Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 14/07/2025 17:14:21

Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu torna dagli Stati Uniti «senza un accordo su Gaza ma con progressi nella ricostruzione». Così titola Al Monitor, analizzando la terza visita negli Stati Uniti del Primo ministro israeliano da quando il presidente Donald Trump è stato rieletto. «Nonostante le crescenti aspettative, non è stato annunciato alcun accordo di cessate il fuoco per Gaza, né sono state prese decisioni concrete in merito al dossier nucleare iraniano o ai colloqui israeliani con la Siria. Tuttavia, [...] Israele ha accettato che il Qatar e altri Paesi inizino a trasferire fondi per la ricostruzione di Gaza una volta che il cessate il fuoco di 60 giorni attualmente in fase di negoziazione entrerà in vigore, in modo che la ricostruzione possa iniziare immediatamente». Durante un evento a Washington con le famiglie di alcuni ostaggi, Netanyahu ha chiarito «che quello attualmente in fase di negoziazione è il primo step di un processo più lungo e includerebbe il rilascio di alcuni degli ostaggi, ma non di tutti. Una volta raggiunto un accordo sulla prima fase, inizieranno i negoziati per la seconda, durante la quale verranno liberati i restanti ostaggi», continua la testata online, che aggiunge: «uno dei principali punti di disaccordo nei colloqui di Doha è la richiesta israeliana di mantenere il controllo sul Corridoio Morag est-ovest, tra la città di Rafah e di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza».

Nonostante le rassicurazioni di Netanyahu, le notizie negative riguardo la possibilità di un accordo, uscite durante tutta la settimana, hanno lasciato «le famiglie degli ostaggi in uno stato di costante preoccupazione e ansia», puntualizza Haaretz. Il quotidiano israeliano ha sottolineato le informazioni altalenanti che hanno accompagnato i colloqui tra i leader di Stati Uniti e Israele: «Nel primo incontro, Trump è apparso pienamente allineato con Netanyahu, apparentemente accettando le richieste di Israele nei negoziati in corso con Hamas. Eppure, appena 24 ore dopo, il tono è leggermente cambiato. Secondo alcune indiscrezioni, Trump starebbe ora facendo pressione su Netanyahu affinché faccia finalmente delle concessioni e raggiunga un accordo».

Nel frattempo però continua la tragedia a Gaza – dove da maggio quasi 800 palestinesi sono stati uccisi mentre cercavano di ottenere aiuti umanitari –, scrive ancora la testata progressista israeliana: «Almeno otto soldati delle Forze di difesa israeliane sono stati uccisi dall'inizio della settimana: cinque in un’esplosione a Beit Hanoun, uno a Khan Yunis quando un’unità di Hamas ha cercato di rapirlo, mentre altri due si sono tragicamente tolti la vita, incapaci di sopportare il dolore e il tumulto della guerra. In questa fase, la guerra non ha altra giustificazione se non quella di una coalizione con un istinto di sopravvivenza ipersviluppato. Eppure c'è chi tenta di insinuare che la soluzione sia dietro l’angolo».

Anche Le Monde ricorda che l’imboscata «nella notte tra lunedì 7 luglio e martedì 8 luglio ha portato a 450 il numero dei soldati uccisi nell’enclave palestinese dall’inizio della guerra a ottobre 2023». Si tratta di perdite sempre più inutili agli occhi dell’opinione pubblica, come ha affermato il parente di una delle vittime durante il funerale: «Sei stato un soldato coraggioso in una guerra inutile». Anche nell’esercito crescono le voci di dissenso, continua il quotidiano francese: «All’interno dello Stato Maggiore, le prime voci contrarie alla prosecuzione della guerra erano emerse all’inizio del 2024. Queste opinioni si basavano su un ragionamento cinicamente tattico, secondo cui l’entità dei danni inflitti alle strutture militari di Hamas aveva raggiunto il suo massimo, che era illusorio dare la caccia a piccole unità di sopravvissuti, isolate tra le rovine, e che ciò si sarebbe pagato con inutili morti di soldati».

Anche secondo il giornalista Thomas Friedman, intervistato da Foreign Policy, «questo governo israeliano, non Israele come Stato o il progetto sionista, ma questo governo israeliano, rappresenta la più grande minaccia per il popolo ebraico in questo momento, perché le sue azioni a Gaza non hanno alcun senso». Il giornalista sostiene inoltre che Netanyahu voglia raggiungere un accordo, ma abbia anche bisogno di vedersi concesso «il diritto di riprendere la guerra, proprio come ha fatto con l’ultimo cessate il fuoco» per soddisfare le richieste degli alleati di governo. Al contrario, Hamas, «vuole essere sicuro che alla fine dei 60 giorni Israele non riprenderà la guerra» e non espellerà il movimento dalla Striscia.

Nel frattempo gli Stati Uniti continuano a sostenere Netanyahu: dopo aver sanzionato Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, il procuratore capo della Corte penale internazionale (CPI), Karim Khan, e altri quattro giudici, Washington ha lanciato una minaccia ai 125 Stati membri della CPI chiedendo che ritirino le misure messe in atto contro il premier israeliano: «Ci aspettiamo che tutte le azioni della CPI contro gli Stati Uniti e il nostro alleato Israele – ovvero tutte le indagini e i mandati di arresto – vengano ritirati», scrive Le Monde riportando il comunicato statunitense.

Preoccupazioni sono emerse anche in relazione al piano proposto dal ministro della Difesa, Israel Katz, che ha ventilato l’idea della creazione di una «città umanitaria». Secondo il progetto di Katz, scrive il Wall Street Journal, «l’esercito israeliano trasferirebbe i palestinesi in un’area designata intorno alla città di Rafah, nella parte meridionale di Gaza, dove risiederebbero e riceverebbero aiuti. L’esercito metterebbe in sicurezza un perimetro e controllerebbe le persone all’ingresso per eliminare presunti militanti. Una volta all’interno, alle persone non sarebbe permesso di uscire». Ma «il ramo legale dell’esercito israeliano e alcuni tra i principali avvocati del Paese stanno sollevando preoccupazioni sul fatto che il piano potrebbe esporre Israele ad accuse di sfollamento forzato e di internamento di civili, entrambi illegali secondo il diritto internazionale».

Quello di Katz non è l’unico piano che ha generato scandalo questa settimana: il Financial Times ha visionato una serie di documenti sul progetto «ideato da imprenditori israeliani e che ha utilizzato modelli finanziari sviluppati dal Boston Consulting Group (BCG) per reimmaginare Gaza come un fiorente polo commerciale» e a cui ha preso parte anche il Tony Blair Institute (TBI). Secondo il quotidiano finanziario, tra le proposte del TBI figurano «l’idea di una “Riviera di Gaza” con isole artificiali al largo della costa simili a quelle di Dubai, iniziative commerciali basate sulla blockchain, un porto in acque profonde per collegare Gaza al corridoio economico India-Medio Oriente-Europa e “zone economiche speciali” a bassa tassazione». Tra queste proposte non è menzionato il trasferimento dei palestinesi, che secondo i piani presentati da alcuni imprenditori israeliani per la regione se ne andrebbero in maniera volontaria. Si tratta solo di alcuni dei progetti presentati finora per la gestione di Gaza dopo il conflitto. Per esempio, prosegue il FT, «la Lega Araba ha approvato un programma di ricostruzione da 53 miliardi di dollari presentato dall’Egitto a marzo, mentre alcuni think tank privati, tra cui Rand, hanno presentato le proprie proposte». Alcune fonti a conoscenza della questione hanno sottolineato che i consulenti della BCG, già implicata nella creazione della famigerata Gaza Humanitarian Foundation, hanno fornito servizi di «modellazione, benchmarking e creazione di slide», definendo il tutto «un lavoro fenomenale».

 

Un Iran sempre più nazionalista. Ma anche sempre più solo [a cura di Claudio Fontana]

Dopo la “guerra dei dodici giorni”, e mentre ci si interroga su quanto reggerà il cessate il fuoco tra Iran, Stati Uniti e Israele, due esponenti di punta del governo iraniano hanno scelto di parlare ai media occidentali. L’obiettivo sembra piuttosto chiaro: convincere il presidente americano Donald Trump a tenere a freno Benyamin Netanyahu e consolidare la tregua. Di per sé, si tratta di un dato che si presta a una duplice interpretazione: la semplice buona fede iraniana o l’ammissione che il sistema di potere della Repubblica non sarebbe più in grado di sostenere un altro assalto israelo-americano. Il presidente della Repubblica, Masoud Pezeshkian, ha rilasciato un’intervista a Tucker Carlson nella quale ha ribadito la disponibilità al negoziato, negato la presenza di un programma nucleare militare segreto e accusato Israele di aver tentato di assassinarlo. Nel corso dell’intervista Pezeshkian ha cercato di utilizzare un lessico che potesse solleticare gli umori della base elettorale trumpiana, puntando sulla volontà isolazionista di questa ultima. Se l’isolazionismo avesse il sopravvento gli Stati Uniti potrebbero ritirarsi dal Medio Oriente, ciò che consisterebbe nel raggiungimento di uno dei più significativi obiettivi di politica estera dell’Iran, ha osservato Holly Dagres (Washington Institute for Near East Policy). Soprattutto, l’offensiva mediatica di Pezeshkian combinata con quella del ministro degli Esteri Abbas Araghchi sembra puntare alla creazione di un solco tra Stati Uniti e Israele. Nel suo editoriale sul Financial Times, anche il ministro iraniano ha utilizzato il lessico e i concetti cari a Trump: dal fallimento dell’amministrazione Biden alle opportunità multimiliardarie per le aziende americane che deriverebbero da un ipotetico accordo tra Washington e Teheran. In particolare, Araghchi ha sottolineato come sia stato Israele a sabotare un processo diplomatico che – afferma – sarebbe stato nell’interesse americano. Al tempo stesso, il ministro iraniano ha evidenziato come per riprendere i negoziati con gli americani occorrerà tenere in considerazione che la fiducia tra le parti, già bassissima, è scesa al minimo storico. Se Trump non darà reale credito al processo diplomatico, ha scritto Araghchi, «la promessa di “America First” verrà, in pratica, trasformata in “Israele First”».

Araghchi ha partecipato al summit BRICS in Brasile, il cui comunicato finale ha condannato gli attacchi israeliani e americani all’Iran definendoli una «palese violazione del diritto internazionale» (ma mantenendo al contempo un imbarazzante silenzio nei confronti di un’altra aggressione, quella russa nei confronti dell’Ucraina). La posizione espressa dal gruppo dei Paesi emergenti è certamente caratterizzata da un importante richiamo anti-americano e anti-israeliano, ma al tempo stesso è bene osservare alcuni aspetti ulteriori. In primis, vi è la mancata partecipazione di Vladimir Putin, Xi Jinping e altri leader del gruppo, come lo stesso Pezeshkian o Muhammad bin Zayed, presidente degli Emirati Arabi Uniti. In secondo luogo, vi sono molti dubbi su quanto questa rete di Paesi possa effettivamente pesare in un contesto come quello mediorientale. Al momento l’Iran è impegnato nel tentativo di ricostruzione delle sue difese e secondo alcune indiscrezioni la Cina avrebbe venduto a Teheran nuovi sistemi di difesa. La notizia è stata smentita dai cinesi ma a essere messa in discussione è la reale capacità (oltre alla volontà) di Pechino di contribuire alla difesa dell’Iran.

I legami con Russia e Cina finora non hanno dato frutti significativi. Durante l’assalto israeliano, ha osservato Al-Monitor «i due [Paesi] hanno offerto poco più che una critica diplomatica agli attacchi israeliani […] e si sono rifiutati di sostenere Teheran nella pratica». D’altro canto, conclusa la guerra, Putin ha comunicato ai giornalisti al Cremlino di essersi offerto per ricostituire le difese iraniane, ma Teheran «non era particolarmente interessata». La diffidenza iraniana nei confronti della Russia ha radici storiche e politiche profonde, e mostra come l’approccio voluto da Khamenei, secondo il quale per aggirare l’isolamento impostole dagli Stati Uniti la Repubblica Islamica deve “guardare a Est”, è sempre più sfidato dalla realtà dei fatti. Nell’ora della verità, sotto le bombe americane e israeliane, «la realtà di questo conflitto [ha mostrato] che Russia e Cina non hanno soccorso l’Iran. Questo mette a nudo i limiti dell’idea dell’asse», ha dichiarato Alexander Gabuev, direttore del Carnegie Russia Eurasia Center, interpellato dal New York Times. «Ognuno di questi Paesi è piuttosto egoista e non vuole essere coinvolto nelle guerre degli altri. Si tratta di guerre molto diverse e di conflitti diversi. I Paesi non condividono necessariamente le stesse strutture, gli stessi valori e gli stessi legami istituzionali come fanno gli Stati Uniti con i loro alleati». Sulla stessa linea si sono espressi Alexander Palmer e Sofiia Syzonenko (Center for Strategic and International Studies), i quali hanno specificato che «mentre Russia e Iran si oppongono entrambi all’ordine mondiale post-Guerra Fredda […], la posizione del Cremlino sulla guerra tra Israele e Iran riflette interessi più tradizionali: preservare la stabilità regionale, bilanciare le relazioni con gli avversari arabi dell’Iran, criticare le azioni statunitensi come ipocrite e affermare il proprio status di grande potenza. In alcuni casi, questi interessi sono allineati con quelli dell’Iran. Ma nessuno di essi indica che il sostegno di Teheran [nella guerra all’Ucraina, NdR] abbia garantito il pieno impegno di Mosca nella difesa dell’Iran». È per questo che Ali Vaez, direttore del programma Iran dell’International Crisis Group, ha dichiarato al Wall Street Journal che in Iran «c’è un enorme grado di disillusione nei confronti della Russia. La guerra ha ricordato sia all’élite politica che all’opinione pubblica iraniana quanto il Paese sia solo. E alcuni sostengono che l’Iran dovrebbe quasi diventare uno Stato vassallo della Cina, ufficialmente, perché non c’è altra scelta».

Anche questa, tuttavia, non sarebbe una strada indolore: la recente guerra ha riportato in auge i sentimenti nazionalisti iraniani. Secondo Amwaj Media la presenza di continui richiami alla “nazione iraniana” e a elementi patriottici anche in occasione di festività religiose come Ashura «riflettono sempre più un passaggio da un’identità “islamico-iraniana” a una “iraniano-islamica”, in cui il nazionalismo viene posto in primo piano all’interno di un quadro islamico sciita». Anche per Mohammad Ayatollahi Tabaar (Harvard Kennedy School) «invece di suscitare l’indignazione popolare nei confronti dello Stato iraniano, gli attacchi hanno portato a un’esplosione di nazionalismo». Al tempo stesso, ha scritto Ayatollahi Tabaar su Foreign Affairs, «è improbabile che la società iraniana diventi più rigidamente islamista in risposta agli attacchi [occidentali]. Per mantenere la stabilità interna, il governo potrebbe persino tollerare una maggiore libertà sociale. Tuttavia, il regime probabilmente diventerà più repressivo, arrestando chiunque ritenga un traditore. E, cosa fondamentale, gli iraniani potrebbero essere più disposti ad accettare lo Stato così com’è. Il Paese potrebbe ora avere un nuovo contratto sociale, che assegna priorità assoluta alla sicurezza nazionale». In questo contesto, la ripresa delle ostilità con Israele e gli Stati Uniti non sarebbe funzionale agli interessi iraniani. Almeno per ora.

 

Quanto è difficile spegnere l’incendio siriano [a cura di Alessandra De Poli]

È di questa mattina la notizia, diffusa dalla Reuters, secondo cui il gruppo delle Nazioni Unite che si occupa del monitoraggio delle sanzioni non ha riscontrato “legami attivi” tra al-Qaeda e l’attuale governo siriano, che vede ai suoi vertici diversi ex jihadisti di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), prima legati ad al-Qaeda e poi al sedicente Stato islamico. Il rapporto dell’Onu, visionato in anteprima dall’agenzia di stampa, «giunge in un momento in cui i diplomatici si aspettano che gli Stati Uniti chiedano la rimozione delle sanzioni ONU su HTS» e il presidente Ahmed al-Sharaa. A inizio settimana, gli Stati Uniti hanno revocato la designazione di HTS come organizzazione terroristica riconoscendo «le azioni positive intraprese dal nuovo governo siriano sotto la guida del presidente Ahmed al-Sharaa», ha affermato il Segretario di Stato, Marco Rubio. «È il processo politico che si sta adeguando all’annuncio di Trump a Riyad», ha detto il ricercatore Aaron Y. Zelin al Washington Post facendo riferimento alla visita del presidente statunitense nel Golfo a maggio, durante la quale aveva annunciato per la prima volta la volontà di rimuovere l’embargo a Damasco. «Si tratta di un processo continuo che il governo e la burocrazia statunitensi continueranno a gestire per almeno i prossimi sei-dieci mesi», ha aggiunto Zelin.

Come nel caso della “Riviera di Gaza”, anche in Siria sembra prevalere la spinta verso il ritorno del Paese nei circuiti economici mondiali. Tuttavia, «il Global Compact delle Nazioni Unite ha esortato le aziende e gli investitori ad adottare pratiche più responsabili nelle aree colpite da conflitti e ad alto rischio, in modo da posizionarsi come attori cruciali nel garantire pace e stabilità», puntualizza un’analisi apparsa su The Conversation, facendo riferimento al caso di Lafarge Cement Syria (LCS), filiale di una multinazionale francese che «ha continuato a operare durante la guerra civile siriana dal 2011 al 2014» stipulando accordi con vari gruppi armati tra cui lo Stato islamico e Jabat al-Nusrah (poi diventato HTS). Un’operazione poi «culminata in un ritiro forzato dalla Siria» e in un procedimento legale «per presunto finanziamento del terrorismo» in violazione delle sanzioni. Lo studio pubblicato sulla rivista online sostiene che «con il deteriorarsi della sicurezza, le aziende possono ritrovarsi invischiate in rapporti con i poteri locali, adattandosi gradualmente per sopravvivere, fino a diventare così radicate da rendere impossibile il ritiro».

In Siria, «i parenti delle vittime del regime dell’ex dittatore provano rabbia e frustrazione per la mancanza di trasparenza nelle azioni intraprese dal nuovo governo, che dovrebbero far luce sugli abusi del passato», si legge in un reportage de Le Monde. La popolazione siriana aveva accolto con favore l’istituzione di due commissioni nazionali per le persone scomparse e la riconciliazione nazionale. Ma la seconda, sottolinea il quotidiano francese, «si concentra esclusivamente sui crimini commessi dal precedente regime, senza alcuna disposizione per indagare sulle violazioni commesse dai gruppi di opposizione, e solleva preoccupazioni». Le atrocità commesse dal precedente regime, soprattutto nelle famigerate prigioni di Sednaya, sono raccontate in un articolo del Wall Street Journal: «Hanno radunato 600 persone e le hanno uccise in tre giorni, circa 200 ogni notte», ha spiegato un ex soldato siriano parlando di massacri risalenti al 2023, quando Bashar al-Assad «era pronto a uscire dal suo isolamento internazionale» per rientrare nella Lega Araba.

Oggi, invece, resta ancora l’incognita dei rapporti con Israele e con le fazioni curde che dominano il nord-est della Siria. Questa settimana il presidente Sharaa ha incontrato il capo delle Forze siriane democratiche (SDF), Mazlum Kobane, insieme all’inviato speciale USA Thomas Barrack e altri diplomatici «nel tentativo di promuovere un accordo per integrare la regione guidata dai curdi e le sue forze armate con il governo centrale», scrive Al Monitor. «C’è una crescente stanchezza curda», ha affermato una fonte anonima, segnalando la volontà della minoranza di vedersi concessa una demarcazione dei propri territori, che rischia di produrre una sorta di autogoverno nelle aree del nord-est, a cui Damasco si oppone.

Anche con Tel Aviv «raggiungere la pace non sarà facile. Anzi, potrebbe non essere possibile», sostiene Foreign Policy. Ma ciò non vuol dire che non possano aprirsi possibilità di cooperazione: «Oggi, Siria e Israele possono trovare un terreno comune nell’affrontare minacce comuni, in particolare Hezbollah e altri gruppi paramilitari iraniani che operano vicino ai loro confini. I negoziati che privilegiano questi obiettivi modesti rispetto a un accordo di pace globale avranno molte più probabilità di produrre risultati tangibili». Le alture del Golan occupate dallo Stato ebraico restano l’ostacolo principale, ma non il solo, continua la rivista: «al-Sharaa governa un Paese ancora alle prese con la guerra civile, con istituzioni fragili e un’opinione pubblica scettica. Israele era già profondamente impopolare in Siria e i recenti eventi non hanno fatto che aggravare la situazione», per cui anche i gesti simbolici di pace potrebbero essere respinti, soprattutto dai gruppi jihadisti che avevano sostenuto l’ascesa di al-Sharaa e ora sono delusi dal nuovo governo, condannato come «non islamico» da alcune formazioni.

A complicare la situazione questa settimana si sono aggiunti «incendi boschivi che hanno bruciato più di 14.000 ettari» a causa della siccità, «la peggiore che abbia colpito la Siria negli ultimi decenni» riferisce il New York Times. Gli incendi, durati sei giorni, hanno interessato soprattutto la regione costiera di Latakia, perlopiù abitata dalla minoranza alawita da cui proveniva anche la famiglia Assad e già teatro di massacri su larga scala a marzo. La crisi «si è rivelata l’ultimo banco di prova per la nuova leadership siriana, impegnata a stabilizzare una nazione in difficoltà». Secondo alcune fonti interpellate da Le Monde, l’origine degli incendi potrebbe essere dolosa: «il gruppo sunnita radicale Ansar Al-Sunna ha rivendicato la responsabilità di diversi incendi», anche se secondo alcuni potrebbe trattarsi di un tentativo, da parte del gruppo responsabile degli attacchi contro le minoranze alawite e cristiane, di intestarsi il “merito” di un’azione non sua, afferma il quotidiano francese.

 

​​​​​​​Libia: vigilia di una nuova esplosione di violenza?​​​​​​​​​​​​​​ [a cura di Claudio Fontana]

La notizia è nota: una delegazione europea guidata dal commissario Magnus Brunner, di cui faceva parte anche il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi assieme agli omologhi di Grecia e Malta, è stata respinta dopo essere atterrata all’aeroporto di Bengasi, nell’est della Libia. Nel duro comunicato emesso dalle autorità della Cirenaica si parla di “personae non gratae”. La delegazione si era recata a Bengasi dopo essere stata a Tripoli per discutere di flussi migratori. Al di là delle dichiarazioni ufficiali che spiegherebbero i motivi di un così aspro confronto (riassumibili in elementi di protocollo diplomatico), è bene comprendere come questa crisi si inserisca nel quadro di una Libia sempre più instabile e penetrata da attori esteri.

Anzitutto occorre chiarire che non vi è alcun dubbio relativamente al fatto che se il governo di Bengasi è il braccio dello schiaffo nei confronti della delegazione europea, il cervello è il feldmaresciallo Khalifa Haftar. Quest’ultimo gode di un controllo pressoché completo sul Osama Hammad, primo ministro del governo libico non riconosciuto internazionalmente. Ecco perché, come ha scritto il portale greco Protothema, la convinzione è che si sia trattato di una trappola organizzata proprio dal feldmaresciallo. Due sono le interpretazioni possibili: la prima è che Haftar, di concerto con la Russia di cui è partner, abbia scelto di sferrare un colpo all’Unione Europea; la seconda, più probabile, è di aver assistito allo scontro tra Grecia e Turchia, con italiani, maltesi ed europei come “vittime collaterali”. Domenica scorsa, infatti, era arrivato a Bengasi il ministro degli Esteri greco Giorgos Gerapetritis, il quale aveva apertamente dichiarato che l’incontro che avrebbe avuto con Haftar era finalizzato a contenere 1) l’immigrazione e 2) la crescente influenza turca (Le Monde), simboleggiata anche dalla riapertura dei voli operati da Turkish Airlines su Bengasi. Il trattamento riservato alla delegazione europea pochi giorni dopo sembra esprimere soprattutto il fallimento della missione greca. Secondo Jalel Harchaoui, ricercatore esperto di affari libici, quanto avvenuto «rivela proprio come la Turchia sia riuscita a sedurre la famiglia Haftar allontanandola da Atene».

Intanto l’instabilità in Libia continua ad aumentare: da un lato l’avanzata delle forze guidate dal generale Osama al-Jwaili sulla città di Ghadames indica la formazione di nuovi equilibri all’interno della regione della Tripolitania, dall’altro il continuo rafforzamento delle forze militari all’interno della capitale Tripoli e nei suoi dintorni hanno portato la missione UNSIMIL delle Nazioni Unite a diramare un comunicato in cui invita «tutte le parti a evitare l’uso della forza, in particolare nelle aree densamente popolate, e ad astenersi da qualsiasi azione o retorica politica che possa provocare un’escalation o portare a nuovi scontri». Al tempo stesso la rinnovata intesa turca con Haftar non implica una rinuncia da parte di Ankara ai legami con il GNU: lo dimostrano i nuovi accordi di cooperazione militare firmati proprio questa settimana. L’impressione generale è di essere alla vigilia di un nuovo scontro per il controllo del Paese nordafricano.