Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/09/2025 14:58:09

Su una cosa la stampa araba concorda all’unisono: dopo l’attacco israeliano a Doha «nulla è più come prima». Entrato nel mirino prima dall’Iran (lo scorso giugno), poi di Israele (il 9 settembre), il Qatar, che negli anni era riuscito a costruirsi un’immagine di «mediatore neutrale» e «rifugio sicuro per la diplomazia», ​​è diventato «un’arena aperta per regolare i conti regionali». Così scrive il giornalista saudita Nadim Koteich sul sito d’informazione libanese Asasmedia. Gli attacchi iraniano e israeliano hanno trasformato la «neutralità attiva» in una pericolosa vulnerabilità per la sicurezza: «Il mediatore si è trasformato da parte protetta in virtù del suo ruolo di mediazione in un bersaglio esposto proprio a causa di questo suo ruolo», e questo richiede una revisione completa dei fondamenti della politica del Qatar. Ma il bombardamento israeliano è anche una lezione per tutti i Paesi del Golfo, prosegue l’articolo, nessuno dei quali può più considerarsi al sicuro e protetto in forza della propria relazione con gli Stati Uniti. Molto criticata è la risposta di Washington al raid dello Stato ebraico, «più simile alla gestione di una crisi che alla protezione di un alleato, lasciando la pericolosa impressione che gli impegni legati alla sicurezza non siano più una garanzia assoluta e che gli Stati Uniti stiano soppesando le loro diverse priorità strategiche anziché offrire un ombrello di protezione incondizionato». Gli eventi, spiega Koteich, spingono gli Stati del Golfo a prendere in considerazione «accordi di sicurezza alternativi o paralleli, sia attraverso il riavvicinamento ad altre potenze globali come la Cina o la Russia, sia attraverso il rafforzamento delle proprie capacità». È vero però che una corsa agli armamenti difensivi finirebbe per complicare le relazioni tra gli Stati del Golfo e i Paesi limitrofi. Nella difficoltà c’è un aspetto positivo: questi sviluppi possono essere un’opportunità per «ridurre le divisioni tra le capitali del Golfo», conclude il giornalista.

L’attacco al Qatar «rappresenta un momento spartiacque che potrebbe rimodellare radicalmente la struttura geopolitica del Medio Oriente», commenta Hisham Qarawi sulla testata filo-emiratina al-‘Arab. Quella che sembrava un’operazione militare tattica contro i leader palestinesi «si è trasformata in un errore di calcolo strategico di proporzioni storiche, mettendo a nudo la fiducia eccessiva di Israele e il declino della credibilità delle garanzie di sicurezza americane nella regione». Il vertice di emergenza convocato da Doha il 15 settembre è la dimostrazione che Netanyahu e Trump avevano sottovalutato l’influenza diplomatica del Qatar e la preoccupazione che le loro azioni avrebbero generato nel mondo islamico. Questo errore di valutazione potrebbe avere delle conseguenze non previste. «L’operazione non è riuscita a eliminare i principali leader di Hamas, ma ha minato alla base la diplomazia regionale mediata dagli Stati Uniti stessi». La conseguenza più profonda dell’attacco di Doha è pertanto «l’erosione della credibilità degli Stati Uniti come partner affidabile per la sicurezza», come dimostra l’impotenza di Washington, che non riesce a controllare il suo principale alleato in Medio Oriente. Secondo Qarawi, questa perdita di credibilità sta spingendo gli Stati del Golfo a riconsiderare in maniera radicale i propri partenariati di sicurezza. In questo contesto, stanno emergendo ipotesi di una cooperazione più stretta con Cina, Russia e Turchia, in alternativa alla dipendenza esclusiva dalla protezione americana. La “Belt and Road Initiative” di Pechino e le «partnership strategiche globali» già avviate con l’Arabia Saudita e gli Emirati offrono la base per un coinvolgimento più ampio della Cina nelle dinamiche regionali, spiega l’articolo.

Su al-Jazeera il giornalista palestinese Saed Elhaj vede il bicchiere mezzo pieno e paragona Netanyahu a Napoleone e Hitler, ricordando come «il loro errore più grande fu l’eccessiva fiducia nella forza dei loro eserciti e nella loro schiacciante superiorità sugli avversari, ciò che li spinse ad aprire molti più fronti di quanti potessero controllare stabilmente: l’apice della loro espansione fu l’inizio del declino». Da qui la lezione della storia: l’arroganza di Netanyahu potrebbe trasformarsi in una battuta d’arresto, facendo dell’apice della gloria l’inizio del suo declino. Secondo Elhaj, l’approccio israeliano nella regione ha perso ogni coerenza logica, politica e strategica, e il vertice d’emergenza convocato dal Qatar nei giorni scorsi potrebbe essere «l’occasione per frenare Israele».

Se il sito dell’emittente simbolo del Qatar non può che mostrarsi strategicamente ottimista, lo stesso non si può dire per la stampa di altri Paesi. Su al-Akhbar, testata libanese filo-Hezbollah, Jalal Fayrooz (ex membro del parlamento del Bahrein) scrive che il vertice di Doha «è l’ennesima ripetizione di una delle scene più opprimenti per la coscienza araba e islamica: vertici di emergenza che lanciano slogan e traboccano di dichiarazioni, che poi evaporano rapidamente nel clima aspro della politica internazionale». L’attacco israeliano a Doha «non si è tradotto in decisioni commisurate all’entità della minaccia, ma è rimasto confinato alla sfera della condanna costruttiva, diventata merce stagnante nei mercati diplomatici arabi», prosegue tagliente Fayrooz. «Più che un piano politico globale, il vertice è stato una dimostrazione morale», ma tutti i vertici precedenti insegnano che «le condanne da sole non abbattono gli aerei e non proteggono un bambino sotto le macerie». Il vertice, prosegue l’articolo, ha lasciato scontente le piazze arabo-islamiche, che si aspettavano misure concrete – il congelamento della normalizzazione, un boicottaggio economico o il richiamo degli ambasciatori – mentre sembra che i governi arabi non abbiano la volontà politica di sacrificare i propri interessi con Washington e Tel Aviv. «In buona sostanza, il vertice di Doha non è altro che il riflesso di ciò di cui soffriamo da decenni: un divario tra gli slogan e le decisioni, tra le ambizioni e la capacità di attuarle. La gente voleva “passi della stessa portata della tragedia”, ma ha ricevuto una “dichiarazione sulla carta”. In questo enorme divario sta la tragedia dell’attuale politica araba».

L’attacco a Doha e il successivo vertice di emergenza hanno suscitato anche diverse riflessioni sugli effetti e il destino degli Accordi di Abramo. Su al-Quds al-‘Arabi, il giornalista palestinese Abdelhamid Siyam ne traccia un bilancio a cinque anni dalla loro firma e a due anni dal 7 ottobre. Basandosi su un rapporto della Heritage Foundation, think tank americano vicino ai Repubblicani, che analizza gli scambi nei settori del commercio, del turismo, della difesa e della sicurezza, l’autore sostiene che i governi firmatari, pur avendo denunciato e condannato le azioni israeliane in questi anni, in realtà «non sono rimasti neutrali, ma si sono schierati con l’entità [Israele, NdT] e hanno continuato a incoraggiarla nei suoi crimini con il pretesto di sconfiggere Hamas». Secondo il giornalista, gli accordi hanno disgregato l’unità araba e fallito il loro obiettivo dichiarato, ovvero promuovere la pace, fermare l’annessione della Cisgiordania e raggiungere una soluzione a due Stati. Una dinamica che richiama la stessa logica degli Accordi di Camp David del 1979: anche allora, ricorda l’articolo, i risultati dell’accordo furono l’annuncio da parte israeliana dell’annessione ufficiale di Gerusalemme e del Golan, la distruzione del reattore nucleare iracheno nel 1981, la guerra in Libano nel 1982 e i massacri di Sabra e Shatila.

Su al-‘Arab Hisham Qarawi scrive che l’attacco a Doha ha complicato gli sforzi per estendere gli Accordi di Abramo. Il fatto stesso che i leader degli Emirati, del Bahrein e del Marocco non abbiano partecipato in prima persona al vertice di Doha, ma abbiano inviato loro rappresentanti, rivela l’imbarazzo in cui si trovano questi Paesi. Le dichiarazioni del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi secondo cui «le azioni israeliane minacciano gli accordi di pace esistenti» preannunciano il potenziale collasso di decenni di diplomazia, prosegue Qarawi. In conclusione, scrive il giornalista, la decisione di Netanyahu e Trump di attaccare il Qatar «finisce per accelerare la transizione verso un Medio Oriente multipolare». Sottovalutando la capacità del Qatar di mobilitare la solidarietà regionale, i due alleati hanno inconsapevolmente creato le condizioni favorevoli all’emergere di centri di potere alternativi.

Secondo lo scrittore libanese George Kadi, penna di al-Arabi al-Jadid, gli arabi hanno tutto da perdere dalla normalizzazione dei rapporti con Israele. Dietro la retorica della cooperazione economica e politica, Israele mirerebbe in realtà a sfruttare e dominare le risorse arabe. Kadi evidenzia vari pericoli, tra cui l’indebolimento del ruolo arabo e la perdita di una leva di pressione a favore della causa palestinese, la penetrazione israeliana nei settori chiave (energia, acqua, agricoltura, cyber-sicurezza) con il conseguente rischio di trasformare i Paesi del Golfo in meri consumatori di tecnologia straniera, l’erosione dell’unità nazionale dei singoli Stati arabi con il rischio di conflitti interni, e la possibilità che Israele utilizzi il territorio del Golfo come base per scontri diretti con l’Iran.

 

La prova muscolare di un Israele sempre più isolato [a cura di Mauro Primavera]

L’ennesima escalation di violenza nella Striscia, provocata dall’ultima operazione dell’esercito israeliano a Gaza, ha suscitato una nuova ondata di pessimismo nella stampa araba che, pur con accenti diversi, riserva ferme parole di condanna al premier Benyamin Netanyahu. Sotto accusa sono soprattutto le dichiarazioni di quest’ultimo, che ha annunciato, con un tono a metà tra sfida e minaccia, l’intenzione di fare di Israele una «super Sparta».

Le critiche più veementi provengono dall’area filo-qatariota. Su al-Quds al-‘Arabi, il politico israelo-palestinese Jamal Zahalka, deputato alla Knesset tra il 2005 e il 2019, commenta con pungente ironia: «è raro sorprendere Netanyahu mentre dice la verità […]. La scelta di Sparta come concetto e modello lascia intendere che la guerra durerà ancora per molti anni, durante i quali lo Stato sionista “sarà costretto” a essere una caserma piena di armi». Tuttavia, ricorda Zahalka, il paragone con la bellicosa città dell’antica Grecia non è affatto nuovo: «lo aveva già fatto Mussolini, che considerava il militarismo e lo spirito comunitario spartano fonte di ispirazione per il fascismo italiano», seguito dai «leader sionisti», come il socialista Berl Katznelson e Menachem Begin; quest’ultimo in particolare aveva definito Israele come «una piccola Sparta che combatte accerchiata dai nemici». Netanyahu ha sostituito “piccolo” con “super”, rendendo il messaggio ancora più intimidatorio: il Medio Oriente deve riconoscere la natura di «“Isra-Sparta” e del suo diritto a devastare, attaccare, distruggere, sterminare senza che nessuno le addossi responsabilità. Ma Netanyahu – chiosa l’autore – dimentica che anche la stessa Sparta ha cessato di esistere, e che nemmeno la sua potenza militare l’ha protetta dal declino e dalla rovina». Il giornalista yemenita Muhammad Jamih analizza un’altra espressione utilizzata di recente da “Bibi”: il concetto del “Grande Israele”, termine proprio del sionismo revisionista del XX secolo connotato da diverse sfumature e accezioni: «per qualcuno comprende i confini della Palestina storica, per altri rappresenta il territorio dell’Israele della Torah e della terra Promessa», un territorio che comprende anche porzioni del Sinai, della Giordania e persino dell’Iraq. Quale che sia l’idea di Netanyahu, il suo piano ricalca quello di Vladimir Jabotinskij, leader della destra sionista: «portare i palestinesi alla disperazione», costringendoli ad abbandonare Gaza una volta per tutte. Ma queste convinzioni, aggiunge al-‘Arabi al-Jadid, vengono rafforzate e alimentate dal grande alleato dello Stato ebraico: «dal punto di vista storico, il sostegno americano a Israele non è dovuto solo a una serie di interessi reciproci, ma anche alla cultura americana» che affonda le sue radici nel puritanesimo e nel calvinismo, secondo cui Israele sarebbe «fonte di una nazione eletta». 

Rassegnazione e sdegno caratterizzano i commenti comparsi sul quotidiano di proprietà saudita Al-Sharq al-Awsat, fino a poco tempo fa quasi più critico verso Hamas che verso lo Stato ebraico. Zaid bin Kami, vicedirettore del canale “Al Arabiya” scrive: «Non ci si domanda più che cosa vogliono da questa guerra Israele o gli israeliani, ma piuttosto: che cosa vuole Netanyahu?» La risposta è fornita alla fine dell’articolo: «una guerra genocidaria condotta secondo la mentalità di un uomo che cerca una personale via d’uscita alle sue crisi, non al futuro del suo popolo. Una guerra che sostituisce l’assassinio con il negoziato e i proiettili con la diplomazia». Ma è su proprio questo punto che insiste il giornalista saudita Mishary Dhayidi: in realtà «qualcosa che si può fare contro Israele c’è […]. Certamente, gli israeliani sono forti a livello militare e di intelligence, attualmente non hanno paragoni con nessun altro Stato mediorientale», ma loro debolezza risiede in un altro ambito, quello dell’immagine: «se l’Israele di Netanyahu perdesse la sua battaglia morale ed etica nel mondo, ciò rappresenterebbe una grave perdita per lui e un gran colpo per gli arabi e i musulmani che vivono in Occidente». L’accademica libanese Susan al-Abtah rileva la totale inazione dell’opinione pubblica israeliana, la cui «cecità ha raggiunto un livello tale da farla richiudere sempre più su sé stessa, incapace di comprendere perché il mondo la stia attaccando», anzi, essa ritiene che «l’unica risposta a questa situazione sia accusare gli altri di antisemitismo». E di fronte a questa “malattia”, non si può far altro che avvalersi della «forza, del boicottaggio e delle sanzioni».

Più variegati i commenti del quotidiano di area filo-emiratina al-‘Arab che aggiunge come Israele «non solo ha perso il sostegno delle nazioni, ma ha iniziato a perdere anche la sua legittimità di Stato». Un altro articolo, pur condannando la condotta criminale di Netanyahu, si appella al popolo israeliano affinché si mobiliti per la cessazione delle ostilità e del genocidio. Inoltre, il pezzo muove critiche a diversi Paesi arabi: «è profondamente frustrante che i Paesi arabi, in particolare quelli che intrattengono relazioni pacifiche con Israele – Giordania, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco – non abbiano adottato finora alcuna misura decisa contro Israele per esprimere la loro indignazione per la catastrofe che ha colpito i palestinesi». Un altro ancora, invece, sposta il focus sulla condotta altrettanto criminale di Hamas. Il movimento «diviso tra le alleanze regionali a Teheran, Doha e Ankara, e il legame ideologico con il credo della Fratellanza Musulmana» ha accentuato la competizione delle sue correnti interne. Quel che resta di Hamas deve essere in grado di prendere la decisione di arrendersi adesso, ed è questo il dilemma: c’è un leader all’interno di Hamas che sia capace di fermare la guerra e di prendere la decisione di consegnare gli ostaggi e le armi, annunciando la fine del controllo sulla Striscia?».