Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 14/11/2025 15:15:45
Commentata in tutto il mondo, la vittoria di Zohran Mamdani, primo sindaco musulmano di New York, non poteva non suscitare numerose reazioni anche tra i media arabi. Tra questi molti esultano, in particolare i quotidiani di proprietà qatarina, mentre qualcuno mette in guardia da entusiasmi superficiali o denuncia la schizofrenia di chi nel mondo islamico si rallegra per il successo di un musulmano, ma non sarebbe disposto ad avere un sindaco cristiano.
Il trionfo del candidato socialista scrive lo scrittore marocchino ‘Ali Anouzla su al-‘Arabi al-Jadid, riflette «una trasformazione profonda all’interno della società americana». La frustrazione accumulata per le politiche neoliberiste e l’aumento del costo della vita hanno conferito alla retorica della sinistra radicale una risonanza crescente, che Mamdani ha saputo interpretare. Ma, spiega il giornalista, ha giocato un ruolo importante anche l’effetto Gaza: «La guerra genocida a Gaza ha provocato un terremoto morale e politico a livello globale e negli Stati Uniti», rompendo il tabù della critica a Israele. «Criticare Israele non è più un suicidio politico, ma un segnale di coraggio e indipendenza», prosegue l’articolo. La vittoria di un musulmano di sinistra «nella capitale del sionismo globale significa che la paura del sionismo comincia a venir meno, indica l’emergere di una nuova consapevolezza tra i giovani americani, una consapevolezza che vede la giustizia sociale e l’uguaglianza tra i popoli come valori universali, al di là del nazionalismo, della razza e della religione». Zohran Mamdani, conclude Anouzla, «è un figlio politico indiretto di Trump, un figlio che si è ribellato alla logica della paura e dell’odio erigendo la logica dell’uguaglianza e della giustizia».
«Il diluvio di New York», così George Kaadi definisce la vittoria di Mamdani, è diretta conseguenza del «Diluvio di al-Aqsa», l’operazione condotta da Hamas contro Israele il 7 ottobre del 2023. Le statistiche, spiega il giornalista libanese ancora su al-‘Arabi al-Jadid, indicano che il 62% circa degli elettori ha scelto Mamdani motivato dalla sua posizione sulla Palestina, segno che il genocidio di Gaza ha rappresentato un fattore decisivo per la sua vittoria. Tra i giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni, il sostegno al nuovo sindaco ha raggiunto il 75%, mentre il 33% dell’elettorato ebraico della città ha votato a suo favore. La questione israelo-palestinese è sempre stata centrale nella vita di Mamdani e della sua famiglia, spiega Kaadi. Nel 2002, il padre del neo-sindaco – professore di Antropologia e Studi africani alla Columbia University – firmò una petizione per chiedere all’ateneo di disinvestire dalle aziende che vendevano armi a Israele; mentre nel 2013 la madre, la regista Mira Nair, rifiutò un invito a partecipare all’Haifa International Film Festival in segno di protesta contro le violenze israeliane. «Le onde di Gaza hanno raggiunto le coste di New York», conclude Kaadi.
Su al-Quds al-‘Arabi, Marwan Muasher (ex ministro giordano e oggi Vice presidente per gli Studi al Carnegie) osserva a sua volta che la vittoria di Mamdani è il segnale «di un cambiamento dell’opinione pubblica americana nei confronti di Israele». Sostenere Israele in modo incondizionato non è più scontato, soprattutto tra i giovani americani, compresi gli ebrei.
Se molti leggono nel successo di Mamdani una ricaduta della guerra israelo-palestinese, c’è anche ci vi cerca una lezione per il mondo arabo-islamico. Lo fa per esempio dalle colonne di al-‘Arab lo scrittore algerino Hamid Zanaz, da molti anni residente in Francia. «Nei nostri Paesi – scrive Zanaz –, stiamo davanti allo specchio e non osiamo guardare. Ci rallegriamo per la vittoria di un musulmano in Occidente, ma rifiutiamo di essere governati da un cristiano nel nostro Paese. Celebriamo il pluralismo là e lo malediciamo qui. Chiediamo la libertà di espressione da loro e la limitiamo da noi. Ci inebriano le loro considerazioni critiche, ma ci spaventa l’idea dell’autocritica. Critichiamo l’Occidente per le sue contraddizioni, ma le nostre sono ancora più evidenti: chiediamo agli altri di liberarsi per poter rimanere semi-schiavi». La vittoria di Mamdani, conclude lo scrittore, «non è una vittoria per un musulmano o un socialista, ma una vittoria dell’idea che la politica possa tornare alla sua radice filosofica e rivendicare il suo significato di azione a favore dell’umanità, non contro di essa. Forse la lezione più profonda è che la libertà non si conquista attraverso l’appartenenza, ma si difende attraverso la critica; e che l’Occidente, nonostante tutti i suoi difetti, ha ancora il coraggio di confrontarsi con sé stesso, mentre noi continuiamo ad avere paura persino di porci le domande».
Su al-Sharq al-Awsat, il giornalista saudita Hasan Almustafa definisce invece le reazioni arabo-islamiche alla vittoria di Mamdani come prevalentemente «emotive anziché razionali, come se volessero proiettare una parte della realtà araba su ciò che sta accadendo negli Stati Uniti, nonostante i contesti siano molto diversi». Così facendo, gli arabi interpretano l’altro partendo da sé stessi, e questo porta a conclusioni ingannevoli. Almustafa critica chi ha visto nell’evento una vittoria dei musulmani sui loro avversari, o il frutto del “Diluvio di al-Aqsa” o ancora l’inizio della fine delle politiche americane filo-israeliane: «Questa ondata di entusiasmo non origina da una conoscenza accurata del contesto politico americano, ma da un bisogno emotivo di alcuni arabi di trovare dei simboli “compensativi”, che diano un senso di vittoria in un mondo in cui continuano a susseguirsi le delusioni. La vittoria di Zohran Mamdani è stata descritta come un evento che supera i limiti regionali, mentre in sostanza è il prodotto di un processo democratico locale in una città multiculturale come New York, storicamente nota per la sua apertura alla diversità e al rinnovamento sociale ed economico». Le ragioni principali della vittoria di Mamdani, prosegue l’articolo, risiedono nel suo programma elettorale, incentrato sulle preoccupazioni quotidiane dei cittadini: alloggi, trasporti pubblici, costo della vita, giustizia sociale, tasse e assistenza sanitaria. La capacità della società americana di produrre leader provenienti da contesti religiosi ed etnici diversi non implica necessariamente l’adozione da parte dello Stato delle loro posizioni, ma riflette piuttosto la flessibilità del sistema e la sua apertura al pluralismo. Pertanto, conclude il giornalista, «è un errore proiettare le battaglie simboliche della regione mediorientale sulle elezioni locali americane. Collegare la vittoria di Zohran Mamdani al “Diluvio di al-Aqsa”, o descriverla come una vittoria sulla Washington ufficiale, o come uno “schiaffo a Israele”, riflette una lettura molto affrettata».
Ahmed al-Sharaa incontra Trump, ma passando dal retro [a cura di Chiara Pellegrino]
La visita del presidente siriano Ahmed al-Sharaa a Washington, avvenuta lo scorso 10 novembre, divide l’opinione pubblica araba. L’entusiasmo si mescola a diffidenze e interrogativi sul reale significato dell’incontro con Donald Trump. Scrive il giornalista tunisino Ali Qasim su al-‘Arab: «La visita ha un enorme valore simbolico: per la Siria è l’occasione di ridefinirsi come Stato normale anziché come fronte ideologico; per l’America di andare oltre il suo ruolo di avversario funzionale e diventare un partner nella ricostruzione della regione». Questo viaggio segna una rottura con gli schemi tradizionali, trasformando l’immagine del presidente siriano da «terrorista a interlocutore politico». La nuova Siria tenta così di riposizionarsi sullo scacchiere geopolitico, prendendo le distanze sia dall’ideologia islamista estremista che dal nazionalismo baathista. Ma proprio il forte valore simbolico di questo incontro potrebbe essere un’arma a doppio taglio, prosegue l’articolo. Se non si dovessero raggiungere risultati concreti, potrebbero rafforzarsi i sospetti interni di una «dipendenza dall’Occidente», spiega Qasim. Al-Sharaa dovrà convincere i siriani che l’apertura verso Washington non significa sottomissione o neocolonialismo, ma è una reale opportunità di sostegno economico e ricostruzione. Tuttavia, il valore simbolico, da solo, non basta: deve tradursi in una visione strategica incentrata sulla ricostruzione e la lotta al terrorismo. Sul piano interno, al-Sharaa dovrà rafforzare l’unità nazionale e riformare le istituzioni; su quello regionale, tessere alleanze equilibrate; e, a livello internazionale, convincere Washington che investire in Siria è nel suo interesse a lungo termine.
Non tutti però sono entusiasti di questo incontro. «Questa visita incarna il modello di “controllo esterno” che domina la scena politica e sicuritaria in Siria, impedendo l’indipendenza delle decisioni nazionali e rafforzando la divisione e la polarizzazione politica che ostacolano il percorso verso una soluzione politica globale. La visita di al-Sharaa appare quindi come un meccanismo guidato dagli Stati Uniti, che riflette le politiche di controllo del clima politico siriano e plasma soluzioni politiche a servizio degli interessi americani», commenta, cinico, lo scrittore siriano Amjad Ismail Al-Agha sullo stesso quotidiano.
La Siria è entrata nella fase «post-fondamentalista», scrive su al-Sharq al-Awsat il giornalista saudita Youssef al-Dini, ricordando che la sua rimozione dalla lista dei Paesi terroristi è stata possibile anche grazie al sostegno dell’Arabia Saudita. Questa è «un’opportunità storica per ridefinire l’identità nazionale e il pensiero politico in un Paese stremato da guerre e contraddizioni ideologiche», prosegue l’articolo. Tuttavia, un vero cambiamento richiede una revisione intellettuale coraggiosa, che vada oltre i limiti del pragmatismo politico e smantelli la struttura ideologica che ha alimentato divisioni ed estremismo. «La memoria collettiva è contesa dai discorsi della resistenza, della rivoluzione e della sicurezza, mentre il linguaggio politico rimane prigioniero di un retaggio di violenza simbolica e polarizzazione identitaria». Damasco non ha bisogno solo di una riforma istituzionale o della ricostruzione materiale del Paese, ma di un nuovo linguaggio capace di ridefinire concetti come identità, giustizia e appartenenza, trasformandoli in strumenti di coesione anziché di mobilitazione, scrive al-Dini. «La storia siriana moderna mostra infatti che il pericolo maggiore non risiede nelle armi, ma nelle idee che le caricano di significato e sacralità».
Anche Jamal Zahalka, membro arabo della Knesset, su al-Quds al-‘Arabi smorza gli entusiasmi osservando che l’ingresso di al-Sharaa alla Casa Bianca dal lato sud – e non dall’ingresso ufficiale riservato ai capi di Stato – rivela il carattere non pienamente ufficiale della visita e la prudenza con cui è stata gestita. Secondo Zahalka, «il messaggio “della porta sul retro” è chiaro: il presidente siriano deve fare di più per soddisfare le condizioni americane che gli garantirebbero la piena legittimità». Questa modalità di accoglienza potrebbe rientrare nei metodi con cui Trump «sminuisce» i suoi ospiti, come già era accaduto con i presidenti di Ucraina e Sudafrica, messi in imbarazzo davanti alle telecamere, osserva il giornalista. Ma, più verosimilmente, riflette una richiesta israeliana: evitare di concedere al leader siriano un riconoscimento americano pieno finché non avrà risposto alle aspettative politiche e sicuritarie di Israele.
«L’incontro tra Trump e al-Sharaa ha riportato in primo piano il dibattito sul significato di “riconoscimento” e “legittimità” in un mondo in evoluzione», osserva Firas Naasan sulla piattaforma libanese Asasmedia. «La stretta di mano [tra i due presidenti] trasmessa sugli schermi non è stata solo un’immagine fugace, ma un momento politico e il passaggio da una logica di rottura a una logica di simbolismo calcolato. Questo è l’inizio di un nuovo capitolo del linguaggio di Washington nei confronti di Damasco, un capitolo che non è basato né sull’amicizia né sull’ostilità assolute, ma su un pragmatismo “caldo” che antepone l’interesse alla posizione». In politica, come nei media, conclude il giornalista, chi è capace di produrre l’immagine, riscrive la storia.
Il ricercatore palestinese Osama Abu Irshaid teme che la Siria sia entrata in un’era di ricatto strategico, che equivale a una forma di «sottomissione strategica». È comprensibile, scrive, che la Siria abbia bisogno dell’approvazione americana per revocare le sanzioni che stanno paralizzando la sua economia e frenare gli attacchi israeliani sul suo territorio. «Gli Stati Uniti però non sono un ente di beneficenza e le storie dell’infatuazione di Trump per al-Sharaa, che siano vere o meno, non dovrebbero far dimenticare al nuovo regime di Damasco che Washington, in linea con Tel Aviv, vede la Siria come una porta d’accesso per rimodellare il Medio Oriente in un modo che serva prima di tutto i propri interessi», conclude Abu Irshaid.