Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 17/10/2025 16:14:15
Raggiunta l’intesa tra Hamas e Israele e celebrato l’accordo dal presidente statunitense Donald Trump – prima al vertice di Sharm el-Sheikh, poi alla Knesset di Gerusalemme – l’intera stampa araba si interroga, con molto scetticismo, sulle numerose incognite del dopoguerra e sulla fase di ricostruzione della Striscia di Gaza.
Molto critico il fronte filo-qatariota. Al Jazeera riconosce i meriti di Trump, ma ricorda come sia stato lo stesso presidente americano a creare le premesse del conflitto promuovendo l’“Accordo del Secolo” «il cui obiettivo consisteva nel liquidare la causa palestinese, riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e sostenere la sovranità israeliana sulle alture occupate del Golan siriano». Come allora, così anche oggi Trump starebbe commettendo lo stesso errore: «ritenere di essere in grado di introdurre un cambiamento radicale nella regione senza fare i conti con il nocciolo del conflitto israelo-palestinese, ossia la creazione dello Stato palestinese». Sul quotidiano al-‘Arabi al-Jadid, Hani al-Masri, direttore del centro di studi politici palestinese Masarat, traccia un bilancio di due anni di guerra e analizza i termini dell’accordo, che giudica inconcludente: «né i palestinesi né Israele hanno conseguito una vittoria decisiva». Nonostante Netanyahu rivendichi il successo, le azioni delle Forze di Difesa Israeliane hanno suscitato la riprovazione dell’opinione pubblica occidentale e la condanna unanime della comunità internazionale: «in un contesto simile, le crisi interne israeliane si sono aggravate. La guerra stessa è stata estenuante, perché ha fatto patire a Israele gravi perdite umane, economiche e morali. Il governo ha fallito nel raggiungere una vittoria netta e decisiva, subendo addirittura la rabbia della piazza e delle famiglie degli ostaggi e le aspre divergenze tra politici e militari, tra esecutivo e opposizione», senza contare che Hamas non è stata (ancora) smantellata. Tuttavia, anche la «resistenza» palestinese si trova di fronte a un bivio: «non è stata sconfitta, ma non ha realizzato i suoi obiettivi. È sopravvissuta e ha tenuto fede ai suoi impegni, ma non ha ottenuto la cessazione delle ostilità in maniera duratura e sicura: nessun ritiro completo di Israele, nessuna fine dell’assedio, nessuna trasparenza sulle detenzioni, nessuna liberazione dei territori occupati, nessuna protezione dei luoghi sacri e nessuno stop agli insediamenti». Severo anche il giudizio di al-Quds al-‘Arabi, che titola “il pollice all’insù di Trump non basta”: «il presidente americano ha costretto Netanyahu ad allinearsi alla retorica americana sulla fine della guerra a Gaza, anche se l’esperienza passata dimostra che le promesse fatte dal primo ministro israeliano non hanno mai avuto un riscontro nel suo modo d’agire, soprattutto perché la sua scelta strategica più importante è stata quella di prolungare la guerra di sterminio in modo da servire i suoi interessi personali ed evitare le accuse di corruzione».
Preoccupazione anche da parte della stampa saudita e filo-emiratina. Su al-Sharq al-Awsat, lo scrittore saudita Mishary Dhayidi titola il suo pezzo “Un grande giorno, ma…”. Anche se la storicità del vertice di Sharm el-Sheikh è innegabile, per terminare la questione palestinese serve una vera soluzione: «il percorso a lungo termine e duraturo […] rimane la costruzione di una situazione politica allo stesso tempo vecchia e nuova della questione palestinese. Mi riferisco alla costruzione di uno Stato che garantisca la permanenza del popolo palestinese, o di quello che ne rimane, all’interno dei confini del 1967». Dello stesso avviso anche l’intellettuale e accademico libanese Ridwan al-Sayyid: «tutte le parti ad eccezione degli israeliani ritengono che la soluzione a due Stati sia l’unica via d’uscita dal proseguimento delle violenze e della guerra […]. Ma questa soluzione richiede negoziati su questioni che erano complicate già ai tempi degli Accordi di Oslo». Zayd bin Kami, vicedirettore di Al Arabiya e in precedenza di al-Sharq al-Awsat, solleva un’altra questione cruciale: «la domanda non verte tanto sui venti punti di Trump. La domanda principale, piuttosto, è: chi ricostruirà e ripopolerà Gaza, e dove saranno scaricate le migliaia di tonnellate di cemento, macerie e detriti? È facile fare promesse, sciorinare l’elenco dei donatori e organizzare conferenze dal titolo “ricostruzione”, ma finché non verranno poste solide fondamenta politiche impegnandosi seriamente, tutti quei miliardi saranno come acqua versata sulla sabbia, perché la ricostruzione di Gaza ha innanzitutto bisogno di un’attenzione politica che, ancora prima della soluzione finanziaria, risolva le cause profonde della crisi, ossia l’occupazione [israeliana], la divisione [intra-palestinese] e l’assenza del concetto di Stato». Il quotidiano panarabo di orientamento filo-emiratino Al-‘Arab critica apertamente la strategia militare dello Stato ebraico: «Negli ultimi due anni Israele ha dimostrato tutta la sua forza militare annientando Hamas a Gaza, indebolendo Hezbollah in Libano e infliggendo duri colpi all'Iran e agli Houthi nel nord dello Yemen. Ma non ha creato pace né tantomeno stabilità. L’eccesso di potere di cui dispone oggi è come l’acqua di mare: più se ne beve, più si ha sete. Ogni guerra vinta spiana la strada per un altro conflitto, ogni successo militare si trasforma in un peso politico e morale. Israele è uno Stato forte ma paranoico, potente ma insicuro […]. Il problema non riguarda la sua capacità di vincere, ma l’incapacità di smettere di vincere, perché è proprio quest’ultima che gli causa la fobia della sconfitta».