Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 12/09/2025 15:44:41
La stampa araba ha reagito insolitamente all’unisono, con toni esterrefatti e carichi d’indignazione, all’attacco israeliano a Doha. Come ha scritto su al-Jazeera Oraib al-Rantawi, direttore del Centro di Studi politici di Gerusalemme, l’aggressione ha dato vita a «un “pellegrinaggio” arabo a Doha», con i leader arabi e del Golfo accorsi a esprimere il loro sostegno all’emiro del Qatar.
Il vignettista giordano Emad Hajjaj ha rappresentato il piccolo emirato nei panni di una colomba ferita intenta a mediare tra Israele e Hamas, mentre su al-Quds al-Arabi una vignetta mostra un soldato israeliano armato di missile che sbuca furtivamente dalla tasca della giacca di Trump, il quale, con gli occhi chiusi e un orecchio tappato, è in atteggiamento “non vedo, non sento”.
«L’aggressione a Doha», scrive il giornalista siriano Ghazi Dahman su al-Arabi al-Jadid, «viola tutte le norme diplomatiche; Israele ha colpito uno Stato sovrano e un attore fondamentale nei negoziati di pace, che garantiva condizioni di sicurezza per i negoziatori israeliani, oltre il fatto che Doha è un centro di mediazione globale». Sempre secondo Dahman, l’aggressione è però anche un segno dei tempi e dimostra che «la dimensione ideologica che accomuna il sionismo e l’America sembra essere più importante delle considerazioni geopolitiche agli occhi delle élite americane». Il Qatar ospita infatti una base militare statunitense ed è il principale alleato strategico di Washington al di fuori della NATO. L’attacco, prosegue il giornalista, avrà un impatto negativo sulla reputazione degli Stati Uniti: «Nella forma e nella sostanza, esso esprime disprezzo per il ruolo degli Stati Uniti, segna un indebolimento dell’efficacia di Washington nella gestione dei conflitti nella regione e una significativa erosione della fiducia nel suo ruolo di garante della stabilità dell’area». L’operazione israeliana «ha oltrepassato tutte le linee rosse nella regione ed è un messaggio del governo Netanyahu che Israele non è interessato a porre fine alla guerra a Gaza».
Secondo il giornalista siriano Basheer al-Bakr, dopo l’attacco a Doha le relazioni tra il Gulf Cooperation Council, l’organizzazione che riunisce le monarchie del Golfo, e gli Stati Uniti non potranno più tornare quelle di un tempo. «La maggior parte dei Paesi della regione cercherà altri partner», scrive su al-Arabi al-Jadid, sottolineando come la posizione incerta e contraddittoria di Washington e delle capitali europee non sia all’altezza dei rapporti bilaterali finora intrattenuti. L’aggressione, aggiunge, ha posto una pietra tombale sui negoziati politici e di sicurezza con Israele, «inconcepibili […] finché Israele continuerà a porsi al di sopra del diritto internazionale». Allo stesso modo, il progetto di espandere gli Accordi di Abramo, avviati da Trump nel 2020, è ormai archiviato: Netanyahu, commenta al-Bakr, non ha mai rispettato alcun impegno, nemmeno quelli negoziati dagli Stati Uniti. «L’attacco al Qatar è un attacco a tutti gli arabi» e dimostra la necessità per i leader della regione di rilanciare il concetto di sicurezza nazionale araba e di guardare a nuove alleanze internazionali, oltre l’ombrello americano ed europeo, conclude l’articolo.
Che l’attacco a Doha sia un’aggressione a tutto il mondo arabo è opinione anche di al-Quds al-‘Arabi, per il quale essa «rappresenta una catastrofica negazione della politica e la rivendicazione della logica della supremazia militare, non solo a livello palestinese, ma in tutto il mondo arabo». L’ultima offensiva si inserisce in un quadro più ampio di aggressioni contro la Siria, il Libano e lo Yemen. E le recenti minacce che Netanyahu ha rivolto anche all’Egitto equivalgono a una dichiarazione esplicita del crollo della sovranità araba, ormai incapace di arginare l’espansionismo israeliano.
“Nessun dialogo, nessuna mediazione, nessuna linea rossa” è il titolo di una vignetta comparsa sul quotidiano filo-emiratino al-‘Arab, pubblicata a corredo di un articolo del tunisino Al-Habib al-Aswad, secondo il quale «la barbarie di Israele e l’arroganza di Netanyahu non conoscono limiti». Ormai «nessuno è più al sicuro dalla mano di Israele»; qualsiasi capitale araba potrebbe essere colpita. L’obiettivo dell’aggressione, spiega il giornalista, non era eliminare i leader di Hamas, ma «riflette un desiderio profondo nel subconscio del Primo ministro Benjamin Netanyahu di affermare la potenza del suo Paese, umiliare e disprezzare il mondo arabo, convincendolo che deve sottomettersi, sia perché sconfitto sul campo, sia per impotenza e paura, fino ad accettare la supremazia di Israele». Netanyahu «avanza come un carro armato Merkava senza freni verso i suoi obiettivi: espellere i palestinesi dalla Striscia di Gaza, assumere il controllo della Cisgiordania, cancellare gli Accordi di Oslo e liquidare una stremata Autorità Nazionale Palestinese». L’idea del «Grande Israele» non è più un semplice slogan scolastico, ma un progetto politico-strategico concreto, sostenuto da risorse finanziarie, potenza militare e peso diplomatico, conclude l’articolo.
Lo scrittore e attivista libanese Mustafa Fahs accusa Israele di perseguire un’espansione illimitata, ignorando i confini nati dagli accordi Sykes-Picot. Scrive sul quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat: «Ogni sua azione conferma il progetto di estendere i propri confini a scapito della geografia palestinese, libanese e siriana». Con l’attacco a Doha, Tel Aviv si dice esonerata dal rispetto delle risoluzioni internazionali e dei confini storici, e dichiara «di voler ridisegnare la mappa geografica e strategica della regione secondo le proprie esigenze di sicurezza, anche a costo di compromettere la stabilità globale».
Lapidario anche l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid, che sulla stessa testata accusa Israele di voler «chiudere la questione palestinese attraverso una guerra di annientamento, conquistando la Cisgiordania e Gerusalemme e ponendo fine all’Autorità Nazionale Palestinese; minare la sicurezza dei Paesi limitrofi, in primis la Siria, il Libano e l’Iraq; e ridisegnare il volto del Medio Oriente, con l’obiettivo finale di creare il Grande Israele». Tutta questa «follia», prosegue l’articolo, si fonda sulla superiorità militare e sul sostegno incondizionato di Washington. Trump, osserva al-Sayyid, «ha alleati affidabili nella regione» e la sua politica puntava a «completare gli Accordi di Abramo, proteggendo così Israele e assicurando agli Stati Uniti un controllo totale e incontrastato». Dopo due anni, «gli americani si sono resi conto di essere stati trascinati dietro le nuove politiche israeliane»: la guerra a Gaza appare senza fine, le incursioni di Israele in Siria irritano gli americani, gli alleati affidabili dell’America non sono più al sicuro e Israele non è interessato alla pace che potrebbe derivare dagli Accordi di Abramo. L’ambizione di Tel Aviv, conclude l’articolo, non è vivere come Paese protetto dall’ombrello americano, ma imporsi come potenza dominante, pronta a conquistare la regione con la sola forza delle armi.
“Settembre nero in versione qatariota”, titola il quotidiano emiratino al-‘Ayn al-Ikbariyya. L’attacco israeliano «tocca la coscienza dei popoli del Golfo», che hanno saputo trasformare i deserti aridi in centri di civiltà e prosperità. La vicenda di Doha risveglia nei cittadini del Golfo quella sensazione di tradimento che provarono nell’agosto 1990, quando l’invasione irachena del Kuwait mise a nudo la vulnerabilità dell’intera regione, scrive il giornalista yemenita Hani Salem Mashour. «Dal Bahrein al Kuwait, da Riad a Muscat, il bombardamento di Doha può essere percepito come un avvertimento: domani, qualsiasi città del Golfo potrebbe diventare un bersaglio con pretesti inconsistenti». La risposta all’attacco dev’essere collettiva, prosegue l’articolo: tutti gli Stati del Golfo devono collaborare per ridefinire il concetto di sicurezza collettiva e sviluppare una strategia deterrente per evitare che «questa terra diventi un “cortile dietro casa” per i conflitti altrui». Mashour invia poi un messaggio al Qatar: «La mediazione non protegge chi la pratica dal rischio di essere coinvolto nel fuoco incrociato, e la neutralità dichiarata non protegge dal tradimento delle grandi potenze quando ridisegnano le mappe del conflitto».
Sulle colonne del quotidiano filo-Hezbollah al-Akhbar, l’ex Ministro degli Esteri iraniano (2013-2021) Mohammad Javad Zarif condanna la «vergognosa aggressione israeliana contro il Qatar, che ha dimostrato come la regione dell’Asia occidentale si trovi sull’orlo del precipizio e sia chiamato a scegliere tra un’aggressione senza fine e l’alba di una vera cooperazione». Le azioni di Israele, scrive, «fanno parte di una strategia più ampia e studiata, volta a piegare l’intera regione a un’autorità spietata attraverso la prepotenza e la coercizione». In alternativa invoca la nascita di «una “regione forte”», in cui nessuno Stato prevalga sugli altri, ma ciascuno tragga la propria forza dagli altri. Una visione che affonda le sue radici «nei valori sublimi della nostra religione comune, l’islam, la quale invita alla giustizia, alla compassione e alla solidarietà, e nei principi di sovranità, integrità territoriale, non ingerenza e cooperazione».
La «linea rossa» emiratina sulla Cisgiordania e «il silenzio codardo» su Gaza [a cura di Farah Ahmed]
L’incessante assedio a Gaza e l’annessione della Cisgiordania restano al centro del dibattito nella stampa araba, che riflette un clima di indignazione crescente e di profonda frustrazione verso l’immobilismo regionale e internazionale.
Dalle colonne di al-Arabi al-Jadid, il politologo palestinese Mustafa Barghouthi denuncia il «silenzio codardo» della comunità araba e internazionale di fronte al «brutale massacro contro gli abitanti di Gaza», favorito dal sostegno americano «incondizionato» a Benyamin Netanyahu. Tale sostegno ha concesso al leader israeliano «la sfrontatezza di biasimare l’Egitto per non aver aperto i confini, così da completare la pulizia etnica dell’intera popolazione di Gaza». Con toni critici, Barghouthi accusa Israele di aver violato ogni principio del diritto internazionale: «Non vi è norma internazionale, diritto umanitario o umano che Israele non abbia calpestato con gli stivali dei suoi soldati, o distrutto con i suoi carri armati». Alla luce di queste violazioni, l’autore contesta i governi arabi: «Dopo genocidio, fame e pulizia etnica a Gaza, com’è possibile che ci siano ancora ancora canali di normalizzazione con Israele? (…) Cosa aspettano i 57 governi arabi e musulmani per mandare a Washington un messaggio chiaro: che interessi, investimenti e relazioni saranno condizionati a un intervento immediato per fermare Netanyahu e la strage a Gaza?».
Su al-Quds al-Arabi, il politologo libanese Gilbert Achcar concentra invece l’attenzione sulla Cisgiordania, denunciando il piano del ministro israeliano delle Finanze, Bezalel Smotrich, di annettere l’82% del territorio. Achcar come gli Emirati Arabi Uniti, al momento della firma degli Accordi di Abramo, avessero posto come condizione la rinuncia israeliana all’annessione, sottolineando che le recenti dichiarazioni del governo Netanyahu hanno messo Abu Dhabi «in imbarazzo». Infatti, la portavoce del ministero degli Esteri emiratino avrebbe ribadito che l’annessione dei territori cisgiordani rappresenta una «linea rossa» che comporterebbe il congelamento degli Accordi di Abramo. Tuttavia, il politologo mette anche in risalto la contraddizione emiratina e, più in generale, dei Paesi del Golfo: «Perché, allora, non hanno tracciato una “linea rossa” anche contro il genocidio di Gaza, che da quasi due anni mira a distruggere completamente la Striscia? L’annessione dei territori cisgiordani è forse più grave del massacro di decine di migliaia di palestinesi, e della loro uccisione indiretta per fame e malattie?». L’autore, infine, conclude con una nota amara: se i Paesi del Golfo avessero impiegato uno strumento come l’embargo petrolifero del 1973, «Washington avrebbe fermato immediatamente il genocidio. Ma non hanno nemmeno tentato di fare una simile minaccia».
Toni completamenti diversi emergono dalla stampa filo-emiratina e filo-saudita. Sul quotidiano emiratino al-Ayn al-Ikhbariyya, lo scrittore Mohamed Khilfan al-Souafi sottolinea che la recente presa di posizione degli Emirati «riflette come l’arroganza di Netanyahu sia ormai diventata insostenibile e come ulteriori trasgressioni non possano più essere tollerate». L’autore coglie l’occasione per evidenziare che «gli Emirati sono l’unico Stato al mondo – e non solo nel mondo arabo – ad aver dichiarato apertamente il proprio rifiuto dell’annessione della Cisgiordania. Questo dimostra il coraggio e la coerenza del loro posizionamento politico».
Nella stessa testata, il giornalista Ahmed al-Hosani elogia la posizione di Abu Dhabi, ricordando come essa «abbia avuto un ruolo di rilievo nella creazione di un fronte arabo unito, impegnandosi con intensi sforzi politico-diplomatici per mantenere la questione palestinese al centro dell’agenda regionale». Inoltre, l’articolo sottolinea che, nonostante la complessità del rapporto con Israele, «Abu Dhabi ha in più occasioni facilitato l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza».
Sul quotidiano filo-emiratino al-Arab, il giornalista libanese Khairallah Khairallah punta il dito anche contro Hamas e loda il ruolo di Emirati e Giordania. A suo parere, Israele sfrutta vari elementi per avanzare nell’annessione della Cisgiordania: tra questi «l’insistenza di Hamas a proseguire la guerra a Gaza, un conflitto che Netanyahu intende prolungare per servire i propri interessi politici e personali». La presenza degli ostaggi, osserva Khairallah, è «l’ultima e unica garanzia di Hamas per assicurarsi un ruolo nella Gaza del futuro». La catastrofe umanitaria, aggiunge l’autore, funge da cortina fumogena rispetto agli sviluppi in Cisgiordania. In questo contesto, sottolinea Khairallah, a frenare l’avanzata sono «la Giordania e gli Emirati Arabi Uniti, che hanno definito l’annessione una ‘linea rossa’, inducendo Israele a un temporaneo passo indietro»
Anche lo scrittore palestinese Nabil Amro, intervenendo sulle pagine della testata panaraba di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat, offre una chiave di lettura sull’annessione della Cisgiordania, descrivendo Israele come un paese «affetto da un’ossessione di diventare una superpotenza che lo spinge verso decisioni sbagliate». L’autore sottolinea che l’annessione rappresenta uno spartiacque per Tel Aviv. Israele, infatti, «o riuscirà a convivere con i suoi vicini, come speravano i suoi fondatori, oppure diventerà uno Stato di segregazione razziale, il cui destino non sarà diverso da quello di altre esperienze simili nella storia». Amro ricorda, inoltre, come i Paesi arabi abbiano collaborato con gli Stati Uniti per cercare una soluzione equilibrata che garantisse i diritti dei palestinesi, ma avverte che la prospettiva dell’annessione «costringe a rivedere questioni che sembravano ormai stabilizzate in Medio Oriente. Se l’annessione avrà luogo, sarà un colpo di mano compiuto da Israele, che si troverà nuovamente in rivalità sostanziale con tutti i Paesi della regione, se non con il mondo intero».
L’articolo si chiude con un monito dal tono preoccupato: «Sul piano della realtà e sulla scena mediorientale, la difficile annessione e l’ancora più difficile sfollamento […] produrranno soltanto un accumularsi di nuove crisi, dalle quali Israele non potrà certo restare immune».