Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 03/10/2025 16:39:01
«Quando una tempesta infuria su una nave, il pessimista si lamenta del vento, l’ottimista spera che si plachi e il realista regola le vele». Questo detto, citato dall’ambasciatore palestinese in Costa d’Avorio ‘Abdul Karim Aweida, sembra ben riflettere le posizioni che i giornalisti arabi hanno assunto rispetto al piano di pace proposto dall’amministrazione statunitense. Il diplomatico, che scrive sulle colonne del quotidiano filo-emiratino al-‘Arab, sente di appartenere alla terza categoria, quella dei realisti, e definisce la proposta di Trump «un’opportunità storica» a cui si è arrivati grazie agli «sforzi del quintetto arabo, guidato dal Regno dell’Arabia Saudita e comprendente l’Egitto, la Giordania, il Qatar e gli Emirati, e del trio islamico formato dal Pakistan, dalla Turchia e dall’Indonesia». Facendo squadra, questi Paesi «sono riusciti a cambiare l’equazione e salvare il popolo palestinese da una cospirazione di vasta portata che avrebbe distrutto la sua causa». L’aspetto più importante, sottolinea Aweida (in verità con molto ottimismo) è che il piano non riguarda solo la fine della guerra, che «è la priorità assoluta del popolo palestinese in questo momento, ma è anche e soprattutto un progetto di pace in Medio Oriente, questa volta guidato dagli Stati Uniti e con un sostegno arabo e internazionale senza precedenti». Bella l’immagine che accompagna l’articolo, raffigurante Trump nelle vesti del burattinaio che pilota il braccio di Netanyahu in versione marionetta, una caricatura che richiama esplicitamente la scena, diventata virale, in cui il presidente americano costringe il Primo ministro israeliano a telefonare all’emiro del Qatar per scusarsi dopo l’attacco a Doha del 9 settembre scorso.
Entusiasmo anche sul sito d’informazione emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariyya, dove si parla di un «quadro rivoluzionario» e della «più seria opportunità degli ultimi due anni [di porre fine alla guerra]». Il politologo Mohammad Faisal al-Dosari celebra l’azione diplomatica e politica intrapresa dal quintetto arabo e definisce l’approccio degli Emirati «realistico, umanitario e discreto». I due protagonisti del conflitto sono invece entrambi in difficoltà, prosegue l’articolo: Netanyahu «cammina su una fune», con l’estrema destra fermamente contraria al piano da un lato, e un’opinione popolare perlopiù favorevole al piano, ma scettica sulla possibilità di attuazione, dall’altro. Hamas è con le spalle al muro: per il movimento islamista accettare il piano significa porre fine alla sua autorità a Gaza, ma rifiutarlo «imporrebbe un costo politico e umanitario molto maggiore di quello già sostenuto». Il giornalista riprende l’immagine della nave e del vento: «In politica, così come in mare, non cambiamo il vento, aggiustiamo solo le vele. E questo momento richiede esattamente questo». Il piano di Trump, conclude l’articolo, «non è perfetto, ma oggi è l’unico quadro realistico che gode di un ampio sostegno americano e arabo-islamico. È riuscito a ridefinire ciò che era possibile ridefinire e a prevenire scenari peggiori. L’importante è trasformare le parole in realtà».
«Il mondo è fatto di priorità», esordisce il giornalista Samir ‘Atallah sul quotidiano panarabo al-Sharq al-Awsat, di proprietà saudita. «Stabilirle sembra semplice, ma quando si arriva al dunque, è molto difficile». Sia Gaza che Israele potrebbero voler conseguire il loro obbiettivo fino alla fine, ma a quale costo? Oggi «la priorità dei popoli è vincere con la vita, non con la morte. Le guerre sono anche saggezza, visione, responsabilità e manovre, soprattutto protezione delle vite e delle proprietà nella misura del possibile. La priorità ora è riportare in vita Gaza. Tirarla fuori dall’inferno del genocidio. E che a Donald Trump venga pure assegnato il premio per la pace. Qualsiasi cosa è meglio delle guerre di Netanyahu...!», conclude ‘Atallah.
Realismo e priorità sono le parole chiave anche dell’articolo dello scrittore palestinese Jamal Zahalka, pubblicato su al-Quds al-‘Arabi (“La Gerusalemme araba”), storicamente tra i quotidiani più militanti a sostegno della causa palestinese. L’attuale fase storica «è molto delicata e richiede di affrontare gli sviluppi con realismo e saggezza, tenendo conto del progetto nazionale e degli interessi supremi del popolo palestinese: in primis fermare lo spargimento di sangue a Gaza e alleviare le sofferenze della sua popolazione. Purtroppo, a parte il pessimo piano di Trump-Netanyahu, non ne esiste un altro per porre fine alla guerra di annientamento. La tragedia che ci troviamo ad affrontare è che il costo del rifiuto è troppo alto e non è sostenibile per la nostra gente a Gaza. In questa circostanza difficile, la risposta corretta al piano proposto è “Sì, ma…”», cioè con alcune riserve. Il sogno di Netanyahu, scrive ancora il giornalista, è che Hamas rifiuti il piano, così che Israele sia giustificato a proseguire la guerra a Gaza.
La risposta di Hamas al piano di Trump dovrebbe essere una sola, scrive su al-‘Arabi al-Jadid Tamer Qarmout, professore di Politiche pubbliche presso il Doha Institute for Graduate Studies: «Accogliamo l’iniziativa e affidiamo ai Paesi arabo-islamici che la sostengono il compito di seguirne l’attuazione, fino al momento del ripristino dell’unità nazionale palestinese». Il piano di Trump segna il livello massimo di influenza e potere che i Paesi arabo-islamici sono disposti a mettere in campo, spiega Qarmout. «Per i palestinesi e per molti arabi questo può apparire deludente, poiché non risponde pienamente alle loro speranze e aspirazioni, ma a voler essere realisti, questo piano rappresenta comunque una svolta significativa». Il messaggio questa volta è chiaro ed esplicito, prosegue l’articolo: «I movimenti nazionali palestinesi, compreso Hamas, devono adattarsi alle regole del gioco stabilite dalla regione e muoversi all’interno di esse sfruttando i mezzi di pressione e le azione disponibili».
Per alcuni giornalisti di al-Jazeera, il realismo sfocia nel pessimismo. Oraib al-Rantawi, direttore del Centro per gli Studi politici di Gerusalemme, ridimensiona il merito della diplomazia araba nel contribuire a formulare l’iniziativa di pace, resa possibile principalmente «dalla popolazione di Gaza e dalla resistenza». Secondo il giornalista, anche se viene intrapreso, il percorso di pace è destinato a interrompersi nel momento in cui emergeranno le grandi questioni: il destino dell’occupazione e degli insediamenti, il destino di Gerusalemme e dei luoghi santi, e il diritto dei palestinesi al ritorno alla loro terra.
Ancora su al-Jazeera, Mohammed El-Senousi – professore di Affari internazionali all’Università Mohammad V del Marocco – elenca le possibili conseguenze nefaste dell’iniziativa di pace americana. Secondo lo studioso, l’iniziativa comporterebbe diversi rischi: una tutela esterna prolungata nel tempo, che escluderebbe i palestinesi dalle decisioni sul proprio futuro; la frammentazione del progetto nazionale; l’occidentalizzazione dell’economia e della politica; l’erosione dei diritti fondamentali, incluso il diritto alla sovranità; e, infine, l’indebolimento della resistenza politica e sociale, attraverso il disarmo e lo smantellamento delle reti di opposizione. Il piano viene definito «una rete di mine e trappole strategiche attentamente progettate, volte non solo a gestire una crisi urgente, ma anche a riprodurre una lunga esperienza di emarginazione dei diritti dei palestinesi e a trasformare il progetto nazionale in un dossier tecnico e in un’agenda temporanea, destinata a essere abortita e definitivamente sepolta».
Sugli stravolgimenti geopolitici degli ultimi due anni è intervenuto anche Turki al-Faisal, già capo dei servizi segreti sauditi dal 1979 al 2001, intervistato dal giornalista ‘Abdullah al-Mudaifer durante il programma televisivo “Fi al-Sura, letteralmente ‘Nell’immagine’”. Nelle quasi due ore di conversazione, al-Faisal ha ripercorso le varie fasi della questione palestinese, per poi definire «un errore» la strategia di Hamas, perché «intraprendere una resistenza militare contro una forza più potente ed efficace di te comporta rischi e ripercussioni per la tua comunità e per i cittadini in generale, e questa è stata la scelta di Hamas. Se avessero perseguito una resistenza pacifica, credo che avrebbero potuto ottenere risultati migliori». Ma il principe saudita è stato critico anche verso il nome degli accordi di normalizzazione con Israele: «Gli accordi raggiunti tra Israele e alcuni Paesi, che ora vengono definiti abramitici, a mio avviso non hanno alcuna relazione con il nostro profeta Abramo, la pace sia su di lui. È semplicemente un accordo politico tra Paesi che hanno raggiunto un consenso per stabilire una relazione tra loro». E ha invitato a considerare Abramo sullo stesso livello dei profeti e dei messaggeri, aggiungendo: «non coinvolgiamolo in questa questione». Il giornalista ha chiesto quindi un commento sul riconoscimento dello Stato palestinese da parte di Francia, Gran Bretagna e altri stati europei. Tale riconoscimento, ha spiegato l’alto funzionario saudita, è il risultato dell’impegno di re Salman e del principe ereditario, e non è soltanto simbolico, ma ha delle implicazioni pratiche: «Gli stati che riconoscono la Palestina si impegnano a tutelarne i diritti e l’esistenza geografica». La presenza di coloni e insediamenti israeliani sulle terre palestinesi in Cisgiordania, ha proseguito, rappresenta una violazione che tutti i Paesi che hanno riconosciuto la Palestina dovrebbero contrastare concretamente, non solo a parole. Francia e Gran Bretagna, in particolare, sono chiamate a prendere misure concrete per liberare il popolo palestinese dalla colonizzazione, anche attraverso l’adozione di sanzioni mirate. Al-Faisal ha illustrato quindi la visione saudita del Medio Oriente. «Come cittadino saudita, mi rifaccio alle parole dei nostri sovrani, da re ‘Abdulaziz a Mohammad bin Salman. Già durante la prima conferenza islamica, convocata da re ‘Abdulaziz nel 1926 e alla quale parteciparono i leader di tutti i Paesi islamici, re ‘Abdulaziz invitava a perseguire l’unità, superando le divisioni dottrinali e di altro tipo che avrebbero potuto influire su di noi come musulmani. Questa linea è stata mantenuta da tutti i successivi sovrani. Re Faisal, per esempio, incoraggiò la cooperazione tra i Paesi islamici. La Lega araba e poi il Consiglio di Cooperazione del Golfo hanno raccolto e portato avanti questo approccio. Oggi ciò che fa Mohammed bin Salman è promuovere la cooperazione tra i popoli».
Al Sharaa a New York e «l’astuzia della ragione» [a cura di Farah Ahmed]
In occasione dell’ottantesima sessione delle Nazioni Unite a New York, il presidente siriano Ahmed al-Sharaa – un tempo noto come al-Jolani, ex leader della milizia jihadista Hayat Tahrir al-Sham – è stato il primo Capo dello Stato del suo Paese a rivolgersi all’Assemblea generale dal 1967. La sua visita, dal forte valore simbolico, ha suscitato ampie riflessioni nella stampa araba.
Sul quotidiano al-Quds al-Arabi, lo scrittore siriano Wael Mirza ha osservato che «non vi è episodio tanto emblematico del ritorno della Siria sulla scena diplomatica globale quanto le dimissioni di Geir Pedersen, l’ex inviato speciale dell’ONU per la Siria, proprio nel momento dell’arrivo di al-Sharaa a New York». Mirza ricorda come, all’inizio del suo mandato nel 2019, Pedersen avesse riconosciuto la vittoria di Bashar al-Assad e invitato il popolo siriano ad accettarla come un dato di fatto. Per questo, sottolinea l’autore, l’attuale coincidenza assume un rilievo particolare: «non si tratta solo di un caso, ma di una rappresentazione evidente della natura del sistema internazionale. […] Quando cambia l’equilibrio di potere, mutano anche linguaggi e politiche, che passano dal discorso “dell’accettazione dei fatti” a quello del “rispetto e della cooperazione” con la nuova realtà».
Con tono riflessivo, Mirza aggiunge: «nel momento in cui Ahmed al-Sharaa giunge negli Stati Uniti come presidente della nuova Siria, dopo essere stato a lungo ricercato con una taglia di dieci milioni di dollari, ci troviamo davanti a una scena che può essere descritta solo attraverso l’“astuzia della ragione” di Hegel. È quella astuzia con cui una superpotenza investe tutte le sue risorse per trasformare un uomo o un progetto in un nemico assoluto, salvo poi spalancargli le porte quando l’equilibrio di potere si modifica».
Sulla stessa lunghezza d’onda di Mirza, l’intellettuale siriano Subhi Hadidi, sempre su al-Quds al-Arabi, si sofferma su un altro episodio altamente simbolico: l’intervista concessa dal presidente siriano a David Petraeus, ex comandante dell’esercito statunitense in Iraq, proprio negli anni in cui al-Jolani era stato arrestato e detenuto per le sue attività jihadiste contro le forze americane. Hadidi osserva: «la domanda di Petraeus sulla rapidità con cui al-Sharaa e le sue fazioni riuscirono a rovesciare militarmente il regime va ben oltre la semplice curiosità di un generale in pensione di fronte a un ex combattente jihadista; […] essa oltrepassa i confini della mera ironia o dell’ “astuzia della storia” e sfiora, piuttosto, il riconoscimento implicito del fallimento della strategia militare e politica americana in Siria».
Anche il politico siriano Fayez Sara, dalle colonne del quotidiano saudita al-Sharq al-Awsat, ha sottolineato la rilevanza del discorso di al-Sharaa all’Assemblea generale. Secondo l’autore, infatti, l’intervento «ha superato la semplice dimensione protocollare, cui spesso si riducono i discorsi di molti leader, per diventare un momento introduttivo e sostanziale, nel quale al-Sharaa ha riproposto l’immagine di una Siria in transizione, in contrasto con ciò che il mondo aveva conosciuto durante i lunghi decenni del potere degli Assad, dal 1970 al 2024. Ha ricordato le sofferenze dei siriani sotto il regime di Bashar al-Assad: uccisioni, sfollamenti, distruzioni, fino alla trasformazione dello Stato in un sistema che ha usato armi chimiche e che produce “captagon”».
Su al-Arabi al-Jadid invece, lo scrittore siriano Ammar Dayoub esprime preoccupazioni circa il futuro della Siria: «Dall’incontro tenutosi tra Ahmed al-Sharaa e Donald Trump si attendeva la revoca delle sanzioni contro la Siria, parallelamente alla firma di un accordo di sicurezza con Israele. Nessuna delle due cose si è realizzata, e l’inviato di Trump in Siria, Tom Barrack, ha iniziato a parlare di de-escalation. Il risultato è che la Siria continuerà a essere esposta a pressioni sioniste».
Dayoub spiega che dietro la mancata revoca delle sanzioni vi sono diverse condizioni poste da Washington: «tra queste, la necessità di partecipare alla coalizione internazionale contro l’ISIS, la tutela dei diritti delle minoranze religiose ed etniche, e la cessazione di qualsiasi attacco contro i Paesi vicini – ossia lo Stato sionista». Per rispondere a queste richieste, osserva l’autore, la Siria deve affrontare le sfide rappresentate dalle Forze Democratiche Siriane e dalla regione di Suwayda, «dove Netanyahu non smette di ribadire la necessità di proteggere i drusi siriani».
In questo quadro, Dayoub sottolinea che l’unico punto di partenza verso una soluzione rimane quello indicato da molte voci critiche siriane e arabe: «è il ritorno alla condivisione di potere […]. Dunque, per arginare le pressioni internazionali e sioniste, occorre tornare al popolo e alle sue élite, senza limitarsi a rappresentanti di Hay’at Tahrir al-Sham».
Su questa linea, l’autore conclude con toni severi e realistici: «Dopo la visita di al-Sharaa a New York, senza la revoca delle sanzioni è ormai chiaro che la palla è nel suo campo. La loro rimozione resta un obiettivo estremamente complesso, che richiede profondi cambiamenti interni in Siria. Probabilmente sarà necessario parlare al popolo con franchezza e smettere con la propaganda secondo cui le sanzioni sarebbero già state revocate. Occorrerà piuttosto rispondere alle richieste politiche interne: condivisione del potere, pluralismo politico, trasparenza, avvio immediato della giustizia transizionale, fine delle nomine clientelari nella pubblica amministrazione e, soprattutto, l’abbandono di un progetto politico che, dal 8 dicembre concentra tutti i poteri nelle mani del presidente e genera quotidianamente nuove crisi».