Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 26/09/2025 15:12:50

Il recente riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di alcuni Paesi occidentali di peso ha suscitato reazioni contrastanti nella stampa araba. I media sauditi lo celebrano come un trionfo dell’iniziativa lanciata da Riyad insieme a Parigi, mentre altre testate arabe adottano toni critici, denunciando l’ipocrisia di un Occidente che agisce più per alleggerire la propria coscienza che per reale convinzione. Per molti osservatori arabi, inoltre, la nascita di uno Stato palestinese appare irrealizzabile: i territori sono stati progressivamente erosi da annessioni e insediamenti, e manca del tutto la volontà politica da parte di Israele.

L’ex direttore editoriale del quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat, ‘Abdul Rahman al-Rashid, parla di un «successo clamoroso», ma destinato a suscitare la reazione degli estremisti arabi e israeliani, pronti a creare il caos per ostacolare il processo. Il giornalista respinge la tesi di Hamas secondo cui il riconoscimento sarebbe frutto del 7 ottobre: al contrario, quell’attacco mirava a sabotare i negoziati sauditi con l’amministrazione Biden sulla soluzione dei due Stati. L’organizzazione islamista, spiega al-Rashid, ha una lunga tradizione di «sabotaggi»: dagli attentati del 2003 contro due autobus in cui morirono quaranta israeliani, alla conferenza di Annapolis del 2007, fino agli attentati del 7 ottobre 2023. Questi ultimi hanno prodotto effetti devastanti, creando le condizioni perché Netanyahu potesse «cercare di raddoppiare i suoi guadagni distruggendo Gaza e annettendo la Cisgiordania». Nonostante tutto, prosegue al-Rashid, si è aperta una nuova fase: «La maggioranza dei palestinesi e degli arabi crede oggi nella soluzione dei due Stati, che implica esplicitamente anche il riconoscimento dello Stato di Israele e la fine di ottant’anni di conflitti, caos e odio». Ma il progetto saudita, conclude l’articolo, necessita del sostegno di Washington; se l’amministrazione statunitense lo adotterà, l’idea potrà davvero segnare una svolta storica, tale da giustificare perfino l’assegnazione del Nobel per la Pace a Trump.

Ipercritiche e taglienti invece le parole di Hisham Karaoui, che sul quotidiano filo-emiratino al-‘Arab definisce la recente ondata di riconoscimenti della Palestina «una delle manovre diplomatiche più ciniche nelle relazioni internazionali contemporanee». Per il giornalista tunisino si tratta di una «diplomazia di facciata», dettata non da autentica solidarietà, ma dall’esigenza di rispondere alla crescente pressione delle opinioni pubbliche occidentali, sempre più favorevoli alla causa palestinese dopo gli eccessi compiuti negli ultimi mesi da Israele. E questo, aggiunge, «rivela la profonda bancarotta morale della politica estera occidentale». La tempistica e le circostanze del riconoscimento mettono in luce un’ipocrisia di fondo: gli stessi Paesi che per decenni hanno garantito copertura diplomatica a Israele si presentano oggi come difensori dei diritti dei palestinesi solo per convenienza politica. Il caso britannico ha un peso particolare, prosegue l’articolo, vista la responsabilità storica di Londra nella «catastrofe palestinese» a partire dalla Dichiarazione Balfour del 1917. Lo stesso vale per la Francia, che si è resa complice di Israele contribuendo a dotarlo dell’arma nucleare, aiutando Tel Aviv a costruire il reattore nucleare di Dimona. Queste potenze, prosegue Karaoui, avrebbero potuto riconoscere da tempo lo Stato di Palestina, evitando massacri e crimini di guerra. Invece «hanno scelto di sostenere il mito per cui Israele è “l’unica democrazia in Medio Oriente”, ignorando la censura militare che ha costantemente nascosto le informazioni sui crimini di guerra israeliani». La vera domanda, conclude il giornalista, è se il riconoscimento della Palestina avrà qualche ripercussione reale, e la risposta è «un sonoro no». Il riconoscimento non fermerà gli insediamenti né le violenze. È un gesto simbolico, «uno spettacolo diplomatico, che fornisce conforto psicologico gli occidentali mentre i palestinesi continuano a morire». Nella realtà dei fatti Israele continua a controllare i confini e a occupare i territori della Cisgiordania. Finché non verranno introdotte misure concrete di pressione, queste dichiarazioni resteranno pura diplomazia di facciata. La retorica cresce, ma la leva economica occidentale resta sostanzialmente inutilizzata, conclude il giornalista.

Dopo l’attacco israeliano a Doha e il riconoscimento internazionale della Palestina, «il clima nella regione del Golfo è cambiato», commenta l’ex ambasciatore Ahmad al-Hosani sul quotidiano emiratino al-Ittihad. Israele continua a perdere terreno, sprecando occasioni sia a livello regionale che internazionale, mentre la Palestina guadagna il sostegno dell’opinione pubblica globale. Questo consenso rafforza la legittimità delle rivendicazioni palestinesi e ne consolida la determinazione a difendere i propri diritti nazionali, indebolendo al contempo la posizione di Israele. Israele, conclude il giornalista, «non deve restare prigioniero dell’illusione, dell’autocompiacimento e di una visione narcisistica. Deve tastare il suo vicinato, con la consapevolezza che non può bagnarsi due volte nello stesso fiume».

Anche la stampa tradizionalmente vicina alla causa palestinese non mostra entusiasmo per il tardivo riconoscimento della Palestina. Al-Quds al-‘Arabi (letteralmente, “La Gerusalemme araba”) denuncia l’ipocrisia dell’Occidente: il gesto non nasce da «un’intenzione sincera o una convinzione profonda per cui la Palestina meriti di essere uno Stato. E non siamo neppure di fronte alla correzione di un crimine storico, a scuse o a un risveglio della coscienza. La questione del riconoscimento è zoppa fin dall’inizio». Peraltro, conclude l’autore dell’articolo, il semplice riconoscimento è inutile se non si traduce in misure concrete di pressione politica, diplomatica, economica, culturale e accademica contro Israele.

«Applaudire questo passo non è sufficiente», osserva l’imprenditore giordano-palestinese Talal Abu Ghazaleh sulla stessa testata. «Il riconoscimento dovrebbe segnare l’inizio dello smantellamento del sistema di occupazione, non una nuova copertura». Secondo Abu Ghazaleh, questa è un’opportunità strategica che richiede una coscienza palestinese e araba fondata non sulla celebrazione, ma su istanze concrete, organizzazione e investimenti mirati. L’Autorità Nazionale Palestinese deve sfruttare il momento, non con formalità protocollari, ma attraverso azioni giuridiche, l’ampliamento delle alleanze e la ricalibrazione dei rapporti con le istituzioni internazionali. «Siamo stanchi delle false promesse della “soluzione dei due Stati”, mentre ogni giorno si costruisce un nuovo insediamento. I palestinesi non hanno bisogno di pietà, ma di giustizia. Il mondo deve dimostrare che il sistema internazionale non è governato solo dall’equilibrio di potere, ma da valori che dovrebbero essere fondamentali: dignità, sovranità e diritto all’autodeterminazione. Questo è un momento storico, ma la storia non ha pietà di chi punta sul simbolismo senza agire».

Molte penne arabe dubitano che, al di là degli slogan, la creazione di uno Stato palestinese sia realmente fattibile. Sulle colonne del quotidiano libanese filo-Hezbollah al-Akhbar, Ayman al-Sahli osserva come il riconoscimento sia «un passo dalla parte giusta della storia, come spesso si dice in termini politicamente corretti», ma non restituirà ai palestinesi la loro terra, non li ricompenserà per decenni di ingiustizie e non fermerà lo sterminio in corso a Gaza.

Secondo Najiba Ben Hassine, professoressa di Scienze politiche all’Università di Tunisi, il vero obbiettivo di Francia e Arabia Saudita «è raggiungere la pace per l’entità occupante e la sicurezza e il benessere per il suo popolo, prima di garantire la giustizia ai palestinesi e salvarli dall’annientamento». Detto questo, prosegue la studiosa, chi ha riconosciuto la Palestina si è mai domandato su quale territorio potrà essere fondata, visto che «l’occupazione ha privato i palestinesi di una parte significativa del loro territorio attraverso annessioni e insediamenti»? E che tipo di governo potrebbe formarsi e quale rapporto avrebbe con Israele? Inoltre, Francia e Arabia Saudita sottolineano che lo Stato nascente dovrà essere smilitarizzato, in modo da non minacciare la sicurezza e la stabilità di Israele, ma chi penserà alla sicurezza dei palestinesi? Soprattutto, conclude Ben Hassine, come può essere praticabile la soluzione dei due Stati se «lo Stato occupante la rifiuta?»

Più positivo invece il giornalista turco Kemal Öztürk, che su al-Jazeera commenta come ogni gesto – dalle manifestazioni, al riconoscimento diplomatico – abbia un valore, perché contribuisce a costruire una coscienza globale senza precedenti a favore della Palestina. Il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese, pur non fermando l’occupazione né le violenze, rappresenta una «sconfitta diplomatica» per Israele e gli Stati Uniti, segno della crescente pressione popolare che condiziona i governi.

Non sorprende invece che al-Hurra, il quotidiano panarabo con sede negli Stati Uniti, abbia mantenuto un profilo basso sulla questione. I pochi commenti pubblicati, come quello firmato da Randa Jabai, si limitano a definire il riconoscimento un «momento storico», senza però esprimere un giudizio.