Il dialogo interreligioso, il rapporto con la Russia, la guerra in Ucraina. Il viaggio del Papa nel Paese centroasiatico avviene in un momento cruciale. Ne abbiamo parlato con don Edoardo Canetta

Ultimo aggiornamento: 14/09/2022 16:12:29

Dal 13 al 15 settembre Papa Francesco sarà a Nur Sultan per partecipare al VII Congresso dei leader delle religioni mondiali e tradizionali. Per capire il senso di questa visita abbiamo interpellato don Edoardo Canetta, che nel Paese ex-sovietico ha trascorso quasi vent’anni, in una missione pastorale e culturale allo stesso tempo.

 

Intervista a cura di Caterina Tonini

 

Lei ha vissuto molti anni in Kazakistan. Qual è stata la sua esperienza in questo Paese?

 

Sono stato in Kazakistan per 18 anni, a partire dal 1994, per una missione un po’ estrema. Nel primo anno ho preso l’abilitazione e già nel 1995 ho tenuto dei corsi facoltativi a contratto all’università statale di Karaganda. Quindi sono entrato di diritto nel quadro degli insegnanti del Paese, cioè non ho lavorato come lettore esterno, ma come insegnante di ruolo e dopo qualche anno mi sono spostato nella capitale, che allora si chiamava ancora Astana prima di diventare Nur Sultan. Ho iniziato a insegnare lingue all’Università euroasiatica e qualche anno dopo mi hanno chiamato anche a insegnare all’Istituto diplomatico, dove si preparano i futuri diplomatici. Lì ho avuto la possibilità di incontrare direttamente personalità poi diventate molto famose, che venivano a fare delle lezioni agli aspiranti diplomatici, del Kazakistan e anche dell’Asia centrale. Ho conosciuto di persona Lavrov, attuale Ministro degli Esteri della Federazione Russa, ho incontrato Gorbačëv due volte, ed ero presente quando è nata l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), un’alleanza militare difensiva tra sei Paesi dell’ex Unione Sovietica. In quell’occasione ho visto il modo in cui Putin ha trattato i presidenti degli altri Stati membri dell’organizzazione: a pesci in faccia. Già allora mi diede l’impressione di un uomo certamente molto intelligente, ma pieno di sé.

 

Nel 2013, quando sono tornato in Italia, il Presidente della Repubblica Napolitano mi ha conferito l’Ordine della Stella d’Italia, all’onore e alla cultura. Non sono Cavaliere, ma Ufficiale della Repubblica, quindi Consigliere del Presidente. La motivazione dell’assegnazione recita: «per aver preparato gli insegnanti e i diplomatici amici dell’Italia», il che è vero: in questo periodo, conoscere questi ragazzi che ormai sono diplomatici e sono sparsi in tutta l’ex Unione Sovietica, significa avere una serie di informazioni rilevanti, oltre ad avere molti contatti nel mondo culturale e politico kazaco. Questa è anche la ragione per cui la Nunziatura mi ha richiamato a servizio attivo. Inoltre, per i primi cinque anni sono stato Vicario generale di tutta l’Asia centrale, che ho girato in lungo e in largo e dove ho svolto una duplice funzione: pastorale e culturale. Visitavo le comunità cattoliche, ma abbiamo anche aperto centri di studio dell’italiano in posti dove non esisteva nulla, tra cui Samarcanda in Uzbekistan.

 

In tutto questo periodo, come è stata la convivenza con i musulmani? Quali sono stati i suoi interlocutori nel Paese? E qual è la situazione attuale dell’Islam in Kazakistan?

 

Occorre premettere che in Kazakistan ci sono 120 etnie differenti, frutto soprattutto della deportazione di Stalin. Quindi, anche il mondo musulmano è rappresentato non solo dalla componente kazaka, ma da molte presenze etniche diverse tra di loro, che hanno tradizioni molto diverse, come i ceceni, i tatari ecc. Quindi l’Islam, che già nel mondo è molto variegato, lo è ancora di più nel Kazakistan. Per fare uno dei tanti esempi, molti in Kazakistan hanno il passaporto turco, ma sono di etnia curda. Inoltre, c’è una presenza molto importante di cittadini del Golfo fra i costruttori – alla famiglia Bin Laden è stata affidata la costruzione di buona parte della capitale – che però non rappresentano la tradizione culturale del Kazakistan. La tradizione islamica kazaka è molto particolare. Nel 1670, quando già l’Islam era entrato in Kazakistan, sono state introdotte le “Zheti zhargy”, cioè le 7 leggi, che costituiscono un codice civile diverso dalla sharīʿa. All’inizio, l’Islam è stato rifiutato dai kazaki e dai popoli della steppa (kazaki e kirghisi erano come un unico popolo, la separazione è recente) perché contrastava con la tradizione culturale familiare. Poi tra l’XI e il XII secolo c’è stata la mediazione culturale di Ahmad Yasawi, uno dei fondatori, se non il personaggio più importante del sufismo turco, che è sepolto a Turkistan, nel sud del Kazakistan. Attraverso la sua opera l’Islam è stato accettato in Kazakistan con alcune concessioni: primo, quella di poter leggere il Corano in una lingua diversa da quella ufficiale dell’Islam; secondo, di poter avere alcune tradizioni personali riguardo alla famiglia, e terzo, di mantenere dei costumi che normalmente non sono accettati nell’Islam. Ad esempio, le donne kazake erano molto libere, non coprivano il volto e andavano a cavallo come gli uomini. Nell’Asia centrale c’era anche una significativa presenza cristiana. Tutta la grande medicina musulmana è stata possibile perché erano presenti forti gruppi di nestoriani giacobiti, che conoscevano il greco e il siriaco e hanno tradotto in arabo e in türko tutta la grande filosofia e anche la medicina di Ippocrate e dei greci. Tradizionalmente c’è una convivenza pacifica tra cristiani e musulmani, al punto che nel 1300 venne istituita una diocesi vicino ad Almaty, che tuttavia venne distrutta alla morte del Khan locale che ne aveva permesso la creazione e tutti i francescani che si trovavano lì furono uccisi. Ma in generale l’Islam della steppa è stato pacifico. Per riferirmi all’epoca in cui sono arrivato in Kazakistan, e poi sono stato Vicario generale di tutta l’Asia centrale, il mio rapporto con le comunità kazake era molto tranquillo. Erano anche molto ignoranti: nel 1995 è stato realizzato il primo censimento ufficiale del nuovo Stato, e fra le domande compariva anche “tu credi in Dio?” Il 70% ha risposto “no”. Alla seconda domanda – “di che religione sei?”  avrebbe dovuto perciò rispondere solo il 30% della popolazione; invece hanno risposto tutti e il 50% ha dichiarato “sono musulmano”. Quindi c’è una buona dose di musulmani atei. Questo perché in Kazakistan, e in tante altre zone limitrofe, la religione è un aspetto secondario dell’appartenenza etnica. Se sei di origine polacca sei cattolico, se sei di origine russa sei automaticamente ortodosso, se sei kazako sei musulmano. Ma non è una scelta, appartieni a una data etnia e quindi a una data religione. Questo crea un grosso problema in merito alla libertà di coscienza. Inoltre, banalizza, perché come ho già scritto altrove, fare il convegno di tutte le religioni in Kazakistan è come organizzare il festival della pizza in Val di Non. Le persone che vanno in chiesa o in moschea sono pochissime – adesso un po’ di più perché è diventato di moda. In quegli anni ad Almaty c’era un arcivescovo ortodosso, molto intelligente e un caro amico, che ha permesso un rapporto molto bello con la Chiesa cattolica, e questo gli ha procurato diversi attacchi da parte degli ortodossi. Io ho fatto cinque anni in un lager femminile mandato dalla Chiesa ortodossa, e non dalla Chiesa cattolica, quindi con tutte le facoltà di dare i sacramenti anche alle donne ortodosse, e lo stesso accadeva anche quando andavo a celebrare la messa in certi villaggi dove non c’era il prete ortodosso. Quando Giovanni Paolo II visitò il Kazakistan, il giovane parroco ortodosso della capitale, di cui ero molto amico, mi fece vedere in un luogo segreto della vecchia chiesa un posto dove il sacerdote ortodosso confessava di nascosto i cattolici. Ultimamente la situazione è un po’ diversa, ma veniamo da un contesto di questo tipo. C’è anche una forte presenza, non ufficiale, di comunità protestanti e una piccola presenza di luterani, a causa della deportazione in Kazakistan dei tedeschi del Volga, il 60% dei quali erano luterani e 40% cattolici (sempre come tradizione). C’è inoltre una presenza di nuove sette, perché appena si è dissolta l’Unione sovietica sono arrivate un po’ tutte le sette americane, di cui lo Stato ora cerca di liberarsi, perché molti sono visti, non del tutto a torto, come agenti della CIA.

 

Per quanto riguarda i rapporti tra le varie componenti etniche, qual è la situazione delle relazioni tra russi e kazaki turcofoni?

 

Negli anni dell’Unione sovietica, di fatto in tutti gli ex Paesi dell’ex URSS ma anche in Kazakistan, c’è stata una tendenza a imporre la lingua, di sicuro, ma anche la cultura russa. Ad esempio, moltissimi dei miei studenti kazaki non sapevano la lingua kazaka, e questo sarebbe un discorso da fare anche per l’Ucraina, dove ci sono zone in cui gente assolutamente contraria a Putin parla comunque russo e considera l’ucraino un dialetto. Per i kazaki non era nemmeno un dialetto, era la lingua che parlavano i loro nonni nei villaggi della steppa. Ma se uno voleva studiare e andare all’università, doveva imparare il russo. La cosa fa un po’ ridere perché la Russia è stato l’ultimo Paese al mondo ad abolire il latino dall’insegnamento universitario: fino alla fine del Settecento se uno voleva studiare all’università in Russia doveva sapere il latino. Le persone studiavano Dostoevskij e Puškin, ma paradossalmente sapevano pochissimo dei loro grandi autori, che ci sono e che io ho tradotto in italiano – è stato un grande lavoro che mi ha fatto diventare grande amico dei kazaki. Tra le opere su cui ho lavorato, ricordo uno scambio epistolare tra Dostoevskij e Chokan Walikhanov, un kazako intelligentissimo che fu mandato all’accademia militare di Omsk, dove diventò ufficiale dell’esercito russo. Mi ha molto colpito una sua affermazione: «noi avremo anche bisogno del cristianesimo, ma voi russi non potete pretendere che noi kazaki per diventare cristiani dobbiamo diventare prima russi». È un grande problema irrisolto.

 

Per quanto riguarda la componente turca, nella lingua russa c’è una differenza fra turco e türko. I turchi sono una delle tribù türke originarie della steppa. Molte popolazioni sono originarie della steppa e hanno questa lingua base che è il türko. Ma non sono i kazaki che derivano dai turchi, è il contrario! Si dice che uzbeko, kazako, ecc sono dialetti turchi, ma non è vero, è esattamente il contrario. I turchi abitavano nell’Asia centrale e sono andati a finire nell’attuale Turchia, che allora era abitata per il 90% dai greci.

 

Il presidente kazako Toqaev è stato critico nei confronti della guerra in Ucraina. Qual è la posizione del Paese nei confronti di Putin?

 

Ho conosciuto personalmente Toqaev: quando era Ministro degli esteri, venne a tenere una famosa conferenza in cui spiegò come mai aveva concesso tanto a Pechino al momento della definizione dei confini con la Cina (perché per molti anni non ci sono stati confini tra Cina e Kazakistan, c’erano le montagne del Tien Shan). Conosce benissimo il cinese, si è laureato a Pechino, e ha più rapporti con la Cina che con la Russia. Ha chiesto l’aiuto di Putin in occasione delle sommosse di Almaty all’inizio di quest’anno, affermando che in base al trattato del CSTO, gli Stati alleati del Kazakistan dovevano intervenire dal momento che le rivolte erano state provocate da estranei, cioè da agenti islamici che venivano dal sud. L’intervento c’è stato e sono arrivati soprattutto tanti bielorussi. In realtà si è trattato di manifestazioni di malcontento per l’aumento del prezzo della benzina, anche se in parte è vero che c’è stato un intervento di stranieri dal Sud. Allo scoppio della guerra in Ucraina, Toqaev si è completamente dissociato. E quando si è celebrato il ventennale del CSTO a San Pietroburgo, non ha detto una parola sul conflitto, ribadendo che l’alleanza è difensiva e serve soprattutto a contrastare il terrorismo. Ha anche mandato aiuti umanitari in Polonia per gli ucraini, e qualche giorno fa ha perfino rifiutato l’Ordine al merito intitolato ad Aleksandr Nevskij. Ci sono almeno due ragioni che spiegano la posizione del presidente kazako: innanzitutto in Kazakistan ci sono zone abitate da molti più russi che non a Donetsk e a Luhans’k. Se Putin ha voluto prendere il Donbass, perché non dovrebbe fare lo stesso con le regioni russe del Kazakistan? Non succederà perché ormai i russi non hanno più soldati nemmeno per l’Ucraina, figuriamoci se invadono il Kazakistan. Ma rimane il principio. Tra l’altro in Kazakistan i rapporti fra russi e kazaki sono sempre stati abbastanza buoni. Nazarbaev, il predecessore di Toqaev, era grande amico di Gorbačëv e doveva diventare addirittura il suo successore. Infatti, quando è diventato presidente, tutti in Occidente lo presentavano come il delfino di Gorbačëv, l’uomo della Perestroika. Ora invece è considerato un dittatore. Ma i fatti sono fatti: quando nel 1995 l’allora presidente della repubblica italiana Oscar Luigi Scalfaro ha visitato il Kazakistan, diede a Nazarbaev l’ordine di Grande ufficiale della Repubblica italiana perché aveva rinunciato ad armi e basi nucleari, tanto per dire come cambia la politica. Adesso, un po’ alla volta, anche in Kazakistan, anche se meno che nelle altre repubbliche vicine, i kazaki stanno assumendo posizioni di potere. Prima della caduta dell’Unione Sovietica, i russi occupavano tutti i posti chiave. Adesso la situazione si sta ribaltando. Anche dal punto di vista linguistico, ormai sta prendendo sempre più piede il kazako, che secondo la Costituzione è la lingua ufficiale del Paese. È vero che il russo è equiparato al kazako, ma mentre prima si parlava solo russo, la tendenza comune dei Paesi ex-sovietici dell’Asia centrale è tornare alle lingue locali. Il problema non è solo linguistico. I russi stanno perdendo potere e cominciano a sentirsi un po’ stranieri, anche se hanno molti interessi economici. C’è inoltre un altro fenomeno, di cui si parla poco: da quando è scoppiata la guerra in Ucraina molti giovani russi sono scappati in Kazakistan, Uzbekistan e Armenia per non fare il servizio militare e quindi adesso sono lì, a infastidire i kazaki. Ma anche molti imprenditori russi hanno trasferito le proprie aziende in Kazakistan per evitare le sanzioni. In questo modo, però, fanno concorrenza ai kazaki. Quindi ci sono diverse ragioni che spiegano la scelta di Toqaev. Quella di fondo, secondo me, è che Toqaev ha fatto una scelta non tanto a favore dell’Europa, ma a favore della Cina. Finora la Russia è stata la protettrice del Kazakistan contro la Cina, adesso i rapporti si stanno invertendo.

 

Qual è secondo lei il significato del viaggio del Papa in Kazakistan in questo momento storico? In che modo si intreccia con la guerra in Ucraina?

 

Il viaggio del Papa ha radici che non hanno a che fare con la guerra in Ucraina, era stato programmato già due anni fa. Ha un significato soprattutto interecclesiale, molto delicato. L’ultima visita di un Papa in Kazakistan è stata quella di Giovanni Paolo II, avvenuta undici giorni dopo l’attentato alle Torri gemelle, e anche adesso il viaggio si colloca in un contesto internazionale drammatico. Giovanni Paolo II aveva dato come indicazione alla Chiesa di essere presente in Kazakistan, di immedesimarsi con il Paese, e il discorso che aveva fatto il Presidente (alla cui redazione ho contribuito) parlava della Chiesa cattolica come di una Chiesa radicata nel Paese. Ma negli ultimi anni la Chiesa ha trascurato la conoscenza della lingua e della cultura kazaka, neanche i preti nati nel Paese parlano veramente kazako.

 

Al di là di questi aspetti è importante che il Papa vada in un Paese come questo, che ha comunque una tradizione di pace. In fondo la posizione del Kazakistan, un Paese alleato con Putin – perché rimane tale nonostante le critiche del presidente – è di non essere succube della situazione.

 

Crede che l’assenza a Nur Sultan del patriarca della Chiesa ortodossa Kirill possa sminuire l’importanza del viaggio?

 

La rilevanza di Kirill è molto inferiore a quello che si pensa, nel senso che Kirill non partecipa all’incontro perché Putin gli ha detto di non farlo. Ma soprattutto bisogna dire, a conferma di quanto ho detto prima sull’importanza relativa della religione, che in questo momento in Russia è in atto una fortissima scristianizzazione. Per dimostrarlo basta citare un dato: Kirill e la Chiesa ortodossa hanno ottenuto che nelle scuole fosse introdotto l’insegnamento della religione, ma neanche il 30% delle famiglie l’ha richiesto. È invece fortemente maggioritaria quella linea culturale e filosofica che si chiama neopaganesimo slavo, di cui è un fautore Dugin. Io l’ho conosciuto di persona, ero l’unico che andava elegantemente a contestarlo. Ma in realtà anche Navalny è così: Dugin e Navalny hanno la stessa origine ideologica, anche se uno è il cocco del presidente e l’altro l’oppositore. Il fatto che Kirill non vada in Kazakistan è grave per i russi. Ma l’influenza di Kirill è molto minore di quanto si pensi. Resta che un incontro tra il Papa e il Patriarca sarebbe un segno di distensione, perché, è importante sottolinearlo alla faccia di tutti quelli che accusano il Papa di essere un putiniano, è da sempre pratica della diplomazia vaticana, come ha ribadito anche il Cardinal Parolin, di non rompere mai, con nessuno, le relazioni diplomatiche. Il dialogo, con chiunque, può essere uno strumento di pace.

 

Qual è allora il ruolo della Chiesa Ortodossa russa e del Patriarca Kirill nel sistema di potere e nella legittimazione del discorso putiniano?

 

È formale ed è fortemente in crisi rispetto ad altre linee culturali che sono presenti. Però, nel recupero della grande tradizione russa operato dal regime di Putin è interessante quello che scrive Dugin. Dugin è contro il Cristianesimo, sostiene che il Cristianesimo abbia indebolito lo spirito del paganesimo slavo, ma afferma anche che la Chiesa ortodossa ha conservato qualcosa di questa tradizione.

 

Il VII Congresso dei leader delle religioni mondiali e tradizionali si propone di affrontare “il tema della strumentalizzazione dei sentimenti religiosi per l’escalation di conflitti e ostilità”. In che modo potrebbe farlo secondo lei? E cosa aggiunge questa iniziativa al percorso avviato dalle dichiarazioni sulla fratellanza umana?

 

È evidente che oggi come oggi il problema fondamentale della strumentalizzazione del sentimento religioso in funzione politica riguarda soprattutto il mondo islamico, perché nel mondo occidentale ormai la secolarizzazione ha ridotto la religione ad un affare privato, come esplicitamente enunciato nel 1891 nel programma di Erfurt elaborato dal partito socialdemocratico tedesco. Noi stiamo applicando in tutto l’Occidente lo stesso principio: “la religione è un affare privato”. È chiaro che invece nel mondo musulmano la questione è aperta: proprio perché ci sono diversi mondi, diverse fazioni nel mondo musulmano, non usare il sentimento religioso come elemento di potere è molto importante. D’alta parte, c’è anche una preoccupazione da parte dei credenti musulmani di difendere il sentimento religioso, perché comunque non è vero che tutti i musulmani particolarmente religiosi e osservanti sono terroristi. È una questione molto delicata perché al di là del terrorismo c’è anche un aspetto legale, dal momento che in molti Paesi musulmani di fatto la legge civile, che è ispirata alla sharīʿa, non garantisce gli stessi diritti ai non-musulmani. In più, c’è il problema della conversione: diversi Paesi musulmani – ma non il Kazakistan! – di fatto non hanno accettato la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo del 1948 che permette anche di cambiare religione. Questo diritto fu invece affermato nel primo Congresso interreligioso: il principio della libertà di coscienza – addirittura di non avere una religione, di essere ateo. È questo il punto delicato della questione. È vero che in questo momento nel mondo cristiano c’è una politicizzazione della religione. Ma è evidente che il Papa, a differenza di Kirill, non ha mai accettato il ruolo di cappellano degli occidentali, anzi, a costo di essere dichiarato putiniano si è espresso al di fuori degli schemi dell’Occidente, anche con l’idea di andare a parlare prima coi russi e poi con gli ucraini. Quando è stato criticato per questa scelta, io ho scritto un articolo in cui ho fatto notare che molti anni fa, un altro Francesco, quando ci fu il caso del lupo di Gubbio, andò prima a parlare col lupo, e poi coi pastori.

 

 

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