Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 05/07/2024 16:04:23

È unanime il giudizio della stampa araba (e non solo) sulla performance di Joe Biden e del suo sfidante Donald Trump dopo il primo dibattito televisivo per la corsa alle elezioni presidenziali statunitensi: un disastro completo per il primo, uno spettacolo indegno per il secondo.

 

Per la testata emiratina al-‘Ayn al-Ikhbariyya l’esito elettorale «è già stato deciso» in diretta tv: «in realtà non importa se Trump sia un bugiardo oppure no, se sia un truffatore oppure no. Ha già vinto, e le sue parole sono penetrate nella testa degli elettori indecisi», impressionati dalla sua retorica infiammata. Sul quotidiano panarabo filo-emiratino al-‘Arab il giornalista iracheno Karam Nama commenta il faccia a faccia con una metafora di forte impatto: «Trump è ancora una sigaretta nociva. Tuttavia fumarla, diventarne dipendenti e pubblicizzarla in televisione porta in fin dei conti dei benefici. Continuerà a essere un oggetto di dipendenza per le masse e per i mezzi di informazione, ma questo non significa assolutamente che Joe Biden sia meno dannoso di lui». Sempre su al-‘Arab, il giornalista libanese Khayrallah Khayrallah analizza la figuraccia mondiale di Biden in termini geopolitici. Più che essere l’indegna conclusione della sua carriera personale, essa rappresenta la «caduta dell’America»: «è spaventosa una situazione come quella americana, in cui le elezioni presidenziali si sono trasformate in una competizione tra un vecchio come Joe Biden è uno spericolato come Donald Trump. Quest’ultimo sembra più entusiasta della guerra contro Hamas di Benjamin Netanyahu. Ciò non significa che Hamas meriti qualche tipo di futuro politico. Significa piuttosto che da un presidente americano ci si aspetterebbe che possieda quel minimo di umanità per fare in modo di fermare anzitutto la tragedia che affligge Gaza». Secondo Khayrallah, lo “show” ha inoltre certificato la fine dell’influenza americana a livello globale, e soprattutto in Medio Oriente: «la competizione ha confermato la scomparsa del ruolo americano nel mondo. La prova più lampante consiste nel fatto che Biden si rifiuta di riconoscere il piano espansionista iraniano che affligge il Medio Oriente e il Golfo e il significato delle guerre lanciate dalla Repubblica Islamica a margine della crisi di Gaza». Ma il suo avversario è, a ben vedere, ancora peggio: «certamente Trump ha numerosi vantaggi, anzitutto la sua politica nei confronti dell’Iran, ma ha anche innumerevoli negatività. Rappresenta un pericolo per la democrazia, sia in America che all’estero» e, soprattutto, «non si rende conto che il mondo sta cambiando a gran velocità e che non è possibile separare il suo rapporto con Putin da quello che il presidente russo ha con Cina, Iran e Corea del Nord. Donald continua a vivere in un mondo tutto suo».

 

«Ma davvero gli Stati Uniti hanno bisogno di un presidente dotato di raziocinio?» si chiede tra il serio e il faceto lo scrittore iracheno Faruq Yusuf, che poi precisa con sarcasmo: «gli Usa sono un Paese privo di senno e di qualsiasi etica. Ha quindi senso che il suo presidente sia razionale o che sia dotato di un alto livello di morale? Si dirà che la senilità di Biden e gli scandali morali di Trump sono andati fuori controllo, ma non è vero. Le cose non erano sotto controllo nemmeno quando c’erano John Kennedy, George Bush padre e figlio, Bill Clinton, Lyndon Johnson e Richard Nixon. Ognuno di loro era capo dello Stato e tutti si sono macchiati di genocidio e di crimini contro l’umanità, infrangendo anche la legge a livello personale e morale». La conclusione è ancora più caustica: «l’America è l’America: impone il suo modello al resto del mondo e non permette che nessun altro le venga imposto. La colpa non è dell’America, ma di chi ha creduto che si potesse esportare la democrazia. Il Paese che ha scaricato centinaia di tonnellate di uranio impoverito sul popolo iracheno […] non è certamente uno Stato democratico. E se il suo presidente non fosse stato pazzo, non l’avrebbe di certo fatto».

 

Su Asas Media, il giornalista Nadim Koteich commenta con viva preoccupazione il triste spettacolo televisivo, sottolineando le conseguenze negative che esso potrebbe avere per il Medio Oriente: «oggi non c’è questione più urgente per la regione del lasso di tempo che va da adesso fino all’insediamento del nuovo inquilino della Casa Bianca, alla luce della debolezza fisica e mentale di Biden […]. La nostra regione ha un bisogno disperato di una leadership americana forte, attiva, capace di patrocinare le soluzioni e le iniziative che servono». I principali alleati regionali di Washington, Israele e Arabia Saudita, non sono dei sostenitori di Biden, «consci del fatto che quest’ultimo non ispira alcuna fiducia nella capacità di mantenere le sue promesse e garanzie». Sul quotidiano panarabo di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat, il giornalista palestinese Nabil Amr mette a confronto la politica estera delle due presidenze. Ne emerge un quadro impietoso: «Trump fece le barricate per mettere al primo posto l’America e sminuì la relazione securitaria e militare con gli alleati della Nato comportandosi come un imprenditore che litigava su prezzi e costi. Per lui in Medio Oriente è stato firmato un accordo, definito “del secolo”: non era un tentativo di risolvere la grande questione internazionale, ma piuttosto gettava benzina sul fuoco sostenendo il firmatario dell’accordo, Netanyahu, al quale offriva generosamente dei doni a spese dei palestinesi e dei siriani: il Golan, Gerusalemme e più di un terzo dei territori della Cisgiordania. E se avesse vinto il secondo mandato, chissà che cos’altro avrebbe fatto ancora». D’accordo, ma Biden? «La grande America padrona del mondo è apparsa fiacca, poco efficace su tutte le questioni scottanti riguardanti le regioni più importanti del mondo: Europa e Medio Oriente». In quest’ultima regione, «la superpotenza si è trasformata in un rimorchio trainato dai cavalli dell’arrembante destra israeliana». Anche le vignette pubblicate dal giornale sono significative: nella prima il mondo, impaurito dall’arrivo di Trump, tenta disperatamente di svegliare Biden, che però dorme sonni profondi nel suo letto; nella seconda Trump attraversa indenne le fauci di un rattristito Partito Democratico tenendo aperta la sua bocca grazie al bastone dell’immunità concessagli dalla Corte Suprema.

Impietoso anche il giudizio di al-Quds al-‘Arabi: «Trump ha cavato un occhio dalla Statua della Libertà, macchiandone la purezza, quando ha fatto emergere il suo razzismo per aver accusato Biden di assomigliare a un palestinese». Al di là delle patetiche discussioni e dell’impresentabilità di entrambi i candidati, il giornale nota con amarezza l’unico argomento su cui i due si trovano d’accordo: «su tutti i dossier e le questioni si sono scambiati accuse a vicenda, mostrando di avere posizioni molto distanti, tranne che su una questione, quella palestinese e la guerra israeliana nella Striscia di Gaza. È risultato evidente che entrambi sostengono l’entità israeliana, seppur con toni differenti: fanno sì a gara a chi la sostiene di più ed entrambi sono nemici della Resistenza palestinese e non si curano affatto del genocidio […]. Le posizioni di Biden e Trump sulla Questione confermano una cosa: che la politica della Casa Bianca verso il conflitto arabo-palestinese non cambia» se si escludono «meri tatticismi» compiuti a seconda degli interessi del presidente di turno. L’approccio americano è il riflesso di una precisa ideologia, anzi di una Weltanschauung: «il senso di Israele per l’America, la convinzione di essere eletti dal Divino, il senso di superiorità razziale e culturale, il ruolo speciale nel mondo, il destino di espandersi senza fine, il diritto di sacrificare l’altro, queste sono le cinque costanti storiche sempre presenti in America, su cui Washington ha costruito la sua politica in Medio Oriente a beneficio della sicurezza nazionale israeliana e del governo di occupazione».

 

Chiudiamo infine con il commento di al-Akhbar, quotidiano libanese vicino a Hezbollah, forse il più spietato di tutti: «non c’è dubbio che gli Stati Uniti amino il teatro. Gli spettacoli di Broadway a New York rimangono i migliori al mondo […] Ma niente batte il teatro della politica nel Paese dello Zio Sam. L’intera scena è uno spettacolo, in parte tragico e in parte commedia. La scena diventerà ancora più tragicomica, ma non diventerà assolutamente più democratica. Oggi, l’unica scelta democratica messa a disposizione dello spettatore è il gusto dei popcorn: al burro, al formaggio o col sale?».

 

L’anno delle elezioni «che cambieranno il mondo» [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Gli Stati Uniti non sono l’unico Paese a prepararsi al voto. Entro la fine del 2024 si recheranno alle urne più di 70 nazioni. Oltre agli Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna in Occidente, ma anche molti Paesi a maggioranza musulmana, tra cui l’Algeria, la Tunisia, l’Iran, la Siria, il Senegal, l’Indonesia, il Pakistan e il Bangladesh sceglieranno il loro presidente o il loro primo ministro. Questa settimana i quotidiani arabi hanno commentato ampiamente «l’anno delle elezioni che cambieranno il mondo». Buona parte degli editoriali sono stati dedicati alle elezioni in Francia e negli Stati Uniti, mentre per il momento molto poco è stato scritto sulle elezioni iraniane, in attesa del secondo turno. Gli appuntamenti elettorali del mondo hanno “distratto” anche le testate che solitamente si focalizzano prevalentemente sul conflitto israelo-palestinese. Su al-‘Arabi al-Jadid l’ex ministro della Cultura tunisino Mehdi Mabrouk si domanda in maniera retorica se «la Francia sia ancora un Paese radicato nella democrazia». A parole sì, ma nei fatti non lo è mai stata, commenta l’editorialista. Sulla carta, la Francia delle istituzioni difende la democrazia e i diritti dell’uomo, ma nella pratica propugna una visione imperialista e islamofoba dei rapporti con il mondo islamico. «Ha occupato l’Algeria per più di un secolo […]; dopo le ondate di indipendenza nazionale ha sostenuto i regimi nominati a seguito della sua partenza. Questo è accaduto soprattutto in Africa, dove si è schierata con le peggiori dittature, che hanno governato con il pugno di ferro i Paesi dopo averli consegnati a giunte militari o leader civili che incarnavano umilianti forme di dipendenza». La Francia ha fallito nella maggior parte delle questioni arabe, scrive Mabrouk, e negli ultimi mesi ha continuato su questa china anche nel conflitto israelo-palestinese: ha dato prova «del suo disgusto per la democrazia e la libertà, confiscando il diritto dei francesi di esprimere il loro sostegno alla causa palestinese e promuovendo la narrativa israeliana». Sotto accusa, infine, anche la laïcité, «che si è estesa spaventosamente a spese della democrazia e delle libertà individuali, a differenza di altre esperienze di laicità che promuovono le libertà individuali e incoraggiano queste sub-identità, come nel caso dell’esperienza inglese e americana». La democrazia, conclude l’editorialista, «potrebbe svanire, senza che si trovi qualcuno capace di ravvivarne lo spirito».

 

Meno pessimista è il giornalista marocchino Hussein Majdoubi, che su al-Quds al-‘Arabi minimizza la portata dell’ascesa «dell’estrema destra nazionalista» in diversi Paesi europei ritenendo «esagerate e surreali» le analisi di chi grida al pericolo nazista: «Sui risultati [delle elezioni francesi] sono stati scritti molti articoli dai toni drammatici, come se la Francia fosse passata da una fase di stabilità e armonia a una fase di guerra civile, soprattutto alla luce dell’insistenza di alcuni politici e analisti sulla necessità di “costruire una diga” per impedire all’estrema destra nazionalista di salire al potere».  

 

L’ascesa della destra in Francia preoccupa invece lo scrittore e giornalista libico Juma Bukleb, che paventa conseguenze negative per i musulmani francesi. Nella fattispecie, Bukleb teme che la destra possa «lanciare una guerra culturale alla cultura islamica», «abolendo il diritto all’ottenimento della cittadinanza francese per i nati in Francia da genitori non francesi (sic!)», privilegiando i francesi nell’assegnazione delle case e negli impieghi pubblici, e imponendo alle donne musulmane il divieto di indossare il velo. Un’evoluzione di questo tipo, commenta Bukleb, avrebbe ripercussioni negative sulle relazioni tra la Francia e i Paesi del Magreb e sub-sahariani, e farebbe precipitare l’Esagono «in un labirinto di tensioni etniche interne che potrebbero potenzialmente sfociare in atti di violenza».

 

Significativa la vignetta pubblicata dal quotidiano panarabo al-Sharq al-Awsat, che ritrae la scalata «dell’estrema destra», giunta quasi in cima alla Tour Eiffel, mentre Macron arranca e guarda sbigottito la performance dell’avversario politico.  

 

Elezioni in vista anche sull’altra sponda del Mediterraneo. Il prossimo 6 ottobre la Tunisia dovrebbe andare alle urne, ma il condizionale è d’obbligo. Come spiega nel suo editoriale il giornalista tunisino e anchorman di Aljazeera Mohammed Krichen, chi ha manifestato la volontà di candidarsi «è stato prontamente punito con le sbarre». In Tunisia è in corso «una caccia alle streghe» contro i candidati presidenziali: c’è chi è stato arrestato dopo aver annunciato la propria candidatura, come la leader del Partito desturiano libero Abir Moussi, e chi invece si è candidato direttamente dal carcere, come Issam Chebbi, leader del Partito repubblicano, in prigione con l’accusa di aver «cospirato contro la sicurezza dello Stato». Per il giornalista e scrittore Safi Said è scattato il mandato d’arresto non appena ha presentato la candidatura, una sorte toccata pochi giorni fa anche a Lotfi Mraihi, capo del Partito Unione popolare. C’è però un’eccezione, scrive l’editorialista. L’ex generale Hisham Meddeb ha criticato in più di un’occasione il presidente tunisino Kais Saied, l’ha invitato pubblicamente a lasciare il potere e si è candidato, ma per il momento non ha subito conseguenze. Che Saied tema di inimicarsi l’esercito?

 

Alla corsa presidenziale si è candidato anche Abdul Latif al-Makki, ex membro di Ennahda che alcuni mesi fa ha fondato il partito Azione e Realizzazione. Al-Makki non ha ovviamente alcuna possibilità di vincere, scrive su al-‘Arab Mokhtar al-Dubaybi, ma il semplice fatto che si candidi è un segnale di come gli islamisti intendono riconfigurare il loro rapporto con il regime. «L’obiettivo è rompere con l’idea dello scontro con l’autorità e partecipare allo sviluppo da una posizione secondaria sotto l’egida dello Stato». Gli islamisti tunisini intenderebbero dunque riconciliarsi con il potere, anziché proseguire sulla strada dello scontro diretto. Questa tendenza riflette «l’inizio del cambiamento di una mentalità che vede nello Stato/autorità un avversario da sfidare con la forza e senza esitazione a prescindere dai risultati, una sfida che però ha sempre portato a una dolorosa sconfitta per gli islamisti, come è accaduto nel 1986/1987 e poi nel 1990/1991».

 

Nel frattempo, l’ex presidente tunisino Moncef Marzouki ha pubblicato un video sui suoi social chiedendo che le prossime elezioni presidenziali soddisfino quattro requisiti, «necessari a riportare il Paese sulla via della democrazia». Nello specifico, Marzouki chiede che il processo elettorale sia supervisionato da una commissione elettorale indipendente e neutrale; «venga sollevato il giogo dai media» in modo che possano essere liberi e costituire parte della soluzione; vengano liberati tutti i prigionieri politici, evitando di perseguire i candidati con «accuse inventate», e infine la formazione di una Corte costituzionale alla stregua di quella creata in Senegal.