Un’antologia di testi fa luce sul vasto e variegato mondo della mistica islamica

Ultimo aggiornamento: 14/03/2023 15:09:51

Recensione di Giuseppe Scattolin e Riccardo Paredi (a cura di), Manifestazioni spirituali nell’Islam. Antologia di alcuni testi fondamentali del sufismo classico (secoli I/VII - VII-XIII), tradotti e commentati, Officina di Studi Medievali, Palermo 2022

Primo di tre ponderosi tomi dedicati al sufismo, curato da Giuseppe Scattolin – uno dei massimi esperti di mistica islamica – questo volume inaugura qualcosa di nuovo nel paesaggio pur folto di opere in italiano sul tema. Dopo troppe monografie su un singolo mistico o su una singola confraternita, per la maggior parte scritte da appassionati amateurs d’ogni tipo di esoterismo, finalmente uno studio serio e sistematico sulla spiritualità musulmana.

 

Fiumi di inchiostro sono stati versati sia all’interno dell’Islam che da parte di orientalisti occidentali in una polemica apparentemente infinita. La materia del contendere verte sulla genuinità e sulla stessa legittimità del sufismo – o mistica musulmana – che secondo alcuni sarebbe un fenomeno spurio e dipendente da influssi esterni, mentre altri lo considerano non soltanto pienamente inserito nella dinamica del puro monoteismo e nella stessa pratica del Profeta, ma addirittura la sua più compiuta espressione. Del resto, anche in altre tradizioni religiose, molti asceti e santi hanno finito per risultare personaggi scomodi agli occhi dei custodi dell’ortodossia e dell’ortoprassi: non solo per la loro indipendenza e talvolta almeno implicita contestazione delle rigidità o delle incoerenze delle istituzioni religiose e dei loro rappresentati ufficiali, ma anche e probabilmente soprattutto in quanto la loro appassionata ricerca di un contatto col divino e di una più diretta esperienza di Esso ha fatto temere un attentato alla Sua «trascendenza», portata a un livello sperimentabile da esseri umani o, forse ancor peggio, elevando il fedele a un grado eccessivo, e potenzialmente destabilizzante, di vicinanza e persino di intimità e unità con Dio, l’Assoluto.

 

Questo affascinante viaggio attraverso i testi e le testimonianze della spiritualità islamica può e deve essere compiuto superando l’apparente contraddittorietà delle due opposte tesi, ricomposta in una necessaria benché paradossale complementarietà. Infatti, se da una parte la fede in un Dio Uno (non molteplice al suo interno) e Unico (non paragonabile ad alcun altro essere) implica certamente la Sua «totale» alterità rispetto alle sue creature, dall’altra il fatto che Egli sia in ultima analisi l’unica Realtà che abbia in sé una qualche consistenza e da cui ogni altra dipende, viene gene rata, mantenuta in esistenza e infine richiamata alla sua stessa origine in una prospettiva escatologica implica una Sua assoluta vicinanza alle sue creature. Questo lo colloca in una posizione di assoluta inattingibilità, che suscita un insopprimibile desiderio di avvicinarsi a Lui, distaccandosi dall’apparenza delle realtà penultime e cercando di anticipare in qualche modo l’unione col Principio da cui proveniamo e il Fine cui siamo destinati. Per quanto esista un’ampia letteratura, interna all’Islam, che celebra il Profeta anche e forse soprattutto come abile politico e valoroso combattente, la sua personale esperienza del divino è evidente e sta alla base della missione di cui fu incaricato. Lunghi periodi di ritiro e di preghiera lo contraddistinguono fin da prima della «chiamata» e numerose espressioni del Corano lo esortano a mantenere tali pratiche anche durante la predicazione, che si protrasse oltre vent’anni, talvolta in situazioni molto critiche nelle quali la sua stessa vita e quella dei suoi seguaci correvano seri rischi. Lungi dal rappresentare qualcosa di riservato a lui soltanto – o a una ristretta cerchia di uomini consacrati al culto –, riflessione, mediazione e preghiera sono raccomandate a tutti i credenti e in definitiva a ogni essere umano, a partire dalla contemplazione del Creato e dei «segni» del divino di cui esso è colmo. Che il sufismo (probabilmente dal termine arabo sūf che significa «lana» e quindi anche «saio») comporti forme di ascesi è evidente, ma potrebbe rappresentare pure una sorta di gnosi islamica, tant’è vero che alcuni hanno ipotizzato che la sua denominazione possa dipendere invece dal greco sophìa: ciò che non si può negare è comunque che tra i requisiti e gli esiti delle pratiche devozionali figuri primariamente una particolare «sapienza», più del cuore che della mera mente o comunque di una saggezza soprarazionale. Non c’è dunque da meravigliarsi se alcuni dei primi compagni del Profeta inclini all’ascetismo siano divenuti esempi proverbiali di devozione e sacrificio. Il più noto, Abū Dharr al-Ghifārī (m. 652 d.C.), dedito alla preghiera, ai digiuni e all’elemosina, avrebbe ricevuto dallo stesso Profeta alcuni consigli quali: «Stai vicino ai poveri», «Bada a chi è inferiore a te e non darti cura di chi è superiore», «Di’ sempre la verità, per quanto amara possa essere», ma anche «La militanza migliore è dire quel che si merita a un sovrano iniquo». Questa umiltà, accompagnata dal senso della giustizia, prefigura altri esponenti del sufismo che reagiranno ai rischi di prevaricazione e corruzione che si sarebbero prodotti durante la grande e rapida espansione dell’Islam dopo la morte di Maometto.

 

A parte questo e simili anticipatori della corrente mistica musulmana, il primo nome riconosciuto come vero e proprio capostipite del sufismo fu Hasan al-Basrī (m. 728 d.C.), che dunque appartiene al primo secolo della storia dell’Islam, iniziata con la famosa Egira o migrazione da Mecca a Medina del Profeta e dei suoi nel 622. Pur essendo stato anche un combattente, al-Basrī è ricordato principalmente per la sua saggezza. Non prese partito nella prima grande frattura sorta intorno alla questione della successione di Muhammad ed ebbe a cuore l’unità della giovane nazione islamica o Umma. Fu sobrio anche nella prassi quotidiana, ricordando instancabilmente il valore incommensurabile della vita futura in forza del quale esortava al distacco dai beni terreni e al timore di Dio, obiettivi raggiungibili gradualmente passando attraverso vari stati spirituali, grazie anche a una costante riflessione.

 

Da questi primi inizi, il sufismo si sviluppò sempre più svelando passo passo tutte le sue dimensioni implicite. Già nella generazione seguente troviamo Rābi‘a al-‘Adawiyya (m.   801 d.C.), donna asceta, incolta ma talmente pia da ottenere l’affrancamento, dopo il quale rimase nubile e si dedicò alla vita contemplativa. Ella è considerata come colei che aprì nell’Islam la porta dell’amore totale e gratuito per il Signore, senza dare importanza al premio promesso ai fedeli e al castigo minacciato per gli increduli. Col passare del tempo, la sinfonia del sufismo si allargò a nuovi temi e nuovi motivi, ben descritti in questa prima parte dell’Antologia sufi.

 

In Iraq, con al-Hallāj (condannato a morte nel 922 d.C.) si giunge a una drammatica svolta. Il «cardatore» dei cuori (questo il significato del suo nome) si spinse forse troppo avanti nel suo itinerario verso l’unione con Dio, tanto da giungere ad affermare in una sua celebre sentenza «Io sono il Vero (cioè Dio)». Non pensiamo tuttavia che sia stata questa frase, simile a quelle di altri mistici estatici, a determinarne la sua tragica fine. Predicatore itinerante, egli chiamava tutti all’esperienza del sufismo, facendosi propagato re dell’Arcano anche tra gli umili, e soprattutto giunse a relativizzare (pur rispettandoli e insegnando a fare altrettanto) i precetti del culto, dandone un’interpretazione più personale e intima, ma mettendo in tal modo in allarme i custodi dell’ortoprassi, che non esitarono a processarlo e a condannarlo al patibolo.

 

A questo punto occorreva una conciliazione fra i dettami della legge esteriore e l’intima esperienza di cui i sufi parlavano con espressioni paradossali: il merito di questo passaggio cruciale va al grande teologo al-Ghazālī.

 

Dopo una profonda crisi interiore, egli infatti si adoperò affinché la spiritualità ottenesse il posto che meritava nel pensiero religioso musulmano. A suo parere la sola teologia non può infatti portare a credere, mentre la filosofia non è sempre rispettosa delle verità rivelate, e l’obbedienza alla legge dovrebbe essere esito e non causa della fede. Resta dunque la via dell’interiorità, attraverso una conoscenza di Dio di carattere intuitivo e affettivo piuttosto che razionale. L’ascesi e la contemplazione furono così accolte e incoraggiate, rifiutando però nello stesso tempo gli eccessi di quei mistici che avevano assunto posizioni inaccettabili per la dogmatica ufficiale dell’Islam. Una volta sdoganata, la spiritualità musulmana poté assumere le più varie colorazioni, anche perché la sua diffusione corrispose a un periodo di decadenza, il lungo ristagno che va grosso modo dal XIII al XIX, durante il quale sia le autorità religiose ufficiali sia i poteri politici si frantumarono e si indebolirono. Un po’ come se al Rinascimento fosse subentrato una specie di Medioevo, al contrario di quanto avvenuto in Occidente.

 

Il punto finale del percorso intrapreso da queste figure è il raggiungimento di un contatto (ittisāl) o vicinanza (qurb) col divino, tratto più o meno ammesso da tutti. Può darsi anche il caso di qualcuno che ammette un’unione (ittihād) intima con Dio, ma limitatamene a una o a talune delle Sue qualità. Molto meno pacifica è invece la pretesa di una immanenza (hulūl) del trascendente nell’asceta. Quest’ultimo, ossia il sufi stesso, giunge sì a un totale svuotamento di sé, a un annichilimento (fanā’) che lascia spazio alla manifestazione dell’Altro, il quale prende possesso di lui e ne garantisce la sussistenza o permanenza (baqā’). Resta tuttavia la problematicità di un passaggio dell’Assoluto nel «limitato» che, pur non essendo un esito garantito né tantomeno automatico di determinate pratiche, bensì una pura grazia, si avvicina troppo a concetti quali inabitazione se non addirittura incarnazione da sempre aborriti dall’intransigente monoteismo islamico.

 

Il lettore troverà nella presente antologia le parole usate dai sufi stessi per esprimere le loro esperienze interiori, le loro ascensioni spirituali, le loro scoperte inesprimibili. In una parola questo testo cerca di metterci in contatto diretto col mondo dei sufi, fermo restando che la vera esperienza mistica non può mai essere espressa in modo totale nel nostro linguaggio umano, condizionato da tanti limiti spazio-temporali. Al di là di essi rimane il silenzio sufi (samt), velo di un Mistero divino che può essere conosciuto solo nell’incontro trascendente del faccia a faccia, al di là di ogni espressione verbale. Dice a questo proposito un detto sufi: il teologo sparisce se non parla, il sufi sparisce se parla.

 

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