Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 21/11/2025 15:02:41
La visita di Mohammad bin Salman a Washington ha suscitato un profluvio di commenti sui media arabi. L’edizione del 18 novembre di Al-Riyadh, uno dei principali quotidiani nazionali dell’Arabia Saudita, è dedicata quasi interamente a questo incontro, celebrato da decine di articoli dai titoli fortemente celebrativi: “Il Regno sta ridisegnando la mappa delle relazioni internazionali su nuove basi” (p. 3), “L’Arabia Saudita è uno Stato pacificatore e terreno fertile per la risoluzione dei conflitti” (p, 4), “La visita del principe ereditario in America ridà slancio all’incontro tra “il fondatore [re ‘Abdulaziz] e Roosevelt” e mette in luce l’ascesa economica del Regno” (p. 11), “A Washington, l’Arabia Saudita guida il dialogo sul futuro” (p. 16).
Su al-Sharq al-Awsat, quotidiano panarabo sempre di proprietà saudita, l’intellettuale libanese (ma cittadino saudita) Ridwan al-Sayyid ha definito la visita «un’impresa monumentale». Ma perché, si domanda Muhammad al-Salihin al-Huni sul quotidiano filo-emiratino al-‘Arab, questo incontro è avvenuto proprio ora? Perché il contesto regionale si impone con forza. Il Medio Oriente è in ebollizione e gli Stati Uniti si stanno progressivamente ritirando dagli impegni militari diretti, come dimostrano l’Afghanistan e parzialmente la Siria. A questo bisogna aggiungere la competizione con la Cina e la Russia, sempre più presenti nel Golfo attraverso accordi energetici e tecnologici. Qui «entra in gioco l’Arabia Saudita, che si pone come pilastro sicuritario ideale: una potenza regionale ricca, in grado di finanziare la propria difesa e pronta a investire mille miliardi di dollari nell’economia americana». Trump è consapevole che «perdere l’Arabia Saudita non è un’opzione: Riyad non è solo una fonte di petrolio, ma un partner in settori chiave come l’intelligenza artificiale, l’energia pulita e i minerali». In una prospettiva storica, questa evoluzione è perfettamente logica, prosegue l’articolo. Per molti decenni, «dall’incontro tra Re ‘Abdulaziz e il Presidente Roosevelt a bordo della Quincy nel 1945, la relazione [tra i due Paesi] si è basata sull’equazione “petrolio in cambio di sicurezza”. Ma il mondo è cambiato: gli Stati Uniti sono diventati il maggiore produttore di petrolio e l’Arabia Saudita ha lanciato la Vision2030 per diversificare la propria economia. Oggi, l’Arabia Saudita non è più al traino, e un attore: investe in America, partecipa alla riconfigurazione dell’ordine arabo e rivendica un ruolo maggiore in questioni come la Palestina e il Sudan». La sua nomina ad “alleato” riflette dunque questa realtà, e pone il Regno saudita sullo stesso piano di Israele e dell’Egitto, consolidandone il ruolo di leader nel mondo musulmano sunnita, conclude il giornalista.
Anche al-Quds al-‘Arabi, quotidiano non allineato alle posizioni saudite, accoglie con una certa soddisfazione l’incontro statunitense, interpretandolo come uno sgarbo nei confronti di Israele, che vede colpito il suo «bisogno isterico di primeggiare sempre su qualsiasi Stato arabo (o non arabo)». La decisione di Trump «altera l’equilibrio militare arabo-israeliano e inverte la dottrina statunitense della “superiorità militare qualitativa” di Israele in Medio Oriente». Questa decisione, prosegue l’editoriale, è conseguente agli sviluppi politici nella regione, perché arriva in concomitanza con l’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite della risoluzione americana su Gaza. Va letta anche come un riconoscimento del ruolo diplomatico giocato negli ultimi mesi dall’Arabia Saudita, che «ha favorito l’ondata di riconoscimenti occidentali dello Stato di Palestina, spingendo Trump a incontrare diversi leader arabi, incontri dai quali è poi scaturita la sua proposta su Gaza, conclude l’articolo.
Israele guarda con sospetto all’apertura di Trump al mondo sunnita, commenta Walid Safi, professore di Scienze politiche all’Università libanese, su Asasmedia. «Il Regno è riuscito a respingere la normalizzazione gratuita e a evitare di lasciare carta bianca a Israele su questo tema. Grazie a un abile uso delle sue carte geopolitiche, Bin Salman è riuscito a convincere Trump a separare le relazioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita dagli interessi israeliani. La posizione saudita è più forte che mai, perché il Regno subordina qualsiasi iniziativa ai progressi sulla questione palestinese e alle garanzie per la Striscia di Gaza – tra cui un cessate il fuoco permanente, un ritiro graduale delle forze israeliane, il disarmo di Hamas e il trasferimento dell’amministrazione della Striscia all’Autorità Nazionale Palestinese o a un organismo internazionale neutrale», commenta Safi. La frustrazione sembra attanagliare i leader israeliani, che negli ultimi due anni hanno parlato incessantemente di un nuovo Medio Oriente e del grande Israele. Oggi però «Israele si rende conto dell’enorme divario tra le sue ambizioni e la complessa realtà, e allo stesso tempo vive nell’ossessione della nuova politica di Trump, che ha compreso l’importanza del mondo sunnita negli equilibri della regione», conclude l’articolo.
«La Risoluzione 2803 non porterà manna e quaglie ai palestinesi», ma è l’unica opzione [a cura di Chiara Pellegrino]
L’adozione della Risoluzione 2803 del Consiglio di sicurezza dell’ONU sul piano di pace per Gaza ha lasciato scontenti e delusi buona parte degli arabi, ma prevale un atteggiamento realistico e la consapevolezza che, al momento, questa è l’unica soluzione percorribile. Mentre i quotidiani tradizionalmente vicini alla questione palestinese hanno dedicato molti articoli, per lo più critici, alla risoluzione, i giornali che gravitano nell’orbita saudita ed emiratina sono rimasti decisamente più defilati.
Su al-‘Arabi al-Jadid, il politologo giordano Muhammad Abu Ruman accusa gli Stati Uniti di applicare a Gaza soluzioni già sperimentate in altri Paesi del Medio Oriente, che in quei contesti non avevano funzionato e che, a maggior ragione, non possono aver successo a Gaza data la specificità della situazione locale. Il piano di pace di Donald Trump per la Striscia di Gaza «non si basa su una conoscenza accurata della realtà di Gaza, ma su preconcetti e talvolta illusioni politiche che Washington aveva già tentato di applicare in Iraq e Afghanistan, salvo poi scoprire che la realtà socio-politica è più forte e complessa di qualsiasi progetto ingegneristico o piano di sicurezza». Dal 2007, quando Hamas ha assunto il controllo della Striscia, nel pensiero occidentale e israeliano si sono imposti due modelli, prosegue Abu Ruman: una Gaza «talebana» contrapposta a una Cisgiordania liberale e democratica. Su questa visione erano riposte molte aspettative: si pensava che, mettendo a confronto due sistemi così diversi, i palestinesi avrebbero finito per scegliere in massa il «modello moderato», e che il tempo avrebbe lavorato a favore dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ma la realtà ha deluso le aspettative. «Oggi l’amministrazione americana ripropone la stessa idea, ma con nuova formulazione: due Gaza nel sud della Striscia, come nella Berlino divisa. Una verde e sicura posta sotto la supervisione internazionale, l’altra rossa e aperta alla tensione e al conflitto». Il piano Trump presenta una contraddizione di fondo, prosegue l’articolo: si basa sul presupposto che la società di Gaza accetterà un accordo di sicurezza privo di legittimità politica, e che Israele si asterrà dall’intervenire direttamente. «Gli Stati Uniti sembrano riproporre vecchie “soluzioni temporanee”, ma ignorano che Gaza non è né Baghdad né Kabul, e che gli abitanti e gli attori locali sono capaci di rimodellare gli eventi in modi imprevedibili». Il piano americano, conclude Abu Ruman, «sembra una manovra politica più che un progetto vero e proprio, e mira a gestire lo squarcio anziché a costruire un sistema stabile».
Su al-Quds al-‘Arabi, Jamal Zahalka commenta la Risoluzione 2803 citando Karl Marx: «La storia si ripete, prima come tragedia, poi come farsa». Questa risoluzione, spiega il neo-eletto presidente dell’Alto comitato di monitoraggio per i cittadini arabi di Israele, ripete in chiave tragica il meccanismo già visto con la dichiarazione di Balfour del 1917 e il mandato della Società delle Nazioni del 1922. Come il mandato del 1922 attribuì alla posizione britannica una legittimità internazionale, così la risoluzione 2803 finisce per conferire un riconoscimento internazionale al piano di pace di Trump, favorendo gli interessi americani. Questa risoluzione, denuncia Zahalka, avvantaggia peraltro anche Israele, perché non menziona i crimini perpetrati a Gaza e concentra l’attenzione sulla smilitarizzazione di Hamas, scaricando sul movimento islamista la responsabilità e sollevando Israele dalle accuse di gravi violazioni. La risoluzione, prosegue l’articolo, colpisce più per ciò che omette che per ciò che afferma: non menziona le parole “occupazione” e “insediamento”, e «qualsiasi testo ONU sulla questione palestinese che ignori questi concetti rappresenta una chiara vittoria per l’occupazione». Inoltre, considera la situazione come «una crisi da gestire» piuttosto che «un problema da risolvere», e autorizza Israele a occupare la parte orientale della Striscia di Gaza, oltre la linea gialla, fino al completamento del “disarmo”, con il rischio di dividere Gaza in due entità distinte, occidentale e orientale. Israele, peraltro, ha già iniziato a sostenere di poter legittimamente usare la forza per disarmare Hamas qualora le disposizioni della Risoluzione 2803 non vengano attuate. Ma anche se Hamas venisse disarmato, denuncia Zahalka, la risoluzione consentirebbe a Israele di mantenere una presenza lungo il perimetro di sicurezza al confine, che dovrebbe rimanere attiva finché Gaza non sarà considerata «sufficientemente protetta da nuove minacce terroristiche». Ma è quasi impossibile che Israele ritenga soddisfatta questa condizione, conclude il giornalista.
Lo scrittore turco Kemal Öztürk osserva su al-Jazeera che questa risoluzione non soddisfa pienamente né i palestinesi né gli israeliani, oltre al fatto che «non consente a nessuno di vivere in pace e sicurezza, perché è vaga, suscettibile di diverse interpretazioni e contiene strutture flessibili che possono essere modificate a seconda delle circostanze». Peraltro, prosegue Öztürk, è paradossale che in un contesto in cui sono state uccise 70.000 persone, «gli Stati Uniti, che hanno fornito armi e protezione politica a Israele, siano diventati garanti e attuatori di questo accordo. È come se il lupo fosse messo a guardia delle pecore». Nonostante le molte ambiguità, conclude l’articolo, questa risoluzione «ci offre l’opportunità di sopravvivere, perseverare, rafforzarci e di continuare la resistenza».
A chi vede nella risoluzione 2803 un tentativo di nuovo colonialismo occidentale, il giornalista marocchino Chadi Berrak risponde che «essa non è fine a se stessa, ma è uno strumento necessario dal punto di vista strategico per garantire la sicurezza del processo di ricostruzione e il successo del programma di riforme palestinese. La risoluzione garantisce una fase di transizione sicura, che alla fine dovrebbe portare alla creazione di uno Stato palestinese sovrano, efficace e responsabile». Berrak precisa che la presenza del Consiglio di Pace non deve essere interpretata come una violazione della sovranità, ma come un mezzo per creare le condizioni necessarie a una sovranità strutturata e alla nascita di uno Stato palestinese indipendente.
Su al-Sharq al-Awsat il giornalista egiziano Soliman Gouda fa notare che la risoluzione menziona un futuro Stato palestinese, un fatto significativo perché «mai prima d’ora era stato menzionato uno Stato palestinese in una bozza di risoluzione americana al Consiglio di Sicurezza, e Washington ha sempre esercitato il suo diritto di veto contro qualsiasi risoluzione che lo menzionasse in seno al Consiglio nel corso della sua storia». Gouda è consapevole che «la decisione non porterà manna e quaglie ai palestinesi», ma ritiene che allo stato attuale questa risoluzione rappresenti l’unica opzione realistica per Gaza.