Invitato dal Patriarca Béchara Boutros Raï, il Cardinal Scola è intervenuto ai lavoro del sinodo dei vescovi maroniti riuniti nella sede del patriarcato, offrendo la sua testimonianza su come si può concretizzare una nuova comunione tra Chiese sorelle alla luce della grave sofferenza dei cristiani che vivono in Medio Oriente.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:23

La “casa madre” dei maroniti, oggi presenti nei cinque continenti, si trova a Bkerké, non lontano dal santuario di Harissa, Nostra Signora del Libano. Qui ogni anno si tiene il Sinodo dei vescovi al quale il Patriarca Béchara Boutros Raï ha invitato il Cardinal Angelo Scola, arcivescovo di Milano, perché offrisse una riflessione su quale può essere il rapporto tra Chiese di Oriente e di Occidente oggi. Camminando tra i portici in pietra chiara della sede patriarcale si incontrano, oltre ai vescovi maroniti della regione, anche quanti guidano le diocesi della diaspora, Città del Messico, Los Angeles e New York, Montreal, Parigi e San Paolo del Brasile, solo per citarne alcuni. Nel suo intervento in assemblea, il cardinale Scola ha proposto tre riflessioni, centrate intorno a tre parole: martirio, vittoria, Occidente. A proposito del martirio l’arcivescovo ha espresso una «profonda gratitudine per la testimonianza di attaccamento a Cristo che le Chiese orientali, cattoliche e non cattoliche, stanno rendendo di fronte al mondo. È una testimonianza che giunge non di rado fino al martirio e i cui effetti, nella Chiesa e fuori di essa, non possiamo ora misurare. I mezzi di comunicazione, che tante volte si trasformano in strumenti di propaganda terroristica, consapevole o inconsapevole, diffondono questi acta martyrum contemporanei con un’immediatezza (e una crudezza a volte) che le narrazioni dei primi secoli ci facevano solo intuire». «Il sangue dei martiri – ha aggiunto Scola citando Tertulliano – è seme di nuovi cristiani. Ma una cosa, e una soltanto, può impedire questa generazione: è la divisione tra i discepoli. Il momento tragico che investe la regione può diventare allora un’occasione propizia per accantonare quanto separa e ricercare quello che unisce». Entrando ancor di più nelle problematiche del Medio Oriente, Scola ha introdotto la seconda parola: vittoria: in questa regione «si cerca ovunque la vittoria attraverso la sopraffazione e l’annientamento dell’avversario. Ma vediamo bene che questa via conduce solo a morte e distruzione. Molti politici e uomini di religione mirano a costruire una società completamente omogenea. E così in Iraq e Siria i miliziani jihadisti cacciano i cristiani e le altre minoranze religiose, quando non le eliminano fisicamente, e ne distruggono le tracce. Il problema è che il processo di “de-umanizzazione” non si ferma lì. Dopo i non-musulmani, è la volta dei musulmani di diversa confessione (sunniti contro sciiti e viceversa), poi dei musulmani “devianti”, perché magari appartengono agli ordini mistici, infine di tutti coloro che non possono esibire una perfetta ortoprassi, secondo uno schema d’intolleranza progressiva già visto molte volte all’opera. Di fronte a questo progetto penso che i cristiani, e prima di tutti i cristiani orientali, debbano continuare a dire un chiaro “no!”. Non è questa la strada che Dio vuole per il Medio Oriente. Più omogeneità non significa meno conflitti, perché ci sarà sempre qualcuno “più fondamentalista di me” che cercherà di piegarmi al suo credo. È forse in pace la Somalia, per il fatto di essere al 100% musulmana sunnita? O l’Afghanistan dei talebani? Ha portato bene al Pakistan essersi prefissato l’obiettivo di creare uno Stato islamico? La nostra vittoria è la Pasqua, è il Crocifisso Risorto che accetta di portare su di sé il peccato del mondo e con la sua obbedienza distrugge il corpo del peccato». L’ultima riflessione dell'Arcivescovo di Milano ha riguardato l’Occidente, laddove «esiste una reale difficoltà a comprendere quanto sta avvenendo in questa regione. Si pensa di sapere già, di avere la chiave per interpretare i fatti. E si commettono così errori grossolani di valutazione. L’occidentale medio non è in grado di pensare una guerra di religione, anche per la sua storia passata, e ragiona unicamente secondo gli assoluti di democrazia e tirannide, senza percepire la necessità di cooperare con tutte quelle forze che si oppongono, per le più varie ragioni, al genocidio fisico e culturale perpetrato da ISIS e dagli Stati che, direttamente o indirettamente, la sostengono nel criminale progetto di un Medio Oriente mono-colore. L’unico linguaggio che mi pare resti utilizzabile è quello umanitario: raccontare le sofferenze. Suggerirei pertanto d’individuare alcuni casi particolarmente eclatanti su cui sollecitare un intervento internazionale. Penso in particolare ad Aleppo, che è già diventata la nuova Sarajevo del XXI secolo. La proposta di aprire un corridoio umanitario per alleviare le sofferenze di questa città, prima che finisca anch’essa in mano a ISIS, potrebbe avere qualche possibilità di successo anche a livello mediatico. Di più, realisticamente, non mi pare possibile sperare, nel quadro d’immobilismo internazionale imbarazzante e miope che purtroppo domina». Molto ricco il dibattito con i vescovi che ne è scaturito, e che ha toccato – tra gli altri – il tema dell'immigrazione sulle coste italiane, della chiusura dell'Europa nei confronti di chi arriva stanco e bisognoso di tutto, e il fenomeno dei foreign fighters che si uniscono a Isis. Le forme di chiusura dell'Italia e dell’Unione europea davanti alle decine di migliaia di disperati che scappano da guerre, persecuzioni e miseria sono incomprensibili in un Paese come il Libano, meno di 4 milioni di abitanti, che accoglie un milione e mezzo di profughi siriani e mezzo milione di palestinesi.