Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 10:59:08

Adesso c’è la conferma: nel corso della seduta straordinaria tenutasi al Cairo lo scorso 7 maggio, la Lega Araba ha riammesso la Siria dopo 11 anni di sospensione, invitando ufficialmente il presidente Bashar al-Assad a presenziare il vertice di Riyad previsto per il 16 maggio.

 

Come abbiamo documentato nelle precedenti rassegne, il Qatar ha accettato la mozione saudita di riammissione obtorto collo, come si evince dall’indignazione presente negli editoriali della stampa nazionale e dei giornali panarabi vicini a Doha. Al-Watan scrive a chiare lettere sulla prima pagina dell’8 maggio che «la posizione del Qatar sulla normalizzazione siriana non è cambiata», e a conferma di ciò riporta la dichiarazione di Majid bin Muhammad al-Ansari, ministro degli affari esteri e consigliere del primo ministro: «il Qatar cerca sempre di appoggiare ciò che delibera il consiglio arabo e non ostacolerà questo processo, ma la posizione ufficiale del Paese sulla normalizzazione del regime siriano è una decisione legata innanzitutto alla necessità di trovare soluzione politica, al fine di realizzare le aspirazioni del fraterno popolo siriano […] la speranza del Qatar è che questo consenso arabo sia un incentivo per il regime a risolvere le radici della crisi che lo hanno portato ad essere sospeso dalla Lega». L’articolo riporta inoltre le dichiarazioni della delegazione qatariota presente alla riunione del 7 maggio, presieduta dal ministro di Stato Muhammad bin Salih al-Khalifi. Un testo volutamente ambiguo che, se da una parte rispetta la «sovranità dello stato siriano e la sua integrità territoriale», dall’altra considera ancora valida la risoluzione delle Nazioni Unite n. 2254 del 2015 che auspica(va) le dimissioni di Assad, la creazione di un governo di transizione e l’avvio di un negoziato diplomatico gestito interamente dai siriani.

 

Al-‘Arabi al-Jadid continua la serie di articoli al vetriolo, anche se, ora che la decisione è presa, se la prende un po’ con tutti gli attori coinvolti. Il primo è ovviamente il regime di Assad, di cui il giornalista marocchino Ali Anouzla ricorda le numerose atrocità e stragi. Subito dopo viene la Lega Araba che, oltre al danno di immagine, ha approvato una decisione insensata: «il ritorno della Siria nella defunta Lega Araba non ha alcun significato, perché la sua presenza o la sua assenza nell’organizzazione non cambierà niente», anzi «quello che sta succedendo è una inaccettabile ripulitura di un regime criminale che ha ucciso la sua gente o l’ha cacciata […], ancora peggio, è il ripristino del vecchio status quo arabo che tenta di medicare le proprie ferite e di sbiancare i registri dei crimini di cui si è macchiato […] è l’annuncio ufficiale della chiusura dell’ultima porta della prima ondata della “Primavera Araba”». Anche Samira al-Musalima, giornalista siriana e vicepresidente della coalizione nazionale delle forze rivoluzionarie e dell’opposizione siriana, si unisce all’invettiva contro la Lega, rea di aver incoraggiato e favorito il reintegro di Damasco. Facendo riferimento al titolo del suo articolo (“Il ritorno del regime siriano nel sistema arabo e viceversa”), la giornalista si chiede: «chi è tornato da chi? La realtà è che il regime siriano non ha chiesto questa riammissione, né ha lavorato per essa, né si è mosso dalla sua posizione, né ha offerto, né offrirà, niente di quanto le dichiarazioni arabe auspicavano; nel senso che è stato il sistema arabo, attraverso la sua organizzazione della Lega degli Stati Arabi, a tornare verso il regime siriano, o a normalizzare con esso  […] Quello che è successo è un passo contrario e opposto a quelli fatti dagli Stati sensibili al rispetto dei diritti umani e delle libertà dei loro cittadini». Si tratta quindi di un vero e proprio «scandalo», un «ritorno che equivale a un calcolo politico», il tutto mentre la questione dei migranti e del traffico illegale di captagon restano questioni ancora prive di soluzione.

 

La critica di al-‘Arabi non si ferma qui, ma colpisce con forza anche la stessa opposizione siriana, come emerge in un articolo dello scrittore e traduttore siriano Malik Unus, pubblicato il 9 maggio: «uno dei problemi dell’opposizione è quello di fare politica con gli strumenti del regime a cui si opponeva e di essersi posto come alternativa senza offrire una proposta definita e allettante». Incapace di ascoltare le richieste della popolazione e di adattarsi ai cambiamenti geopolitici, «dopo dodici anni di politiche autoritarie fallimentari è emerso in maniera evidente il fatto che questa opposizione ha adottato il principio della continuità e dell’eternità da cui nascono i regimi della nostra regione e di altre. Di conseguenza, essa non si è accorta che la mancanza di un cambio di immagine o di linguaggio è proprio uno dei sintomi patologici di tali regimi […] Ma se questi ultimi erano in grado di sopperire a tali mancanze o di superarle grazie agli strumenti del potere in loro possesso, l’opposizione invece ne ha sofferto grandemente ed è stata colpita dalla paralisi prima che sopraggiungesse la morte clinica, da cui si riteneva esente». Il filo-islamista ‘Arabi 21 contesta i tweet del politologo emiratino Abdul Khaleq Abdulla, secondo cui l’ingresso della Siria avrà come conseguenza il ritiro delle milizie iraniane dal Paese e la cessione delle loro postazioni all’esercito regolare; in realtà, precisa il sito, non c’è ancora nessun accordo inter-arabo che affronti la questione delle milizie straniere. Il sito al-Majalla, invece, esce con uno “scoop”, pubblicando in esclusiva le carte segrete dell’iniziativa giordana del “passo dopo passo” (ne avevamo parlato qui), un approccio gradualista che prevede offerte e richieste che Damasco e Amman avrebbero dovuto avanzare reciprocamente, al fine di raggiungere un’intesa sulle questioni più importanti, dal transito dei migranti a quello degli aiuti umanitari.      

 

Soddisfazione, come prevedibile, per il variegato fronte pro-Assad. Paradossalmente, la reazione più prudente e contenuta proviene dal giornale del partito siriano Ba‘th, che all’indomani del vertice del Cairo titola in apertura, ma senza eccessivi trionfalismi: «La Siria accoglie con interesse la decisione e assicura che la fase successiva richiederà un piano arabo efficace basato su due livelli: bilaterale e collegiale». Una considerazione più ideologica del partito “panarabo” compare nell’editoriale di spalla dell’edizione del 10 maggio, dove si riprende uno slogan molto caro all’establishment siriano: il rientro nella Lega è una «“correzione della storia” [lo aveva usato Assad nel 2016 quando l’esercito governativo riprese Aleppo e poi di nuovo nel febbraio 2022 per giustificare l’invasione russa dell’Ucraina] e della civiltà araba, mentre quel che rimarrà della carcassa della cosiddetta “Primavera Araba” sarà, nel breve termine, lo scheletro e poco altro». Il filoiraniano al-Mayadeen traccia un profilo storico della Lega, pronunciando giudizi alla luce delle esigenze geopolitiche e ideologiche del presente. Infatti, l’organizzazione fondata nel marzo del 1945 ha affrontato tre punti di svolta critici. Il primo concerne la guerra dello Yom Kippur del 1973, che aprì al dialogo tra Israele e l’Egitto del presidente Sadat, che «mal ragionava». Il secondo riguarda le scellerate politiche di Saddam Hussein contro il Kuwait e l’Iran, «le cui ripercussioni hanno portato alla distruzione dello stesso Iraq». Il terzo ha a che vedere, manco a farlo apposta, con le “Primavere Arabe”: «sebbene queste rivoluzioni intendessero instaurare sistemi più democratici, egualitari e meno autoritari […] hanno invece generato guerre civili e conflitti settari e tribali». La sensazione, per al-Mayadeen, è che ora si stia entrando in una “quarta fase”, di cui l’Arabia Saudita è il principale artefice. Questa visione ottimista, tuttavia, non deve trarre in inganno, perché Stati Uniti, Israele e i loro alleati non sono soddisfatti dei recenti sviluppi ed è quindi «probabile che faranno ogni cosa in loro potere per far fallire questo processo». L’emiratino al-Ittihad celebra l’avvenimento con un approfondimento nell’edizione dell’8 maggio, in cui la decisione viene presentata come un rimedio per porre fine alle sofferenze della popolazione siriana e per rafforzare la cooperazione con Damasco. Il commento a pagina 22 offre un giudizio sintetico di come si è arrivati a questo risultato: «gli Emirati lavorano da tempo al rientro della Siria, mentre l’Arabia Saudita ha compiuto un enorme sforzo strategico che comprende l’accordo inter-arabo, mentre il terremoto che ha colpito il Paese pochi mesi fa è stato un momento umanitario che ha intensificato gli sforzi e avvicinato i punti di vista […] in questa fase storica, il rientro del paese rappresenta nonostante tutto la migliore delle decisioni. La politica non si basa su speranze, sentimenti e affetti, per quanto essi siano buoni e nobili. Nei momenti di riequilibrio, di cambiamenti e di grandi sviluppi bisogna ricostruire tutto da capo avendo la capacità di superarsi: se non ci fosse stato questo superamento, allora l’Europa non avrebbe potuto riprendersi dalle sue tremende guerre e oggi non avrebbe costruito il suo splendido futuro».     

 

Nabil Amr, scrittore ed ex ministro dell’informazione dell’Autorità Nazionale palestinese, scrive su al-Sharq al-Awsat come la Siria avesse bisogno di questo reintegro, per il semplice fatto che, avendo la possibilità di sedere ai tavoli internazionali, potrà decidere il suo avvenire e lasciarsi alle spalle un passato doloroso. Al-‘Arab è più sfumato nel giudizio, come si evince dal titolo: «Non c’è perdita nel ritorno della Siria, ma nemmeno un guadagno!». Il rientro di Damasco è di per sé considerato un atto necessario, ma le buone notizie si fermano qui, come dimostra la provocatoria serie di domande retoriche: «come si procede con le cinque occupazioni presenti sul suolo di questo Paese? Il regime è in grado di ammettere che è difeso da due invasori, Russia e Iran? Chi si preparerà a ricostruire la Siria, avendo bisogno di decine di miliardi di dollari?». Alla luce di tutto ciò, «prima o poi verrà il momento in cui risulterà chiaro come il rientro del regime nella Lega costituisca un evento marginale, niente di più, se confrontato alle sfide che il progetto espansionista iraniano costituisce per tutti!».  


    

Vincitori e vinti nell’era di Erdoğan [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Domenica la Turchia andrà al voto. In questi vent’anni di governo dell’AKP alcune parti della società hanno tratto vantaggio dalle sue politiche, altre sono state svantaggiate. Il quotidiano panarabo londinese al-‘Arab ha fatto il punto sui vincitori e sui vinti nell’era di Erdoğan. Nel primo gruppo al-‘Arab ha collocato il Diyanet (Dipartimento per gli Affari religiosi), «diventato una potente forza sociale» con un proprio canale televisivo che svolge un ruolo importante nel dibattito politico, e con risorse la cui entità si avvicina a quelle di un ministero di medie dimensioni. «Le ampie prerogative di cui gode lo hanno reso un bersaglio degli oppositori laici del presidente, i quali lamentano l’aumento del numero delle moschee, dei corsi di memorizzazione del Corano e dell’influenza delle confraternite religiose». Tra i vincitori sono poi annoverati i musulmani conservatori, di cui Erdoğan ha difeso i diritti – alle donne è stato consentito indossare il velo, prima vietato, nelle università, negli uffici pubblici, nelle forze dell’ordine e in parlamento –, in quella che l’editorialista ha definito «una battaglia personale del presidente» condotta per consentire alle sue due figlie iscritte all’università di indossare il velo. Infine, hanno beneficiato delle politiche del leader turco gli imprenditori edili: «Erdoğan ha dato un impulso ai mega progetti (il Canale di Istanbul, per esempio, progettato per raddoppiare le dimensioni del Bosforo ma che non ha mai visto la luce) e al settore immobiliare, ciò che ha cambiato radicalmente l’immagine di una città come Istanbul, riempitasi improvvisamente di grattacieli». Tra i perdenti, invece, al-‘Arab ha annoverato i media turchi, controllati per il 90% dal governo; l’esercito, che dal 2016 ha perso gradualmente influenza sulla scena politica dopo che centinaia di soldati e decine di ufficiali sono stati arrestati con l’accusa di aver partecipato al tentativo di colpo di Stato; i curdi (la cui comunità comprende 15-20 milioni di persone) a partire dal biennio 2015/2016, quando sono stati messi sempre più sotto pressione e decine dei loro leader imprigionati.

 

Lo stesso quotidiano ha posto la questione se Erdoğan, «figlio di un capitano di mare», riuscirà a superare indenne la tempesta politica ed economica in cui naviga ormai da diverso tempo. Già ritenuto responsabile della grave crisi economica di cui soffre la Turchia – il PIL del Paese è sceso al livello dei primi cinque anni del suo governo e il tasso di inflazione lo scorso anno ha superato l’85% – la sua posizione è stata ulteriormente aggravata dal terremoto che a febbraio ha devastato il sud del Paese. I sondaggi mostrano che la concorrenza è forte, tant’è vero che «i detrattori [di Erdoğan] hanno paragonato le condizioni attuali a quelle che nel 2002 portarono al potere il partito Giustizia e Sviluppo, di matrice islamista, in elezioni anch’esse segnate da un’inflazione alta e turbolenze economiche». Il quotidiano non azzarda però alcuna previsione sull’esito delle elezioni.

 

Ma quali sono i desiderata dei Paesi arabi rispetto alle elezioni turche? Li ha analizzati Oraib al-Rantawi, direttore del Centro di Studi politici al-Quds di Amman, per al-Mayadin – quotidiano panarabo (e filo-iraniano) con sede in Libano. «A pochi giorni dalle “elezioni del secolo” in Turchia, le capitali arabe non sembrano particolarmente preoccupate. Se queste elezioni si fossero svolte prima delle “grandi manovre” della politica estera turca degli ultimi due anni, il livello di allerta e di “apnea” sarebbe stato il tratto dominante delle posizioni di queste capitali... Ma i tempi sono cambiati; l’acerrimo nemico di ieri è oggi un caro amico o un “potenziale alleato”» – ha commentato al-Rantawi. Il Medio Oriente è diviso tra chi «vuole vedere Erdoğan uscire dal palazzo bianco di Ankara», come la Siria, e chi invece sarebbe soddisfatto se le urne dovessero riconfermarlo. Tra questi ultimi i Paesi del Golfo che, abbandonate le guerre per procura con la Turchia, oggi sembrano più prossimi a Erdoğan che ai suoi oppositori. Se non fosse così, ha spiegato al-Rantawi, Riyad non avrebbe versato 5 miliardi di dollari alla Banca centrale turca per rafforzare la posizione della lira a qualche mese dalle elezioni, e gli Emirati non avrebbero iniettato nuovi investimenti nell’economia turca. Buone notizie anche dal Cairo, che ha portato a termine la parte più difficile del processo di riconciliazione con Ankara, mentre Amman ha normali relazioni con Ankara, nonostante le divergenze dell’ultimo decennio. Buoni anche i rapporti turchi con Hamas e l’Autorità palestinese, mentre i rapporti con Israele oscillano tra «la normalizzazione e […] la tensione». Al di là delle logiche regionali, il terremoto politico potrebbe arrivare dall’interno, ha concluso l’editorialista: «Se l’opposizione vince dovrà “fare i conti” con una pesante, lunga e vasta eredità “erdoganiana”. Dopo Ataturk, infatti, nessun altro leader o partito ha lasciato un segno così grande sul sistema politico turco, sulla struttura e sugli equilibri della società turca, e sui rapporti di forza tra le varie componenti e istituzioni, come hanno fatto Erdoğan e il suo partito».

 

Nella campagna elettorale turca sono scese in campo anche alcune personalità religiose che, come ha riportato il quotidiano filo-islamista ‘Arabi21, hanno firmato una dichiarazione in cui invitano i turchi a votare per Erdoğan. Della politica dell’AKP «hanno beneficiato i turchi e i musulmani in generale». La Turchia «è diventata un luogo sicuro per tutti coloro che subiscono l’ingiustizia e la persecuzione nel loro Paese, dall’estremo Oriente – gli uiguri e i Rohingya – all’estremo Occidente». Tra i 66 firmatari spiccano i nomi del Segretario generale dell’Unione mondiale degli Ulema di Doha, ‘Ali al-Qaradaghi, del Gran muftì della Libia, Sadiq al-Ghariani, oltre a diverse personalità religiose e intellettuali mauritane, malesi, palestinesi, tunisine…

 

La stampa qatariota ha lanciato una campagna a sostegno di Erdoğan. Al-Sharq ha titolato “La Turchia è responsabilità dei musulmani” un editoriale di Ahmed Kedidi, ex ambasciatore della Tunisia in Qatar, che ha elencato le riforme fatte da Erdoğan nei suoi vent’anni di governo e ha concluso congratulandosi «con tutti i leader musulmani che hanno sostenuto la verità contro la menzogna, la gloria contro la sottomissione. Tra queste persone insigni rientra la leadership del Qatar: sheikh Tamim è stato il primo a chiamare il leader turco la notte del fallito golpe nel luglio 2016».  

 

Il binomio orgoglio/sottomissione è il leitmotiv di un altro articolo apparso sullo stesso quotidiano a firma del politologo turco Mahmud Samir al-Rantisi, che ha criticato la stampa occidentale, accusata di aver lanciato una campagna diffamatoria nei confronti di Erdoğan, veicolando un’immagine negativa del presidente in carica, predicendo un futuro fosco per il Paese qualora il leader dell’AKP dovesse essere riconfermato e invitando a votare il leader dell’opposizione, Kemal Kılıçdaroğlu. Secondo il politologo, il pregiudizio occidentale nei confronti del presidente turco nasce dal «risentimento verso il modello proposto da Erdoğan, che prevede una sorta di chiara indipendenza della Turchia dall’Occidente, diventata tangibile nelle posizioni assunte dal Paese in diversi ambiti, dalla guerra in Iraq nel 2003 alla guerra in Ucraina nel 2022». Gli organi di stampa occidentali vengono inoltre accusati di «concentrarsi unicamente sull’autoritarismo e sull’assenza di democrazia in Turchia», sebbene le previsioni per il voto di domenica prevedano un tasso di partecipazione elettorale del 90%, che è una percentuale molto superiore a qualsiasi Paese europeo.

 

Restando ancora sul tema delle percezioni reciproche, al-Quds al-‘Arabi ha proposto una riflessione di un intellettuale palestinese (che ha voluto rimanere nell’anonimato) sulla percezione araba del «nuovo Medio Oriente [che sta sorgendo] in un mondo nuovo», conteso tra Stati Uniti e Cina. Quale, tra le due superpotenze, è vista più favorevolmente dagli arabi? La risposta è la Cina. «Negli ultimi tre decenni, gli Stati Uniti hanno imposto un ordine mondiale peggiore dei due ordini mondiali che l’hanno preceduto». Il primo, creato dopo la Prima guerra mondiale, ha posto fine all’impero ottomano e diviso i territori a tavolino; il secondo, istituito dopo la Seconda guerra mondiale, «ha consentito alle bande sioniste di dichiarare la costituzione dello “Stato di Israele”». Gli ultimi tre decenni, ha spiegato l’autore, sono stati caratterizzati dal “sistema unipolare”, che ha visto «i sionisti e Israele tra i suoi primi beneficiari, i palestinesi e tutta la umma islamica tra i principali perdenti. La prima grande novità destinata a cambiare i paradigmi su cui si sono fondati i rapporti di forza internazionali nell’ultimo trentennio è il disimpegno americano a cui è corrisposta l’ascesa cinese». L’autore si domanda allora qual è l’essenza della politica americana, anglosassone e, in generale, occidentale, rispetto a quella della politica cinese. L’Occidente è portato a «creare divisioni tra gli Stati e i popoli, tra le religioni e le confessioni, tra le razze e le tribù fabbricando e alimentando le cause dell’inimicizia tra le persone, erigendo barriere e muri tra i popoli e gli Stati ed esacerbando le tensioni lungo tutti i confini, in tutti gli Stati e in tutti i continenti del mondo». L’essenza della politica cinese risiede invece «nella Belt and Road Initiative, nata per far rivivere la via della seta al fine di realizzare il più grande progetto infrastrutturale nella storia umana, collegando tutti gli Stati di tutti i continenti del mondo». Inoltre, si legge, l’obiettivo dell’America è esportare armi e dispositivi di spionaggio, mentre la Cina esporta beni e servizi e «si sforza di costruire ponti per la comprensione, la cooperazione e l’integrazione tra tutti gli Stati». L’editorialista descrive la Cina come animata da buone intenzioni – ha compiuto sforzi per ripristinare le relazioni tra l’Arabia Saudita e l’Iran –, mentre l’America per decenni ha sabotato le relazioni tra i Paesi arabi, e provocato conflitti etnici, religiosi e confessionali.

 

Papa Tawadros incontra papa Francesco [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Ieri al-‘Arab ha aperto con la notizia dell’incontro in Vaticano tra papa Francesco e il papa copto-ortodosso Tawadros. I due papi, che si sono incontrati per la prima volta nel 2013, hanno celebrato la Giornata dell’amicizia tra la Chiesa cattolica e la Chiesa copto-ortodossa e commemorato il cinquantesimo anniversario dello storico incontro dei loro predecessori, papa Paolo VI e papa Shenouda III, avvenuto nel maggio 1973. La cronaca della giornata di mercoledì è stata riportata dai maggiori quotidiani egiziani (al-Masry al-Youm, al-Ahram, al-Youm7), dal quotidiano emiratino al-‘Ayn (a testimonianza dell’attenzione che gli Emirati dedicano, ormai da alcuni anni, al dialogo interreligioso ed ecumenico) e dal libanese al-Nahar, che ha proposto una galleria fotografica e la diretta dell’incontro tra i due papi. Inoltre, per l’occasione, papa Tawadros ha registrato una serie di brevi video, diffusi alcuni giorni prima del viaggio sui social della Chiesa copta ortodossa, in cui ha spiegato il significato del suo viaggio in Vaticano. «L’incontro – ha spiegato – è un incontro d’amore, durante il quale discuteremo con il papa del Vaticano su come le nostre Chiese affrontano i conflitti in corso nel mondo, sulla pace nel mondo e sulle crisi che quest’ultimo sta vivendo, tra cui quella ucraina e quella sudanese» (qui il video). «Le relazioni tra le Chiese sono fondate sulla forma della croce, composta da quattro assi e passi. Il primo passo è stabilire relazioni d’amore in Cristo, dicendo: “L’amore arriva dopo una controversia durata circa quindici secoli, ha bisogno di tempo, credibilità e fiducia”. Il secondo passo è lo studio della storia, della geografia e della dottrina dell’altro; il terzo passo sta nel dialogo, poiché il dialogo avvicina reciprocamente, mentre il quarto passo è la preghiera delle Chiese per raggiungere l’unione della fede e il cuore di Cristo» (qui il video). Nei video Tawadros ha inoltre illustrato brevemente le origini dei rapporti tra la Chiesa copta ortodossa e la Chiesa cattolica, spiegando che essi risalgono al 1959, quando una delegazione di cardinali cattolici presenziò alla cerimonia di ordinazione del papa copto Cirillo VI. A rinsaldare ulteriormente i rapporti tra le due Chiese fu poi papa Paolo VI, che nel 1968 fece restituire alla Chiesa copta una parte delle reliquie di San Marco a seguito della richiesta avanzata da Cirillo VI in occasione delle celebrazioni dei millenovecento anni dal martirio di san Marco (qui il video).

 

È in Tunisia la sinagoga più antica d’Africa [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Mentre i due papi preparavano la visita, in Tunisia martedì sera è andato in scena un attentato alla sinagoga di Ghriba, a Djerba, durante il pellegrinaggio (organizzato il 33esimo giorno della Pasqua ebraica) che raduna ogni anno migliaia di fedeli. Questa sinagoga, che è anche la più antica dell’Africa, era già stata oggetto di un attentato nel 2002. Nell’ultimo attacco, sferrato da un ufficiale della Guardia nazionale, sono morte sei persone. A parte le notizie di cronaca, la stampa araba non ha prodotto commenti particolari sul tema. Il giorno dopo l’attentato, al-‘Arab ha raccontato le origini di questa sinagoga, che deve il suo nome “Ghriba” alla tradizione secondo la quale una strana (in arabo gharība, per l’appunto) donna ebrea della regione giunse sull’isola di Djerba dopo essere miracolosamente scampata a un incendio e lì costruì la sinagoga. Questo luogo di culto è importante per gli ebrei per due ragioni, spiega l’editoriale: al suo interno è conservata la copia più antica della Torah; e si ritiene che l’edificio sia stato costruito con materiali appartenuti al primo tempio di Gerusalemme, portato in nord Africa dagli ebrei emigrati in seguito alla distruzione del tempio nel 586 a.C. Oggi a Djerba vivono circa 1.100 ebrei, mentre prima dell’indipendenza erano 100.000. Due sono le cause di questo drastico calo, ha spiegato l’editorialista: la “legge del ritorno” emanata da Israele, e la decisione presa da Habib Bourguiba nel 1964 di nazionalizzare i terreni agricoli i cui proprietari erano perlopiù ebrei.

 

L’intelligenza artificiale tra speranze e paranoie [a cura di Mauro Primavera]

 

La stampa araba, specialmente quella dei Paesi del Golfo, sta manifestando sempre più interesse nei confronti dell’intelligenza artificiale (AI) e di come questa potrebbe cambiare le società e la regione mediorientale. Cominciamo dal quotidiano qatariota al-Watan, che ha pubblicato nell’edizione dell’8 maggio un lungo articolo sull’efficacia di questi programmi informatici, capaci di ricostruire la personalità di un soggetto servendosi di pochissime informazioni ricavate dai “mi piace” che l’utente medio dissemina su piattaforme come Facebook e Instagram. L’emiratino al-Ittihad si chiede se l’intelligenza artificiale accrescerà l’offerta sul mercato del lavoro; la risposta è affermativa, tanto che grazie alle nuove tecnologie il numero di impiegati, dopo la recente fase dei licenziamenti di massa, è in costante aumento. Ma di fronte al timore, quasi tendente alla fobia, che un giorno le macchine rimpiazzeranno la manodopera umana, l’autore “alza le mani”: «se l’intelligenza artificiale finirà per diventare la forza distruttrice dei posti di lavoro che alcuni temono sarà un passaggio che affronteremo a tempo debito». Al-Sharq al-Awsat affronta il tema già da qualche settimana: il 2 maggio scorso era uscito un primo articolo che si chiedeva se le AI costituissero una minaccia per l’identità culturale e religiosa. Anche in questo caso la situazione viene dipinta come abbastanza rosea: anzitutto le AI eserciteranno un’influenza sulla gente più o meno allo stesso modo di quanto fece a suo tempo internet; inoltre, rappresentano per le nuove generazioni un enorme e utile raccoglitore di dati, rendendo più veloci i processi di acculturazione; soprattutto, permetteranno la nascita di un nuovo tipo di economia dotata di caratteristiche uniche. Il secondo articolo, uscito l’11 maggio, riprende il discorso e lo analizza da un punto di vista filosofico e sociologico. Ne riportiamo solo la chiosa finale: «i cambiamenti tecnologici sono più forti dell’energia umana: c’è chi ritiene che i sermoni pedagogici siano la base, ma la tecnologia ha ormai preso il posto dell’istruzione». Dello stesso avviso anche l’emiratino al-Khaleej che, intervistando esperti in materia, non ritiene possibile, pur ammettendo certi rischi, un sovvertimento nella relazione uomo-macchina. Particolarmente interessante il reportage di Al Jazeera su una recente lectio tenuta dallo shaykh marocchino Mohamed Faouzi al-Karkari presso l’università di Chicago in cui si discute il rapporto tra AI e sufismo. Il nodo della questione verte sulla mancanza di una sensibilità esistenziale nella moderna civiltà occidentale; esiste, infatti, una «somiglianza tra il materialismo occidentale e il modello di produzione consumista che è lontana dai valori morali», e questo influisce sulle modalità di utilizzo dell’intelligenza artificiale. Molto meno ottimista al-‘Arab, che in un articolo a firma del giornalista siriano ‘Ali Qasem afferma con viva preoccupazione: «dire che l’intelligenza artificiale creerà opportunità di lavoro piuttosto che sottrarre impieghi sta diventando dubbia». Anzi, per l’autore la direzione è diametralmente opposta: «c’è una rivoluzione tecnologica che taglierà opportunità di lavoro. Non serviranno più di tre o quattro anni perché le AI rimpiazzino all’80% gli impieghi attuali». Anche al-‘Arabi al-Jadid mostra un certo tecno-scetticismo: tra i pericoli, oltre alla crisi dell’impiego, vi è anche la circolazione di informazioni false e, in teoria, persino la perdita del controllo dell’uomo sulle macchine.   

 

Dalla teoria alla pratica, la stampa araba sperimenta i nuovi software. È il caso, come riporta al-‘Arab, del sito Ilaf (o Elaph), uno dei primi quotidiani arabi indipendenti fondato a Londra nel 2001, che offrirà un’esperienza di giornalismo nuova, arricchita con strumenti d’avanguardia, come «l’applicazione di trasmissione delle notizie virtuale», il «lettore di notizie intelligente» e le «applicazioni di analisi politica». Infine, Muhammad al-Minshawy si diverte a “scrivere” per Al Jazeera un «articolo che non ho scritto io», dove interroga la famosa applicazione “Chat GPT” sulle annose questioni mediorientali. «Questa settimana volevo scrivere sul dilemma dei Paesi arabi tra la competizione americana e quella cinese […] Il risultato nel suo complesso è stato esaustivo e obiettivo, e ha inoltre fornito importanti suggerimenti ai Paesi arabi!», tra cui spiccano: la neutralità tra la competizione sino-americana, la cooperazione internazionale, la difesa della sovranità e dell’interesse nazionale, lo sfruttamento della posizione geografica. «Per concludere – scrive ironicamente al-Manshawy – spero che i governi arabi ascoltino con attenzione il giudizio e la valutazione di una macchina priva di sentimenti o di pregiudizi».

     

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