendersi cura della casa, fare il bucato, lavare i piatti e cucinare. È preciso, amante dell’abbigliamento, della pulizia e attento alla cura del suo aspetto esteriore. Queste caratteristiche, considerate inappropriate per un uomo, destano il sospetto tanto dei parenti quanto degli abitanti del villaggio d’origine. Lo stesso Mīlād, cresciuto in una famiglia tradizionale e conservatrice, è sempre più convinto di avere qualcosa che non va:

 

Ho fatto scivolare la mano a premere contro le costole, per assicurarmi che fossero tutte al posto giusto. Per un attimo ho sentito di aver contato male: forse manca una costola, forse è quella che Dio ha tolto ad Adamo mentre dormiva. (p. 10)

 

Le critiche di familiari e conoscenti rendono la vita del giovane un vero incubo: «Devi diventare un uomo», «Non va bene che un uomo stia seduto a parlare con le donne» (p. 35), «Non piangere, gli uomini non piangono» (p. 353), «Sicuro di essere un uomo?» (p. 78). Da sempre Mīlād viene incalzato da queste e molte altre provocazioni, affinché dia finalmente prova della sua virilità. Ma è tutto inutile. Nonostante l’impegno e gli sforzi, Mīlād non riuscirà mai ad essere “l’uomo” che la sua famiglia, la sua società e lui stesso vorrebbero. Neanche il matrimonio con Zaynab, la ragazza di città di cui era stato innamorato fin da bambino, indipendente e dalle idee rivoluzionarie, riesce a placare i suoi tormenti. Mīlād continua a soffrire perché si rende conto di non essere in grado di imporle la propria autorità di marito, secondo gli usi della sua società. Disilluso e deriso da tutti, si rifugia nelle uniche attività che lo fanno sentire “autorevole” e adeguato: l’attenta preparazione del pane e la cura della casa. Soltanto immergendosi in queste mansioni, che richiedono una nuova forma di autorità alimentata dall’amore, dalla cura e dalla pazienza, Mīlād si sente finalmente sé stesso e al sicuro.

 

Dopo essersi aggiudicato il premio IPAF 2022, Khubz ‘alā tāwilat al-khāl Mīlād ha attirato l’attenzione della critica. Durante la premiazione, Choukrī Mabkhout ha sottolineato che il libro, pur rientrando «nella categoria dei romanzi che mettono in discussione le norme culturali sul genere», rinuncia a trattare la questione in maniera ideologica e, al contrario, le fa assumere i tratti di un dibattito che matura in un contesto socio-culturale arabo. A questo proposito e nella stessa occasione, il Prof. Yasir Suleiman, presidente del consiglio di amministrazione dell’IPAF e professore emerito di Studi arabi a Cambridge, ha evidenziato come la narrazione riesca a evocare «un tessuto culturale conflittuale, che fonde il tempo con il luogo in uno scenario libico, che parla agli arabi e per gli arabi di tutto il mondo». Il contesto socio-culturale in cui è ambientato il romanzo è determinante per l’esito di tutte le vicende narrate. Come ha infatti scritto su al-Quds il critico letterario ‘Adil Darghām, il trasferimento della famiglia di Mīlād dalla città al villaggio d’origine per recuperare le terre precedentemente confiscate dai coloni italiani simboleggia i cambiamenti socio-culturali avvenuti in Libia nell’epoca in cui il romanzo è ambientato. La città, simbolo del cosmopolitismo e del pluralismo culturale che vi si respirava prima dell’indipendenza, viene abbandonata per tornare al villaggio, emblema di una società araba che custodisce intatto il proprio sistema sociale e le proprie tradizioni. Di conseguenza, si tratterebbe di un romanzo dominato solo in apparenza da spinte moderniste, nella direzione del superamento degli stereotipi di genere. In realtà tali spinte subiscono continue battute d’arresto a causa del prevalere ultimo della chiusura mentale della società in cui esse cercano di fare breccia. Simbolicamente, sempre secondo Darghām, ad ogni personaggio che incarna il tentativo di superare le costrizioni sociali, si oppone un altro personaggio che reprime queste aspirazioni, le quali finiscono per diventare inesauribili fonti di problemi.

 

La struttura stessa del romanzo sembra riflettere una continua tensione tra il desiderio di superare le norme sul genere radicate nella società libica e il fallimento ultimo di ogni tentativo compiuto in questa direzione. Ogni capitolo porta il nome di un luogo che ha fatto parte della quotidianità del protagonista, accompagnato da un detto popolare che esalta il valore della virilità e che anticipa la provocazione con cui Mīlād dovrà fare i conti nel corso della narrazione. Il flusso narrativo sembra rispecchiare l’instancabile attitudine del protagonista, che si rimette continuamente in gioco, cercando di affrontare sé stesso e la società che lo circonda. I “confini” del capitolo, così come i confini dei luoghi che ospitano la narrazione, rappresentano invece quelle stesse norme sociali “sulla virilità,” che Mīlād impone a sé stesso con il supporto di famiglia e conoscenti. L’inizio e la fine di ogni capitolo arrestano di volta in volta il flusso della narrazione, lasciando così Mīlād ultimamente ingabbiato nel sistema sociale predominante.

 

Khubz ‘alā tāwilat al-khāl Mīlād presenta un’altra caratteristica interessante: nella letteratura araba contemporanea, il tema dell’emancipazione dai modelli di genere socialmente imposti è normalmente trattato per “liberare” personaggi femminili, considerati più svantaggiati dal sistema patriarcale che ancora regola molte società arabe; qui la critica agli stereotipi di genere nasce invece dall’esigenza di “liberare” un uomo e un marito, le cui naturali inclinazioni non soddisfano il modello di virilità e autorità che la sua società si attende da lui. L’esperienza di Mīlād testimonia infatti che, indipendentemente dal genere, nei Paesi arabi sembra diffusa l’esigenza di svincolarsi dal sistema di norme sociali prevalenti, per essere uomini, donne, mariti e mogli liberi di vivere secondo la propria indole. Quindi, rispetto a quanto affermato da Darghām, la scelta stessa di scrivere questo romanzo può essere considerata un passo verso il superamento degli stereotipi di genere, in un contesto in cui sono ancora pochi gli uomini che hanno il coraggio di sottrarsi al modello di virilità imposto dalla società.

 

Infine, è giusto sottolineare che il premio IPAF è promosso e finanziato dal dipartimento della cultura e del turismo di Abu Dhabi, che tramite iniziative culturali simili punta a presentare gli Emirati Arabi Uniti come un paese aperto e all’avanguardia. Pertanto, al di là dell’indubbia qualità del prodotto, non stupisce la premiazione di un romanzo come questo, che tenta una mobilitazione culturale in contesto arabo verso un tema progressista.

 

In attesa di leggere la traduzione in inglese, e magari italiana, di questo romanzo, proponiamo di seguito la traduzione di un breve estratto.

 

«Chi è abituato al tuo pane, chi ti desidera, avrà fame. Abituati al tuo pane, la gente si abituerà». «Cosa significa questo?». «Lo capirai quando crescerai. La cosa più importante, ragazzo, è che ho notato un’instabilità in te, devi essere un uomo. Presto le tue sorelle avranno bisogno di un uomo al loro fianco. Io sono ormai vecchio, non riesco più a sopportare il calore del forno né riesco più a lavorare tutto il giorno nella panetteria. «Io sono sempre al loro fianco, parlo con loro, un giorno Safā mi ha anche insegnato come fare le code ai capelli di Asmā» «Cosa? Oh Dio abbi pazienza, ragazzo, sei proprio un idiota! Tu sei un uomo, non va bene che un uomo stia seduto a parlare con le donne. L’uomo e la donna sono come il sale e il lievito, non capisci? Anzi, addirittura tocchi i capelli di tua sorella. «Mi dispiace, non era mia intenzione». «Fai qualcos’altro con loro?» «No, nient’altro» «Cosa ti ho detto, delle bugie?» «Mi dispiace, sì … mi siedo con loro, le ascolto, parlano delle vicine e della vita nei pressi della “noria”, facciamo delle torte e compro loro gli assorbenti. «Cosa?». Quel giorno presi il più grande schiaffo della mia vita, più grande degli schiaffi di al-mādūnnā e delle sue botte. Mio padre mi tirò a sé e mi disse che dovevo diventare un uomo e smettere di stare in compagnia delle mie sorelle. «Puoi stare in loro compagnia solo come guardiano o padre» e mi disse che mi avrebbe visto durante il giorno e mi ordinò di studiare e fare i compiti nella panetteria e di tornare a casa solo per dormire, per mangiare e sbrigare le mansioni di casa. Leggevo nei suoi occhi la sua delusione e il suo dispiacere per aver fatto nascere un uomo come me, come se fosse lui la principale causa di tutto questo. Mio padre aveva provato a darmi un fratello ma Asmā aveva fatto fallire il suo piano, avrebbe dovuto essere un maschio, tuttavia nella nostra famiglia sono sempre nate figlie femmine: mio padre ha sei sorelle e un solo fratello più piccolo. Mia madre mi disse che i miei nonni erano gli unici figli maschi del mio bisnonno tra quindici femmine avute da due mogli. Per questo motivo mio padre era allergico alle donne. (pp. 35-36)

[…]

«L’ho vista salire da sola nella macchina del direttore». Queste parole risuonarono nella mia mente. Avevo il mare davanti a me e la paura, da sola, dietro di me, le sue luci brillavano in ogni casa. Domandai a Dio che cosa avessi fatto perché la vita si comportasse con me in questo modo. È perché sono stato l’unico fratello tra quattro sorelle? Perché ho imparato a dieci anni a fare le trecce alle mie sorelle? E a dodici a preparare la ceretta? Perché ho preparato il pane, le torte, i dolci e le brioches? E ho imparato a cucinare da bambino? Forse è perché ho accettato di lavare i vestiti di mia moglie, li ho piegati e stirati, ho pulito la sua casa e lavato le sue pentole? Forse perché ho abbandonato il letto e il piacere coniugale da quando abbiamo rinunciato ad avere figli? Quando è stato? Certo, al mio quarantesimo compleanno, quello stesso compleanno in cui mi sono completamente trasformato nel Mīlād che tutto il vicinato prende in giro e che un giorno verrà preso in giro da tutto il paese e il pianeta. (pp. 81-82).

[…]

Ci sono molti proverbi popolari su come dovrebbe essere il rapporto tra un uomo e sua moglie, ma quello che più mi risuona nella mente è il proverbio che mi disse mia madre quella volta, infastidita dal lavoro di Zaynab e dal suo disinteresse per la cura della casa. Mi disse: «il cavallo dipende dal suo cavaliere» e ora mi ripeto questa frase nella mente. So che tutto quello che è successo dipende da me, non sono riuscito a domare il mio cavallo, amavo il suo essere audace e forte e capace di prendermi a calci se provavo a farle torto. A volte ho incolpato mio padre della mia vergognosa esistenza all’interno della società per il fatto che non aveva fatto nascere un altro fratello che mi mostrasse come assumermi la responsabilità delle situazioni. Altre volte ho scaricato la colpa sulle mie sorelle e sul loro comportamento nei miei confronti: per avermi insegnato a preparare la ceretta e addirittura per essersi depilate davanti a me e per aver perseverato nel diluirla per farla rimuovere a me, per avere apprezzato la mia mano delicata su di loro, per la mia capacità di rimuovere i loro peli in un modo quasi indolore, poi per il mio stesso compiacimento nel farlo e per averlo fatto anche a Zaynab nell’appartamento di suo zio. Puntavo il dito accusando tutti: al-mādūnnā, il suo trattarmi brutalmente e il suo costringermi ad essere un uomo anche a costo della mia vita; mio zio e il suo disinteresse nei miei confronti dopo la morte di mio padre, per avermi lasciato crescere tra cinque donne; lo zio di Zaynab, il fottuto artista che l’ha trasformata in una creatura che non riesce a vivere tra le mura del nostro paese. Ho accusato tutti tranne me stesso. C’era sempre una voce che ho cercato di mettere a tacere, una voce materna che mi diceva che il mio rapporto con Zaynab e il mio matrimonio con lei non sarebbero finiti bene; da quando mia madre mi aveva detto che non voleva che la sposassi e che preferiva che mi sposassi con mia cugina, ma io ho sempre cercato di resistere e ho ascoltato un’altra voce. Al-madām dice che quella voce non è altro che il riflesso del mio desiderio di tornare tra le braccia della città e che la voce materna è, al contrario, il riflesso di ciò che ho vissuto nel villaggio, che mi ha aperto gli occhi su come vanno le cose in campagna. (pp. 200-201)

 

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