Reportage da un Libano stremato, dove una giungla di segni e dipinti dà voce alle rivendicazioni della popolazione

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:53

Una giungla di segni, dipinti sui muri di Beirut, dà voce alle rivendicazioni di una popolazione stremata da 30 anni di malgoverno. Nell’ottobre del 2019 i graffiti erano colorati, ironici, rabbiosi e speranzosi come la gente scesa in piazza per chiedere le dimissioni di un’intera classe dirigente. Un anno più tardi, i murales raccontano un Paese drammaticamente impoverito e colpito al cuore dall’esplosione che il 4 agosto del 2020 ha mandato in frantumi, insieme al porto della capitale, le speranze di rinnovamento.

 

Cent’anni dopo la nascita del Grande Libano e 30 anni dopo la conclusione formale della sanguinosa guerra civile non è solo il porto di Beirut a esser saltato in aria il 4 agosto 2020: la crisi politica, economica e sanitaria iniziata nell’ottobre del 2019 è culminata, letteralmente, nell’esplosione e implosione del vecchio patto sociale. Nelle zone più colpite della Beirut nord-orientale sono rimasti in piedi solo i muri. Muri graffitati, che urlano tutto quello che è stato taciuto, si è voluto tacere o è stato messo a tacere per molto, troppo tempo. Se zigzagassimo insieme tra queste pietre e ne leggessimo i graffiti, sentiremmo che oggi ancora, ostinatamente, i libanesi parlano. E, se costretti a tacere, sono i muri a parlare per loro. 

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Quartiere di Geitawi. La scritta hurriyya (“libertà”) intrecciata con un uccello in volo (non una fenice!). Autori: Quetzal e Quetzilla

 

Autunno 2019: vogliamo tutto

 

Partiamo dai muri del centro città di Beirut, luogo fantasma (poiché frutto di una speculazione immobiliare elitista) già prima dell’esplosione, prima dei vari lockdown con cui si è risposto anche in Libano al coronavirus. Fu questo l’epicentro della sollevazione popolare libanese nell’ottobre 2019, uno spazio di cui i manifestanti si erano in parte riappropriati. Anche Selim Mawad, artista e attivista libanese, rivendica questi luoghi attraverso i suoi murales raffiguranti tori (in arabo thawr, in assonanza con thawra, rivoluzione) che discutono il difficile rapporto tra confessionalismo e cittadinanza e chiedono le dimissioni in blocco di una classe politica al potere da 30 anni, accusata di malgoverno, clientelismo, corruzione e connivenza.

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Downtown. “Il confessionalismo non è la tua religione. Sopprimilo. Ha rovinato la tua e la mia vita”. Si noti il gioco di parole tra religione (dīn) e l’espressione haraqat dīnī wa dīnak, letteralmente “ha bruciato la mia e la tua religione”. Autore: Selim Mawad

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Ring (ponte stradale nevralgico del centro di Beirut). La prima scritta, in verde recita “Oh mia magnifica Patria”. Sotto, in nero, qualcuno ha aggiunto: “Il confessionalismo ci ha rovinato (lett. bruciato)”. Foto: Nohad el-Hajj

 

Eppure, arrivati al “Muro della Rivoluzione”, a due passi dal parlamento libanese, è chiaro che i muri non sono più quelli del mite autunno libanese del 2019: nei mesi, i blocchi di cemento anti-protesta sono stati spostati dall’esercito secondo le necessità del momento, in un moto dislessico che ha frammentato alcuni graffiti, invertito lettere, lasciato vuoti calligrafici. Il risultato ottico è che una delle tante scritte che invocavano la thawra (“rivoluzione”) sembra esser diventata tharwa (“abbondanza di beni”, “opulenza”). Un augurio incompiuto? Anche i murales non sembrano più gli stessi: se alla fine del 2019 erano colorati, ironici, rabbiosi e speranzosi come la gente in strada, ora sono naturalmente un po’ più sbiaditi, coperti da nuove scritte, da risposte e contro-risposte al graffito originario.

 

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Downtown, tra i vetri spaccati, la moschea Muhammad al-Amīn. “Da Baghdad a Beirut, una sola rivoluzione, che non muore (mā bitmūt)”. Foto: Riccardo Paredi

 

Leggendo questa giungla di segni, salta all’occhio la varietà dei messaggi e delle rivendicazioni: espressioni di solidarietà con altre proteste nel mondo, con i rifugiati siriani, con le lavoratrici domestiche straniere imprigionate nel sistema (schiavista) di sponsorizzazione (kafāla); insulti a figure politiche e al sistema bancario; slogan anticapitalistici; richieste di diritti e libertà fondamentali (in particolare parità di diritto per le donne e per le persone LGBTQI); accenni alla lotta di classe; e ovviamente la caduta del sistema confessionale e le dimissioni di tutta la “casta” politico-bancaria. Le dimissioni di Saad Hariri, il primo ministro, sono arrivate, alla fine di ottobre. Hanno portato alla formazione del governo di Hassan Diab, a sua volta dimessosi il 10 agosto, incapace perfino di creare l’illusione di un vero cambiamento politico. Un cambiamento che sembra ulteriormente allontanato dal recente, gattopardesco ritorno dello stesso Hariri, pronto a formare un nuovo governo a un anno esatto dalle prime proteste. Intanto i muri da un ottobre all’altro urlano ancora quello che è stato il limite e la forza dell’autunno libanese: badnā kill shī (“vogliamo tutto”). Ma “tutto” è tanto. Da dove partire? Come trasformare il grido di queste pietre e di queste piazze in un’alternativa a “tutto, proprio tutto”? A guardarsi bene intorno, c’è ancora un muro intonso a downtown e, per ora, nessun graffito risponde a questo dilemma.

 

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Downtown, cuore delle proteste. “Vogliamo tutto”. Foto da Instagram @wallsofthawra

 

Primavera 2020: dalla fame di giustizia alla fame e basta

 

Se a far scattare la rabbia libanese, nell’ottobre 2019, era stata presumibilmente “una tassa su WhatsApp”, le cause che hanno portato a un aumento drastico di suicidi nei primi mesi del 2020 sono state piuttosto la fame e l’impossibilità di arrivare a fine mese, complice l’aggravamento esponenziale della situazione economico-finanziaria del Paese e la crisi sanitaria causata dal Covid-19: il 50% circa della popolazione libanese vive oggi sotto la soglia di povertà relativa, il tasso di disoccupazione supera il 35% e la lira libanese, in caduta libera da mesi, ha perso più del 75% del suo valore, in un Paese che importa circa l’80% del suo fabbisogno nazionale. Sui muri di fronte a Karantina, sulle strade di Hamra, dentro un cinema abbandonato nel centro di Beirut si legge lo stesso graffito: «Dimmi, cos’è più forte: il confessionalismo o la fame?». Si tratta di una citazione del rapper siriano Hani al-Sawah, alias al-Darwish. Un’altra canzone, questa volta del celebre artista libanese Ziad Rahbani, è tornata tristemente alla ribalta negli stessi mesi: Anā mish kāfir bass al-ju‘ kāfir (“non sono empio, la fame è un’empietà”), scritta su un foglio sventolante di fianco al corpo di un sessantenne suicidatosi nella centralissima Via Hamra lo scorso luglio. Lo stesso giorno, camminando su Via Armenia, dalla parte opposta della città, si poteva leggere un graffito su un cassonetto della spazzatura: sundūq i‘āsha, “cassa di sopravvivenza”. Un padre e un figlio ci rovistano dentro. I muri di molti quartieri gridano incessantemente un pericolo, per ora ancora dietro l’angolo, ma minacciosamente vicino ai più poveri e alla ormai defunta classe media borghese libanese: fame.

 

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Downtown, su “Il muro della Rivoluzione”. Una conversazione WhatsApp immaginaria tra alcuni importanti politici libanesi si conclude con un numero libanese anonimo (un manifestante?) che rinomina il gruppo “Libano 2”. Si noti che il nome di Nabih Berri, dal 1990 Presidente del Parlamento libanese, è stato dapprima cancellato (in rosso) e poi insultato (in nero). Autore: Phat2

 

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Tra i quartieri di Gemmayzé e di Karantina, a meno di 100 metri dal porto. “Dimmi, cos’è più forte: il confessionalismo o la fame?”. Autore: Moe

 

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Quartiere di Mar Mikhael (San Michele), a due passi dalla vecchia stazione ferroviaria, da decenni in disuso. Su due bidoni della spazzatura campeggia la scritta “cassa di sopravvivenza”, le stesse distribuite da alcune organizzazione politiche alla popolazione, non senza polemiche e asimmetrie settarie, nei più acuti tempi di crisi. Foto: M. Labash

 

Estate 2020: il punto di non ritorno

 

Gli eventi disastrosi che da un anno a questa parte coinvolgono il Libano non si limitano certo agli aspetti materiali, ma colpiscono tutta la sfera spirituale e psicologica dei libanesi, risvegliando in molti di loro i conti mai fatti del tutto con i traumi della guerra civile, della guerra del 2006 con Israele, degli attentati dinamitardi, e molto altro. Tanti graffiti di ottobre festeggiavano la caduta del regime della paura (ya‘lan Abū al-khawf, “sia maledetto il Padre della paura!”) e della paranoia verso l’altro (religioso, politico, etnico…), la fine dell’ansia per il vuoto di potere e il caos, del terrore di una nuova guerra civile, delle preoccupazioni per influenze straniere, tutti spauracchi abilmente utilizzati dai vari politici, signori della guerra e zu‘amā’ (“leader locali”) per decenni, al fine di mantenersi al potere. Gli stessi muri proponevano di rimettersi in discussione, di convertirsi (thawra ‘alā anfusinā, “rivoluzione di noi stessi” – precondizione necessaria alla creazione di un nuovo patto sociale). Invitavano a esprimersi in sedute di psicoterapia di gruppo per liberarsi dai fantasmi del passato e spazzar via quelli del futuro.

 

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Downtown. “Esprimiti! Seduta collettiva di psicoterapia. Per la prima volta dopo la guerra civile”. Autore: Selim Mawad

 

A esser spazzata via, il 4 agosto 2020, è stata invece la parte nord-orientale della capitale libanese. Una combinazione letale di negligenza, irresponsabilità, incompetenza, interessi economici “interconfessionali” più o meno espliciti e 2750 tonnellate di ammonio di nitrato trascurate per sei anni: sembra questa la causa più plausibile di un’esplosione che, con una forza pari a un sisma di magnitudo 3,3, ha provocato più di 190 morti e 6500 feriti, lasciando senza casa circa 300.000 persone, danneggiando 128 scuole, quattro grandi ospedali e distruggendo il porto di Beirut, epicentro della conflagrazione nonché luogo di passaggio del 73% della merce importata nel Paese e raison d’être della capitale libanese in epoca moderna. Sfortunatamente, non ha spazzato via gli scaduti e fastidiosi cliché sul Libano, riapparsi ostinatamente sulla stampa internazionale a partire dal giorno successivo alla tragedia: “Svizzera del Medio Oriente” e “Parigi del Levante”, “Libano messaggio di convivenza pacifica” e soprattutto, “la Fenice d’Oriente che rinasce dalle sue stesse ceneri”. I libanesi non desiderano essere particolarmente resilienti. Sono soprattutto arrabbiati e a pezzi, come tutto ciò che circonda il porto. E anche i graffiti confermano che questo, e solo questo, è l’unico messaggio che si vuole far passare. Sul marciapiede che si affaccia sul disastro, qualcuno ha scritto: «È il mio Stato che ha fatto questo. Poco più lontano: «Giustizia per le vittime (dahāyā), vendetta contro il sistema». Sul muro di una banca: «Ci avete letteralmente fatto esplodere, viviamo per uccidervi». Un vecchio murales raffigurante un politico impiccato sintetizza: al-i‘dām (“pena di morte”). L’esplosione ha creato un cratere che riavvicina Beirut alla sua etimologia: un pozzo profondo. Ricco d’acqua, certo, ma da cui ci vorrà molto tempo e forza per uscire.

 

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Porto di Beirut. Dawlatī fa‘alat hadha, “È il mio Stato che ha fatto questo”.

 

Beirut ha parlato

 

Il giro dei muri è finito, e di graffiti ne resterebbero ancora molti da leggere, o meglio, da ascoltare. Abbondano, e vien da esclamare: per fortuna! Non siamo in Siria: scrivere su un muro “abbasso il regime” non scatena ancora una repressione spietata. Eppure, questi graffiti graffiano davvero chi li osserva. Alcuni sussurrano speranze deluse, rivoluzioni incompiute, progetti sbiaditi. Altri gridano rabbia cieca, dolore profuso, paure cicliche, traumi irrisolti. Vicino alla Statua dell’Emigrato libanese, un fallāh (“contadino”) con la sua lubbāda (cappello conico) e i suoi shirwāl (pantaloni larghi), ancora più solitario ora che contempla non solo il mare e i generosi tramonti che la costa libanese regala, ma soprattutto le macerie intorno a sé, una bomboletta spray ha scritto bukra, “domani”.

 

È un augurio di partire? Un tragico presagio di una terra di già forte emigrazione? Bi-l-nisba li-bukra shū? “E a proposito di domani, cosa sarà?” recita una pièce teatrale di Ziad Rahbani. Tutti che parlano, analizzano, spiegano, calcolano. Politici che si catapultano a Beirut con il riscoperto soft power umanitario, avidi avvoltoi che speculano sulle macerie dei tradizionali quartieri libanesi, un’élite neoliberale cleptocratica che attende impaziente quale maschera indossare per potersela cavare ancora una volta. Il Libano, che è abituato a far parlare, certezza dell’editoria araba, rendez-vous degli intellettuali esiliati, ora parla in prima persona. È questo il messaggio di Fish e Phat2, due padri del graffitismo libanese.

 

Nel 2007, poco dopo la fine della guerra con Israele, il primo disegnò su un muro una scritta gigante: «Se Beirut potesse parlare». Nel 2012, insieme a Phat2, scrisse un altrettanto enorme «Beirut parla». Nell’ottobre 2019, l’ultima scritta, lapidaria: «Beirut ha parlato». Il Libano ha parlato, hanno parlato i cittadini che si vogliono tali, e se l’esplosione ha lasciato tutti senza parole, ci pensano le pietre a gridare: «Lasciate in pace il Libano», lasciateci liberi di essere qualcosa, non le vostre aspettative odierne, non i vostri ricordi d’oro passati, le vostre mire espansionistiche future. Ma, anche così, il Libano piace troppo, e a tanti, per essere lasciato davvero in pace.

 

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Downtown. Bayrūt hakit, “Beirut ha parlato”. Autore: phat2

 

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Ring. hallū ‘an Lubnān. “Lasciate in pace il Libano”. Sullo sfondo, la Chiesa di San Giuseppe, una casa tradizionale libanese abbandonata da decenni e il nuovissimo grattacielo Sama Beirut, l’edificio più alto del Libano. Foto: Riccardo Paredi

 

 

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Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Riccardo Paredi, Libano: se questi taceranno, grideranno le pietre, «Oasis», anno XVI, n. 31, dicembre 2020, pp. 130-143.

 

Riferimento al formato digitale:

Riccardo Paredi, Libano: se questi taceranno, grideranno le pietre, «Oasis» [online], pubblicato il 10 dicembre 2020, URL: /it/libano-se-questi-taceranno-grideranno-le-pietre

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