Necessità del rigore scientifico, fedeltà alla verità: sono le basi stesse della conoscenza dell’altro e della sua cultura. Nel testo del grande sapiente Bîrûnî un interessante esperimento di quello che oggi chiamiamo “dialogo interculturale”

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:49

Nessuno negherà che in fatto di autenticità storica la conoscenza per sentito dire non equivale alla testimonianza oculare. Nel secondo caso infatti l’occhio dell’osservatore coglie la sostanza di ciò che è osservato, nel tempo e nello spazio in cui esso esiste, mentre il sentito dire ha i suoi peculiari difetti. Ma se si prescinde da questi, quest’ultimo sarebbe addirittura da preferire alla testimonianza oculare perché l’oggetto della testimonianza diretta può solo essere l’esistenza momentanea in atto, mentre il sentito dire include allo stesso modo il presente, il passato e il futuro, tanto da applicarsi in un certo senso sia a ciò che è sia a ciò che non è (cioè a ciò che ha cessato di esistere o a ciò che ancora deve cominciare a esistere). La tradizione scritta è uno dei tipi di conoscenza per sentito dire, potremmo dire quasi la più preferibile. Come conosceremmo la storia delle nazioni se non grazie agli immortali monumenti del calamo?

Se la giustizia è una qualità apprezzata e desiderata in sé, per una bellezza intrinseca, lo stesso vale per la veridicità

La tradizione in merito a un evento che non contraddica in sé né le leggi fisiche né quelle logiche dipenderà invariabilmente, per il suo carattere di veridicità o falsità, dal carattere dei trasmettitori, che è influenzato da interessi divergenti e da ogni tipo di animosità e antipatia tra le varie nazioni. Dobbiamo distinguere diverse classi di trasmettitori. […Tuttavia], è degno di lode solo l’uomo che rifugge dalla menzogna e aderisce alla verità, beneficiando perfino del credito dei bugiardi, per non parlare degli altri. [...] Se la giustizia è una qualità apprezzata e desiderata in sé, per una bellezza intrinseca, lo stesso vale per la veridicità, tranne forse nel caso delle persone che non hanno mai provato quanto dolce essa sia, oppure che conoscono la verità ma la fuggono deliberatamente, come un noto bugiardo cui fu chiesto una volta se avesse mai detto la verità. Egli rispose: «Se non avessi paura di dire la verità, dovrei rispondere di no». Un bugiardo eviterà la via della giustizia; si schiererà, di preferenza, con l’oppressione e la falsa testimonianza, il tradimento della fiducia, l’appropriazione fraudolenta della ricchezza altrui, il furto e tutti i vizi che servono la rovina del mondo e dell’umanità.

Quando un giorno consultai il maestro Abû Sahl ‘Abd al-Mun‘im Ibn ‘Alî Ibn Nûh at-Tiflîsî, che Iddio lo fortifichi, trovai che biasimava l’autore di un libro sui mu‘taziliti per la sua tendenza a travisare le loro teorie. Secondo loro, infatti, Dio è onnisciente per se stesso, ma l’autore aveva espresso questo dogma in modo tale da dire che Dio non ha conoscenza (al modo degli uomini), così da indurre le persone semplici a immaginare che, secondo i mu‘taziliti, Dio è ignorante. Lode a Colui che è superiore a descrizioni tanto indegne! Osservai allora in presenza del maestro che esattamente lo stesso metodo è in voga tra coloro che si assumono il compito di dar conto di sistemi filosofici e religiosi dai quali divergono in parte o ai quali si oppongono categoricamente. Tale travisamento è facilmente riconoscibile nell’esposizione dei dogmi interni a una stessa religione, perché sono strettamente connessi e mescolati gli uni con gli altri. Invece sarebbe assai difficile scovarlo in un’esposizione su sistemi di pensiero totalmente estranei, divergenti sia nei principi che nei dettagli, dal momento che una ricerca di questo tipo è piuttosto inusuale ed esistono pochi mezzi per giungere a una comprensione approfondita. Questa tendenza prevale in tutta la nostra letteratura sulle sette filosofiche e religiose. Se un certo autore non è avvezzo alle esigenze di un metodo rigorosamente scientifico, fornirà alcune informazioni superficiali che non soddisferanno né gli aderenti alla dottrina in questione né quelli che la conoscono veramente. In tal caso, se è una persona onesta, semplicemente ritratterà e si vergognerà; ma se fosse tanto vile da non onorare debitamente la verità, si lancerà in continue polemiche pur di mantenere il suo iniziale punto di vista. Se al contrario l’autore possiede il giusto metodo, farà del suo meglio per dedurre i principi di una setta dalla loro tradizione leggendaria e dalle cose che le persone gli dicono, abbastanza piacevoli per meritare di essere ascoltate, ma che non si sognerebbe mai di ritenere vere e credibili.

ho scritto questo libro sulle dottrine degli indù, senza mai muovere accuse infondate contro di loro

Per illustrare il punto della nostra conversazione, uno dei presenti si riferì alle religioni e alle dottrine degli indù come un esempio in questo senso. Al che attirai la loro attenzione sul fatto che tutto ciò che nella nostra letteratura esiste sull’argomento sono informazioni di seconda mano copiate di mano in mano, una congerie di materiali mai passati al vaglio dell’esame critico. […] Qualche tempo dopo il maestro Abû Sahl esaminò i libri in questione una seconda volta e quando trovò che le cose stavano esattamente come le descrivo qui, mi incoraggiò a scrivere quanto so sugli indù come sussidio per quanti volessero discutere di questioni religiose con loro e come repertorio di informazioni per quanti volessero unirsi a loro. Per assecondarlo ho fatto quanto mi ha chiesto e ho scritto questo libro sulle dottrine degli indù, senza mai muovere accuse infondate contro di loro, nostri avversari religiosi, e, allo stesso tempo, non considerando contraddittorio con i miei doveri di musulmano il fatto di citare integralmente le loro stesse parole quando ho ritenuto che potessero contribuire a chiarire l’argomento. Se i contenuti di queste citazioni sono talvolta totalmente pagani e coloro che seguono la verità li trovano opinabili, possiamo solo dire che tali sono le credenze degli indù e che sono loro i più indicati a difenderle.

Questo libro non è polemico. Non esporrò gli argomenti dei nostri avversari per confutare quelli che ritengo errati. Il mio libro è una semplice enunciazione storica di fatti. Porrò davanti al lettore le teorie degli indù così come sono e menzionerò accanto ad esse teorie greche simili per mostrare la relazione che esiste tra loro. Infatti i filosofi greci, pur puntando in astratto alla verità, nelle questioni popolari non si allontanano molto dalle espressioni esoteriche tradizionali e dai principi della religione e legge indù. Accanto alle idee greche menzioneremo soltanto qua e là quelle dei sufi o di qualche setta cristiana, dal momento che le nozioni indù circa la trasmigrazione delle anime e la dottrina panteistica dell’unità di Dio con il creato hanno parecchio in comune con questi sistemi.

Le barriere che separano musulmani e indù sono ascrivibili a varie cause

Prima di entrare nella nostra esposizione dobbiamo formarci un’idea adeguata di ciò che rende tanto difficile penetrare nella natura essenziale di tutto quanto attiene all’India. La conoscenza di tali difficoltà faciliterà il progresso del nostro lavoro o servirà da scusa per ogni suo difetto. Il lettore infatti deve sempre tenere a mente che gli indù sono diversi da noi in tutto e molti fatti che sembrano oscuri e intricati sarebbero perfettamente chiari se ci fossero maggiori relazioni tra di noi. Le barriere che separano musulmani e indù sono ascrivibili a varie cause.

In primo luogo, sono diversi da noi in tutto ciò che le altre nazioni hanno in comune. Citeremo innanzitutto la lingua, anche se differenze linguistiche esistono anche tra altre nazioni. Se anche volessi affrontare questa difficoltà, non ti sarà facile, perché la lingua è vastissima, sia nel vocabolario che nelle desinenze. Essa ricorda l’arabo perché chiama la stessa cosa con diversi nomi, sia originali che derivati, e usa la stessa parola per una gran varietà di concetti, che per essere rettamente compresi vanno distinti uno dall’altro attraverso l’attribuzione di diversi epiteti. Nessuno potrebbe distinguere tra i vari significati di una parola a meno di capire il contesto nel quale essa si trova e la sua relazione con le parti della frase che la precedono e seguono. Gli indù, come altri popoli, si vantano della vastità della loro lingua, quando in realtà essa è un difetto.

Inoltre la lingua si divide in un vernacolo molto trascurato, in uso solo tra la gente comune, e una lingua classica, in uso soltanto tra le caste alte e istruite, molto elaborata e soggetta alle regole della declinazione e dell’etimologia e a tutte le amenità della grammatica e della retorica.

Oltre a ciò, alcuni suoni (consonanti) dei quali la loro lingua si compone non corrispondono ai suoni dell’arabo o del persiano né vi assomigliano in alcun modo. La nostra lingua e la nostra ugola riescono a stento a pronunciarli correttamente; le nostre orecchie non riescono a distinguere i loro suoni da suoni simili né potremmo traslitterarli con i nostri caratteri. È assai difficile perciò esprimere con la nostra scrittura una parola indiana, visto che per segnare la pronuncia dobbiamo cambiare i nostri punti e segni ortografici e pronunciare le desinenze secondo le regole dell’arabo o secondo regole speciali adattate allo scopo.

Si aggiunga che gli scribi indiani sono poco accurati e non si danno pena di produrre copie corrette e ordinate. Di conseguenza i risultati migliori dello sviluppo mentale di un autore vanno perduti per via della loro negligenza e il suo libro diventa già nella prima o nella seconda copia così pieno di errori da farlo apparire come un testo completamente nuovo che né uno studioso né qualcuno che abbia familiarità con l’argomento, sia esso indù o musulmano, potrebbe più capire. Basterà a illustrare la questione dire al lettore che ci è capitato a volte di annotare una parola che usciva dalla bocca degli indù, ponendo la massima cura nel segnare la pronuncia. Ma quando la ripetevamo loro, avevano una gran difficoltà nel riconoscerla.

Come in altre lingue straniere, anche in sanscrito possono trovarsi una dopo l’altra e senza interposizione di vocali due o tre consonanti che nel nostro sistema grammaticale persiano sarebbero considerate portatrici di una vocale nascosta. Poiché la maggior parte delle parole e dei nomi sanscriti iniziano con tali consonanti senza vocali, troviamo molto difficile pronunciarle. A ciò si aggiunga che i libri scientifici degli indù sono composti secondo diversi metri fissi. Considerando che i libri vengono presto corrotti da aggiunte e omissioni, essi utilizzano questo sistema per preservarli esattamente come sono e facilitarne la memorizzazione. Ritengono infatti canonico solo ciò che è conosciuto a memoria e non quello che esiste in forma scritta. È noto però che in ogni composizione metrica si trova molta fraseologia confusa e forzata, utile soltanto come zeppa per soddisfare il metro e ciò determina una certa dose di prolissità. Questa è anche una delle ragioni per cui una parola ha talora un significato e talora un altro. Da tutto ciò emergerà che la forma metrica di una composizione letteraria è una delle cause che rendono lo studio della letteratura sanscrita così difficile.

Gli indù non metterebbero mai in gioco la loro anima, il loro corpo o la loro proprietà per controversie religiose

In secondo luogo, gli indù sono totalmente diversi da noi nella religione, visto che non crediamo in niente di ciò in cui credono loro e viceversa. Nel complesso, raramente si danno tra loro dispute su questioni teologiche; al massimo si combattono a parole, ma non metterebbero mai in gioco la loro anima, il loro corpo o la loro proprietà per controversie religiose. Di contro, tutto il loro fanatismo è diretto contro quanti non appartengono alla loro nazione – contro tutti gli stranieri. Li chiamano mleccha, cioè impuri, e vietano di avere relazioni con loro, sia matrimoniali sia di qualsiasi altro tipo, di sedere, mangiare e bere con loro, per timore, dicono, di essere contaminati. Considerano impuro tutto ciò che entra in contatto con il fuoco o l’acqua di uno straniero; e non esiste società senza questi due elementi. Inoltre, non vogliono che una cosa contaminata venga purificata e recuperata come accade, in circostanze ordinarie, quando qualcuno o qualcosa si è macchiato e lo si vuole rendere a uno stato di purezza. Non è loro permesso ricevere alcuno che non appartenga al loro gruppo, anche se questi lo volesse o fosse interessato alla loro religione. Anche questo rende le relazioni con loro pressoché impossibili e apre la più grande distanza tra noi e loro.

In terzo luogo, ci considerano talmente diversi in tutti gli usi e i costumi da rappresentarci ai loro bambini come uno spauracchio, per via dei nostri vestiti o dei nostri modi di vivere; ci dichiarano figli del diavolo o comunque l’esatto opposto di tutto ciò che è buono e giusto. Dobbiamo tuttavia ammettere, per essere giusti, che un tale disprezzo degli stranieri non prevale solo tra noi e gli indù ma è comune a tutte le nazioni. […]

mi definivano il mare o un’acqua così acida da rendere dolce l’aceto al suo confronto

In quinto luogo ci sono altre cause, la cui sola menzione suonerebbe come uno scherzo; peculiarità del loro carattere nazionale, profondamente radicato in essi, ma manifesto a tutti. Possiamo solo dire che la follia è una malattia per la quale non c’è medicina e gli indù credono che non c’è paese oltre al loro, nessuna nazione come la loro, nessun re come il loro, nessuna religione come la loro, nessuna scienza come la loro. […] Di primo acchito mi comportai con i loro astronomi come un discepolo fa con il maestro, poiché ero straniero e non conoscevo i loro peculiari metodi scientifici tradizionali. Dopo aver fatto qualche progresso, iniziai a mostrare loro gli elementi sui quali riposa questa scienza, per indicare loro alcune regole di deduzione logica e il metodo scientifico di tutte le matematiche ed essi presero a radunarsi attorno a me da ogni dove interrogandomi. Desiderosi di imparare da me, mi chiedevano da quale maestro indù avessi imparato quelle cose, mentre in realtà mostravo quanto valevano e mi ritenevo di gran lunga superiore ad essi disdegnando di essere messo al loro stesso livello. Mi credettero quasi uno stregone, e quando parlavano di me ai loro capi nella loro lingua natia mi definivano il mare o un’acqua così acida da rendere dolce l’aceto al suo confronto.

Tale è lo stato delle cose in India. Ho trovato molto difficile sviluppare il mio pensiero, anche se l’argomento mi piace parecchio – gusto che mi trova quasi isolato nella mia epoca – e nonostante non risparmi tempo o denaro per raccogliere libri in sanscrito da luoghi nei quali ritengo verosimile trovarli e per procurarmi, anche da luoghi remoti, studiosi indù che li comprendano e possano insegnarmeli. Quale studioso, tuttavia, ha le mie stesse opportunità di studiare l’argomento? Questo sarebbe il caso soltanto di colui al quale Dio volesse per grazia accordare, diversamente da quanto accaduto a me, una disponibilità totale in termini di impegni e viaggi. Infatti a me non è mai capitato di essere assolutamente indipendente nelle mie azioni e nei miei spostamenti né di essere investito di un potere tale da dare ordini o disposizioni come meglio ritenevo. Tuttavia ringrazio Dio per quanto mi ha concesso, che deve essere considerato sufficiente allo scopo.

I greci pagani, prima della nascita del Cristianesimo, avevano pressappoco le stesse idee degli indù

I greci pagani, prima della nascita del Cristianesimo, avevano pressappoco le stesse idee degli indù; le classi colte pensavano le stesse cose degli indù; la gente comune aveva le stesse opinioni idolatriche degli indù. Per questo motivo mi piace confrontare le teorie di una nazione con quelle dell’altra semplicemente sulla base della loro stretta relazione e non al fine di correggerle. Infatti ciò che non è la verità non ammette correzioni, e ogni paganesimo, sia esso greco o indiano, è nella sua essenza una e la stessa credenza, poiché è solo una deviazione dalla verità.

I greci tuttavia avevano filosofi che, vivendo nel loro paese, avevano scoperto ed elaborato da sé gli elementi della scienza e non della superstizione popolare. È un fatto che le classi superiori sono guidate dai risultati della scienza, mentre la gente comune sarà sempre incline a gettarsi in dispute insensate finché non venga messa a tacere dal timore del castigo. Si pensi a Socrate, quando si oppose all’idolatria della sua gente e non accettò di chiamare dèi le stelle. Undici giudici ateniesi su dodici votarono la sua condanna a morte e Socrate perì fedele alla verità. […] Infine, osserviamo che nelle nostre discussioni non possiamo sempre aderire al metodo geometrico, riferendoci solo a quello che viene prima e non a quello che viene dopo, visto che a volte dobbiamo introdurre in un capitolo un fattore sconosciuto, la cui spiegazione potrà essere data solo in una parte successiva del libro, con l’aiuto di Dio.

[tratto da: Alberuni’s India. An Account of the Religion, Philosophy, Literature, Geography, Chronology, Astronomy, Customs, Laws and Astrology of India about AD 1030, edizione a cura di Edward C. Sachau, Trübner, London 1910. Ristampato da Atlantic Publishers & Distributors, New Delhi 1989].

 

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Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Testo di al-Bîrûnî, L’ambizione universale dell’Islam alla prova dell’India, «Oasis», anno V, n. 10, dicembre 2009, pp. 68-71.

 

Riferimento al formato digitale:

Testo di al-Bîrûnî, L’ambizione universale dell’Islam alla prova dell’India, «Oasis» [online], pubblicato il 1 dicembre 2009, URL: https: https://www.oasiscenter.eu/it/l-ambizione-universale-dell-islam-alla-prova-dell-india.

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