Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 16/05/2025 16:43:11
Questa settimana i media arabi hanno commentato ampiamente la visita di Donald Trump nel Golfo. Entusiasta la stampa saudita, che ha definito significativa la scelta del presidente americano di cominciare il suo tour diplomatico proprio dall’Arabia Saudita. Come osserva il giornalista saudita Nasser al-Biqami su al-Sharq al-Awsat, nel suo discorso Trump «non è sembrato un presidente che torna in visita nel Paese per la seconda volta, ma il testimone di una trasformazione straordinaria avvenuta in Medio Oriente, scaturita dal cuore pulsante della regione: la nuova Arabia Saudita». Al-Biqami sottolinea con orgoglio come le riforme fatte dal governo saudita abbiano affrancato l’economia del Paese dalla dipendenza dal petrolio, suscitando l’ammirazione di Trump: «Il presidente americano ha elogiato la “genialità saudita” e la trasformazione di Riyad in una nuova capitale globale della tecnologia». La visita di Trump – conclude il giornalista – «non è stata solo un evento protocollare passeggero, ma ha rappresentato un momento cruciale di riconoscimento del nuovo ruolo dell’Arabia Saudita nella percezione americana e, più in generale, occidentale».
Sulla stessa testata il giornalista libanese Samir Atallah ha definito il vertice un momento «storico e raro»: «Dalla capitale dell’Islam e del mondo arabo, due giganti annunciano accordi senza precedenti. Due partner si impegnano per la pace e la cooperazione in un mondo lacerato e instabile». Tra le conseguenze più sorprendenti dell’incontro, Atallah evidenzia la revoca delle sanzioni alla Siria, che segna «l’inizio di un ritorno alla normalità dopo anni di smarrimento e disgregazione» e prelude a una nuova stagione di distensione regionale. Il giornalista ricorda poi gli anni bui in cui il mondo arabo ha sofferto per le scelte impulsive e la cattiva gestione delle relazioni internazionali: «Della piazza, delle sue avventure, dei suoi pulpiti e delle sue bandiere bruciate, resta solo la cenere». E a questa immagine di distruzione contrappone «lo splendore dello Stato, con le sue risorse e capacità».
Sulla piattaforma d’informazione libanese Asasmedia (filo-saudita), il giornalista Kassim Yousef esalta Mohammad bin Salman, definendolo il «re della stabilità del Medio Oriente», e Trump, simbolo della nuova forza e ritrovata autorevolezza americana. La sua visita in Arabia Saudita colloca Riyad al centro della nuova geopolitica, facendola diventare una «pietra angolare […] nella tessitura dei dettagli del nuovo mondo, un mondo completamente diverso da quello che abbiamo conosciuto nell’ultimo secolo». Il giornalista paragona l’America prima di Trump a «un’anatra zoppa, anzi, a uno struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia. Barack Obama ha impresso la sua dottrina politica mortale nel cuore del continente che guida l’arca di Noè. […] L’umanità non ha conosciuto del suo operato che due cose: il Premio Nobel e l’indecisione mortale», prosegue l’articolo. Ai demeriti di Obama, il giornalista contrappone i meriti di Trump, tra cui quello aver rimesso l’Iran al suo posto: «A Oriente c’era l’Iran. E di quell’Iran è rimasto solo un ricordo. Si è detto che il suo progetto di cartone è crollato al primo schiaffo. Il suo espansionismo è stato il risultato inevitabile del ritiro degli altri. Ora Teheran mendica un ruolo nel nuovo ordine mondiale, e chi tiene il martello [Trump] gli ha dato due opzioni: la morte o l’umiliazione. Teheran ha scelto di ingoiare un calice di veleno e un calice di antidoto. Perché l’uomo dai capelli biondi è un esperto nel concludere accordi. Ma è anche un maestro nell’infliggere colpi senza pietà».
Secondo la rivista saudita al-Majallah, la mossa di Trump di rimuovere le sanzioni alla Siria «ha di fatto chiuso la porta alle ambizioni di Teheran di sfruttare la fragilità della situazione siriana per rilanciare il suo progetto espansionistico della “Mezzaluna sciita”». La sconfitta di Teheran, la fine dell’ISIS e lo scioglimento del PKK aprono una finestra storica per reintegrare la Siria nella comunità internazionale e costruire un Medio Oriente più stabile e prospero, conclude l’articolo.
La stampa filo-qatariota, più sensibile alla questione palestinese, ha commentato l’assenza, nei discorsi di Trump, di riferimenti al conflitto e alla crisi umanitaria in corso nella Striscia di Gaza. Questo silenzio, scrive su al-‘Arabi al-Jadid Maan al-Bayari, fa il pari con l’indifferenza crescente delle leadership arabe verso la causa palestinese, un tempo tema centrale nelle loro relazioni con gli Stati Uniti. Oggi, invece, spiega il giornalista giordano, gli interessi economici e strategici sembrano prevalere, mentre gli Stati Uniti appoggiano sempre più apertamente l’estrema destra israeliana nella loro «campagna di sterminio» contro Gaza. Infine, l’articolo denuncia l’ipocrisia di Trump, che in pubblico si dice impegnato per la pace globale, ma ignora una delle più gravi crisi umanitarie in corso a pochi chilometri dal luogo in cui si trova.
Sulla stessa testata, George Kaadi commenta con una certa soddisfazione il ruolo marginale riservato negli ultimi giorni al Primo ministro israeliano. Descritto come arrogante e animato da un’ambizione smisurata, Netanyahu sembra intenzionato a sfidare Donald Trump per esercitare influenza sulla scena politica statunitense. Ma il tycoon, deciso a riaffermare il primato americano, considera Israele un alleato subordinato piuttosto che un interlocutore alla pari: «Netanyahu, con la sua solita arroganza e il suo pavoneggiarsi, vuole competere con il “Re” Donald Trump per il trono americano. La sua arroganza ha raggiunto un livello inaccettabile agli occhi del presidente americano, che non è manipolabile come Biden, debole sionista, e i suoi predecessori», scrive il giornalista. Trump «è infastidito da Netanyahu e ha deciso di smetterla di fare il cane che scodinzola. L’America è il corpo e Israele, non importa quanto arrogante diventi, resta la coda». Rimane però una domanda: si tratta solo di una rivalità personale tra due leader vanitosi o si sta profilando un mutamento sostanziale nella strategia americana in Medio Oriente? L’autore invita alla cautela: «Non bisogna essere troppo ottimisti riguardo alla distanza che sembra aprirsi tra la politica americana e quella sionista, perché potrebbe trattarsi semplicemente di una nube estiva passeggera, prima di un ritorno alla storica armonia».
Toni decisamente critici anche su Al Quds Al Arabi, dove il politologo libanese Gilbert Achcar sostiene che la priorità conferita dal presidente americano ai Paesi del Golfo «non ha nulla a che vedere con l’amicizia, ma riflette una logica puramente utilitaristica». Secondo Achcar, gli Stati Uniti stanno tendendo una trappola ai Paesi del Golfo, che «fanno a gara per offrire a Trump promesse di investimenti e acquisti senza nulla in cambio, […] anziché utilizzare il proprio potere economico come leva per fermare il genocidio israeliano contro il popolo di Gaza».
Più misurato invece il ricercatore marocchino Bilal Talidi, che sullo stesso quotidiano sostiene che Washington starebbe realmente ripensando la sua strategia in Medio Oriente, spinta dalla constatazione «della crescente riluttanza del mondo arabo a sostenere una futura agenda americana nel Golfo, a causa del sostegno incondizionato degli USA a Israele, in Cisgiordania e a Gaza». Secondo Talidi, «Washington ha valutato con pragmatismo i costi della sua politica di continua pressione sugli arabi e sostegno alla posizione di Israele, e si è mossa per ridefinire i propri interessi nella regione, aggiornando la propria politica e approfittando sia del calo dell’influenza iraniana sia della crescente presenza turca in Siria». In questo contesto, Trump starebbe tentando di forzare Netanyahu ad adattarsi al nuovo scenario.
La stampa emiratina interpreta la visita di Trump ad Abu Dhabi come una conferma del peso crescente degli Emirati Arabi Uniti sulla scena internazionale. Secondo al-‘Ayn al-Ikhbariyya, essa «è un segno della consapevolezza americana che gli Emirati non rappresentano soltanto un alleato, ma un partner prezioso in settori chiave come la sicurezza, l’energia, gli investimenti e la lotta all’estremismo. A ciò si aggiunge il ruolo crescente del Paese nell’unire i popoli, costruire la pace e promuovere i valori di tolleranza e convivenza». L’articolo sottolinea come gli Emirati stiano oggi raccogliendo i frutti di una linea politica equilibrata, di una diplomazia attiva e di una leadership ambiziosa. Oggi la capacità d’influenza di un Paese, conclude l’articolo, «non si misura in base alle dimensioni geografiche o demografiche dello Stato, ma sulla sua capacità di influenzare, prendere decisioni e contribuire a plasmare il futuro».
Il Nasser che non ti aspetti. La voce del rais in soccorso dei leader arabi [a cura di Noor Hiraa]
Ha suscitato un acceso dibattito nell’opinione pubblica del mondo arabo una registrazione audio in cui l’ex presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, rivolgendosi con tono diretto all’allora giovane leader libico Muammar Gheddafi, afferma: «Chi vuole combattere (contro Israele) vada a combattere, lasciateci in pace».
L’audio risale a un incontro del 1970, tenutosi tre anni dopo la devastante guerra dei Sei Giorni, che portò all’espulsione di 400.000 palestinesi dalle loro città e all’occupazione israeliana del Sinai, delle alture del Golan, della Cisgiordania e di Gerusalemme.
Conservata per anni negli archivi della Biblioteca di Alessandria, la registrazione è stata recentemente riportata all’attenzione pubblica, divisa in tre parti e resa virale dal figlio dello stesso Nasser, Abdelhakim, direttore del canale YouTube “NasserTV”, nato nel 2018 per preservare l’eredità e tenere viva la memoria del presidente egiziano.
Per la prima volta, scrive il giornalista saudita Abdulrahman al-Rashed in un articolo pubblicato su Al-Sharq Al-Awsat, Nasser appare «satirico e contrariato, mentre deride i leader arabi e dichiara la propria disponibilità a negoziare con Israele sulla questione del Sinai occupato (con il piano Rogers)». Secondo al-Rashed, la registrazione «corregge l’immagine e la narrazione storica dell’ex presidente», facendo emergere il cambiamento radicale nella sua personalità prima e dopo la guerra del ’67.
Una lettura condivisa anche dal parlamentare egiziano Emad Gad, ospitato dalla giornalista egiziana Rasha Nabil sul canale saudita Al-Arabiya: «Quando Nasser prese il potere nel ’52 era politicamente inesperto, agiva come un rivoluzionario e un sognatore con grandi progetti [...]. Dopo il ’67, smise di sognare e divenne un presidente pragmatico e realistico, con un obiettivo preciso: riconquistare il Sinai». Gad ha poi aggiunto che «occorre spogliare Nasser dell’immagine impeccabile e degli ideali che i nasseriani gli hanno cucito addosso».
Sia l’analisi di Gad che quella di al- Rashed, puntano a evidenziare la continuità tra Nasser e il suo successore Anwar Al-Sadat, accusato dai nasseriani di tradimento per aver firmato gli accordi di Camp David con Israele. Infatti, spiega il giornalista saudita, Nasser «era convinto che la scelta migliore fosse fare pressione su Washington e arrivare a una soluzione che restituisse all’Egitto i suoi territori. Ed è proprio ciò che accadde nove anni dopo, sotto la presidenza di Sadat». E, continua, al-Rashed, «critici come Heikal, Lotfi Al-Khouli e Abdel Rahman Al-Sharqawi attaccarono Sadat con veemenza, sostenendo che avesse tradito e rinnegato la politica del suo predecessore Nasser. Oggi risulta chiaro che non conoscevano il Nasser successivo alla guerra del 1967. Così come la maggior parte del movimento nasseriano più rigido e dogmatico».
A differenza dei media sauditi, la testata di proprietà qatariota Al-Araby Al-Jadeed, con sede a Londra, pone l’accento sul tempismo con cui è emerso l’audio di Nasser. Il giornalista egiziano Omar Samir scrive che la diffusione della registrazione sarebbe stata voluta da «alcuni apparati di sicurezza egiziani, forse anche arabi, per giustificare il grande fallimento arabo nei confronti della causa palestinese e di ciò che sta accadendo a Gaza». Samir sottolinea però che il discorso di Nasser va inserito nel contesto di un leader che, dopo aver combattuto, fu costretto con amarezza ad accettare il negoziato con Israele. Proprio per questo, afferma, «questa registrazione è tra le più forti condanne contro numerosi regimi arabi decadenti, che cercano di rimuginare sul proprio fallimento di fronte alla storia, come a dire: “Se Nasser fosse tra noi, non avrebbe fatto più di quanto abbiamo fatto noi”».
Con toni simili, anche lo scrittore egiziano Adel al-Oufi, sulla testata islamista Arabi21, denuncia il tempismo sospetto della pubblicazione, secondo lui, mirata a ridimensionare la causa palestinese, a scaricare la colpa sul popolo palestinese stesso e a spingere la resistenza alla resa. Al-Oufi critica apertamente il presidente egiziano, riconoscendo al regime di al-Sisi di aver «sferrato un colpo ben studiato in un momento decisivo», e aggiunge: «è degno di nota che si sia avvalso della collaborazione dei discendenti di Nasser, i quali non hanno provato vergogna a denigrare il proprio padre e a rinnegarlo in cambio di qualche carica e di lusinghe; è paradossale che siano stati proprio loro i primi ad abbandonare la nave del nasserismo, lasciando disorientati i suoi seguaci».
Su Asasmedia, infine, il giornalista libanese Amin Kammourieh prende le difese di Nasser: «L’accettazione del Piano Rogers non fu una resa, ma una manovra politica per completare la costruzione della barriera missilistica e spostarla verso il Canale di Suez, al fine di fermare gli attacchi israeliani in profondità durante la guerra di attrito». E conclude: «Nasser non ha mai abbandonato la questione palestinese, né dopo il ’67, né dopo il Piano Rogers […] Nasser continuerà a imprimere la propria impronta su qualsiasi questione del mondo arabo, perché la forza della sua eredità e del suo impatto trascende il tempo e lo spazio».