Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 19/12/2025 16:29:56
Solitamente trascurato anche dalla stampa araba, questa settimana lo Yemen è tornato al centro dell’attenzione di molti media dopo i recenti sviluppi che hanno reso più concreto il rischio di secessione e la creazione di uno Stato del Sud. Questa prospettiva preoccupa la stampa filo-saudita, mentre galvanizza i giornali emiratini.
«Lo Yemen ha intrapreso la stessa strada che ha portato il Sudan alla disintegrazione e alla divisione. […] Lo “Yemen felice” ha perso la sua felicità molto tempo fa e si è gradualmente trasformato in cantoni contigui, divisi tra forze locali in guerra, i cui effettivi equilibri di potere sono gestiti dalle capitali regionali e straniere più che da Sanaa o Aden», commenta Amine Kammourieh sul sito d’informazione libanese Asasmedia. Il Consiglio di Transizione del Sud (STC), sostenuto dagli Emirati, «è la manifestazione più significativa di questa trasformazione, essendosi trasformato da attore politico-militare nell’equazione del conflitto in autorità di fatto, che impone con la forza la propria narrazione e i propri simboli», denuncia il giornalista. Nel governatorato dell’Hadhramaut è in corso uno smantellamento di ciò che resta dello Stato yemenita, vengono rimosse le bandiere yemenite e innalzate quello dello “Stato dell’Arabia meridionale”. A questo si aggiungono le misure di espulsione di soldati e ufficiali dalle province settentrionali, «pratiche che alimentano un discorso di divisione nazionale e spingono il conflitto dal livello politico a un pericoloso livello identitario. Controllando i porti e le coste che si estendono da Mocha a ovest a Nishtun a est, il Consiglio di Transizione del Sud tiene le chiavi della geografia marittima più importante dello Yemen», prosegue l’articolo. L’STC ha giustificato la propria iniziativa definendola un’operazione puramente militare e sicuritaria, volta a correggere le criticità di una zona strategica, diventata un corridoio per il traffico di armi verso gli Houthi e al-Qaeda. Ma il presidente del Consiglio di Transizione Aidarus al-Zubaidi ha dichiarato apertamente l’intenzione secessionista, affermando di lavorare alla costruzione delle istituzioni del futuro Stato dell’Arabia del Sud. Kammourieh ricorda che i due governatorati dell’Hadhramaut e di al-Mahra costituiscono storicamente l’eccezione più significativa alla frammentazione e al collasso delle istituzioni. Questa stabilità, spiega il giornalista, «è il prodotto di una struttura sociale e una storia politica uniche che hanno reso questi territori meno inclini alla logica del dominio armato che ha invece dilaniato il resto dello Yemen». L’Hadhramaut non è soltanto una provincia petrolifera o una fascia costiera facilmente controllabile, ma «un’entità socio-economica completa, con una popolazione vasta, un litorale strategico, porti e risorse tali da renderne il controllo con la forza un’impresa estremamente costosa». Al-Mahra, invece, è uno snodo geopolitico sensibile, dove convergono i confini con l’Arabia Saudita e l’Oman: «La sua struttura sociale si fonda sui movimenti di transito, il commercio e le comunicazioni, perciò qualsiasi turbamento della sicurezza ha ripercussioni oltre i confini yemeniti». L’opzione secessione, conclude il giornalista, si scontra con ostacoli strutturali e politici, che rischiano di far precipitare il Paese in un conflitto non risolvibile militarmente. Il Sud non è un’entità politicamente o socialmente omogenea; oltre all’STC ci sono forze tradizionali ed élite tribali e regionali, ciascuna con i propri calcoli. Per questa ragione, Kammourieh ritiene improbabile che il Consiglio si arrischi a dichiarare la secessione, consapevole che questo passo sarebbe «una dichiarazione di guerra tra il Sud e il Nord, ma anche tra il Sud e il Sud».
Sul quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat, il giornalista yemenita Lufti Noaman condanna le velleità secessioniste, che «compromettono tutti gli sforzi positivi compiuti dal popolo e dai fratelli dello Yemen» e avverte che chi, «ispirato da una particolare ideologia, dottrina, illusioni o da una spaventosa ignoranza storica», non comprenderà le conseguenze della violazione della Costituzione e delle leggi, «sperimenterà il bastone delle punizioni in tutte le sue forme»..
Anche Al-‘Arab, in altre occasioni vicino alle ragioni di Abu Dhabi, si schiera a sostegno della posizione saudita, che nei giorni scorsi ha chiesto all’STC di ritirarsi dall’Hadhramaut. Mokhtar al-Dabbabi elenca e analizza tutti gli effetti negativi che potrebbe provocare un’eventuale secessione dello Stato del Sud. L’imposizione del fatto compiuto, osserva il giornalista tunisino, finirebbe per conferire legittimità morale e politica agli avversari dell’STC, in primo luogo all’alleanza tribale che sostiene l’autonomia dell’Hadhramaut, aprendo la strada a una spirale di violenza che potrebbe degenerare in guerra aperta. Ciò rafforzerebbe il partito islamista Islah, che già in passato aveva messo in guardia dai pericoli del separatismo meridionale. Sebbene il sostegno popolare del partito sia limitato, l’attacco dell’STC nell’Hadhramaut ne rafforza la posizione all’interno del governo internazionalmente riconosciuto. Paradossalmente, spiega Dabbabi, invece di isolare la Fratellanza, l’STC le «ha offerto una boccata di ossigeno». Inoltre, le ambizioni espansioniste del Consiglio di Transizione potrebbero favorire la rinascita di al-Qaeda e un rinnovato sostegno tribale al gruppo jihadista, rievocando dinamiche già osservate dopo la presa di Mukalla, capitale dell’Hadhramaut, nel 2015.
L’imposizione di un fatto compiuto non significa automaticamente la secessione del Sud, commenta la scrittrice e attivista yemenita Bushra al-Makhatari su al-‘Arabi al-Jadid. L’indipendenza resta infatti subordinata alla volontà degli attori regionali e internazionali. In sole due settimane, l’STC ha ribaltato l’equilibrio esistente nel sud dello Yemen dalla nascita del Consiglio presidenziale. Politicamente, ha dimostrato l’incapacità del governo legittimo di contenerlo o di esercitare pressioni efficaci. Militarmente ed economicamente, la presa dell’Hadhramaut – una regione strategica per risorse, posizione geografica e sbocchi marittimi – ha rafforzato il potere negoziale del Consiglio, sia sul piano interno sia in vista di futuri negoziati sul destino dello Yemen. Ma il passaggio da attore inserito in un quadro consensuale a potere unilaterale comporta rischi significativi.
I quotidiani emiratini, come al-‘Ayn al-Ikhbariyya, sono schierati, senza sé e senza ma, a favore delle velleità secessioniste dell’STC. «Ogni cosa nell’Arabia meridionale parla di sovranità», scrive Noura Almoteari, che si definisce la prima giornalista araba a coprire le notizie relative al Consiglio di Transizione del Sud dal 2017, anno della sua fondazione. La giornalista celebra il leader dell’STC Aidarous Al-Zubaidi riconoscendogli il merito di aver intrapreso un’importante missione: «Far uscire “l’essenza e la memoria collettiva meridionale”, che la sfortunata unità ha cercato di dissolvere e paralizzare». Questo processo, spiega la giornalista, prosegue a ritmo serrato con «scontri sanguinosi con i terroristi Houthi, così come con altri gruppi terroristici corrotti come il partito Islah, al-Qaeda e altri. La visione è rimasta tale, anzi, si è consolidata ed è più vicina che mai alla realizzazione». Il percorso dell’Arabia meridionale verso l’indipendenza «corregge una traiettoria storica e riposiziona [il Sud] in un contesto globale di esperienze di successo», prosegue la giornalista. L’istituzione di uno Stato meridionale indipendente costituisce un cambiamento geostrategico che contribuisce a consolidare l’equilibrio di potere e la stabilità nella regione. «La geografia marittima del sud, che si estende da Aden a Mahra, rappresenta la pietra angolare della sicurezza marittima internazionale e del controllo sullo stretto di Bab al-Mandab, arteria del commercio globale». La sicurezza regionale, conclude Almoteari, «non si garantisce con i discorsi di una fragile unità, ma attraverso la costruzione di Stati vitali, sovrani e responsabili. Il futuro Stato dello Yemen del Sud offre questo modello: un partner solido nella lotta al terrorismo, un alleato stabile nel garantire la sicurezza delle rotte marittime e un attore politico in grado di sventare i progetti dei Fratelli musulmani, degli Houthi e di al-Qaeda».
Siria: una nuova era o solo un'illusione di stabilità? [a cura di Farah Ahmed]
Anche questa settimana, la Siria di Ahmed al-Sharaa ha dominato le riflessioni della stampa araba, che continua ad affrontare la questione con una cautela. Pochi articoli, principalmente vicini agli Emirati e all’Arabia Saudita trasmettono un senso di speranza e ottimismo, soprattutto dopo la recente approvazione del Senato americano alla rimozione delle sanzioni previste dal Ceasar Act. La maggior parte della stampa, tuttavia, si concentra sull’instabilità e le sfide interne del Paese.
Al-Arabi al-Jadid si inserisce proprio in questa seconda categoria. Il politologo siriano Bashar Narsh riflette sull’attacco di un jihadista di Isis nei pressi della città di Homs contro una pattuglia siriano-americana. Secondo Narsh, non si tratta di «un episodio isolato, né di un errore tattico in una vasta area desertica, ma di un evento ricco di messaggi e indicatori strategici che vanno oltre il luogo e il tempo. Questo riposiziona l’Isis come un’organizzazione efficiente, capace di sfruttare i momenti di transizione e di mettere alla prova la fragilità della nuova sicurezza in Siria».
Pur precisando che l’attacco non segna un vero ritorno di Daesh, Narsh sottolinea che si tratta di «un promemoria del fatto che l’organizzazione non è mai uscita dall’equazione siriana e continua a rappresentare una minaccia persistente per la nuova autorità». Alla luce di ciò, l’articolo suggerisce che la nuova presidenza siriana debba porre la sicurezza al centro delle proprie priorità, «non come una semplice procedura tecnica, ma come una condizione imprescindibile per qualsiasi progetto stabile e sostenibile nel tempo». Dunque, è necessario rivedere i sistemi di sicurezza e militari creati in fretta, così come le aree più vulnerabili del Paese, «altrimenti, Daesh sarà in grado di sfruttare ogni lacuna nella sicurezza».
Proseguono i toni preoccupati nella stessa redazione. Lo scrittore siriano Rateb Shabo si concentra sul confessionalismo una volta «non dichiarato» sotto l’autorità di al-Assad, divenuto «esplicito» nella nuova Siria: «con la presidenza di Ahmed al-Sharaa, che si considera un’autorità islamica sunnita, il discorso confessionale ha cessato di essere una minaccia all’autorità, anzi, in verità è diventato un punto di forza». L’articolo spiega che è nell’interesse del governo rafforzare un senso di autocoscienza settaria tra la comunità sunnita, sfruttando quel «sentimento di discriminazione negativa che i musulmani sunniti hanno subito per decenni. È nel vantaggio di al-Sharaa che il suo governo venga percepito dalla società siriana come il governo dei sunniti, in modo che sia visto come il rappresentante della maggioranza, legittimando così il suo potere».
Shabo conclude tuttavia con un monito, avvertendo delle conseguenze di questa logica di governo: «sostenere i sentimenti settari nella maggioranza sunnita per legittimare il governo non potrà che alimentare il nervo jihadista nascosto, che è impossibile da regolare o controllare. Questo farà sì che l’attuale governo –in cerca di riconoscimento internazionale – sarà ripudiato dall’estero, particolarmente sensibile al jihadismo».
Sul al-Quds al-Arabi, lo scrittore siriano Wael Mirza offre invece una riflessione critica sui discorsi di opposizione al governo. L’autore spiega che questi ultimi hanno iniziato ad assumere una forma più «subdola»: «sotto forma di testi che si travestono da analisi sociali, dichiarando un’oggettività morale e presentandosi come una “revisione razionale” o un’ “un’autocritica severa”, mentre, nella sostanza, svolgono una sola funzione politica: quella di colpire in profondità sia lo Stato siriano che la società siriana, ma con uno stile morbido, velato e ambiguo». Tra queste critiche, Mirza condanna in particolare quelle che equiparano il governo di al-Assad a quello di al-Sharaa, evidenziando come esse spostino il problema dalla struttura del governo o dell’autorità alla società siriana stessa. L’articolo osserva che «il punto più basso di questi approcci consiste nell’equiparare la lode forzata sotto il giogo della repressione all’espressione caotica in un nuovo spazio pubblico. Infatti, gridare a favore di al-Assad sotto il controllo della sicurezza e delle armi non è un atto morale equivalente al sostegno o all’opposizione in una fase di transizione aperta». In conclusione, Mirza ribadisce un concetto fondamentale: «la costruzione di uno stato non nasce dalla negazione delle differenze… Nasce invece da una rigida distinzione tra chi ha commesso il crimine e chi ne ha pagato le conseguenze, tra un sistema di governo che ha distrutto l’uomo e il tentativo—per quanto difficile—di ricostruirlo».
Più speranzosi sono invece gli articoli vicini al dei giornali dell’orbita saudita e di quella emiratina. Sulla testata di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat, il giornalista egiziano Abdulmoneam Saeed riconosce le sfide con cui la Siria deve fare i conti a causa del contesto circostante: le politiche di Israele in Cisgiordania e Gaza, le tensioni con il Libano e la presenza di Hezbollah, e la strategia di Washington in Medio Oriente. In questo quadro complesso, l’autoreassume tuttavia toni positivi: «il programma di lavoro che attende la nuova Siria si allargherà notevolmente, con la priorità di mantenere la stabilità interna, in attesa che il tempo sia propizio per soddisfare il popolo siriano che ha celebrato due volte la nascita della nuova Siria, così che le istituzioni statali tornino a funzionare, l’economia riprenda vigore, la pace civile diventi una realtà e le scintille dei conflitti vicini non riescano a raggiungere il cuore della Siria». L’autore conclude sottolineando che, nel mondo arabo, «la pace e lo sviluppo dei siriani sono cruciali per una regione che ha sofferto a causa della divisione, e che ha bisogno di un nuovo pensiero arabo alla ricerca di stabilità».
Infine, accenti celebrativi giungono dal quotidiano filo-emiratino al-Arab, dove il giornalista libico Ahmed al-Salehin al-Houni si congratula con la Siria per la rimozione ufficiale delle sanzioni americane previste dal Ceasar Act. L’articolo, con uno sguardo al futuro, sottolinea che «la rimozione delle sanzioni non è la fine del cammino, ma l’inizio. È una prova della capacità di passare dalla liberazione politica al rinascimento nazionale. Oggi è necessaria una visione strategica che non si limiti a una reazione, ma che proceda all’azione». Al-Houni ribadisce che il popolo siriano merita più di un sollievo esterno, ma «merita una vita dignitosa, un’istruzione di qualità, un sistema sanitario accessibile e una giustizia imparziale». Infine, l’autore conclude evidenziando l’importanza di questo momento storico, che dovrebbe essere scritto con «saggezza, non con emozioni. Fatene un nuovo inizio, non solo la fine di una punizione. Date alla Siria ciò che merita».