Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 06/06/2025 13:00:12
Sulla nuova Siria di Ahmad al-Sharaa aleggia lo spettro del precedente regime, che fa ancora avvertire la sua presenza in diversi ambiti, dall’economia al confessionalismo. I giornali di area filo-qatariota sottolineano lo stato di confusione che regna nel Paese, conteso a livello economico e politico da diverse potenze regionali. La stampa filo-emiratina e saudita, pur sottolineando le numerose fragilità interne, guarda con spiccato ottimismo al futuro del Paese, soprattutto a seguito dell’annuncio di Donald Trump sulla revoca delle sanzioni.
I giornalisti siriani che scrivono sulle testate di proprietà qatariota elencano i numerosi problemi lasciati irrisolti dal precedente regime, in primis quelli di natura economica. Al tempo di Assad, scrive il giornalista ‘Ali al-‘A’id su al-‘Arabi al-Jadid, non era possibile avviare alcun genere di business senza la compartecipazione della «mafia» del regime. Ma se quella era una circostanza nota a tutti, con l’attuale governo islamista le cose sono decisamente più confuse: «nonostante le intenzioni di procedere con trasparenza, queste da sole non bastano a ricostruire un Paese come la Siria. Si teme che gli appalti vengano concessi in maniera arbitraria sia ricorrendo a procedimenti opachi sia favorendo aziende di certi Paesi, in base a considerazioni in cui l’elemento politico prevale su quello economico». In ambito politico e identitario, aggiunge Ahmad Tu‘mah, ex primo ministro del governo ad interim siriano formato dalle opposizioni in esilio in Turchia, il governo deve affrontare un altro “spettro” del passato: il confessionalismo, fenomeno che Assad aveva esteso a tutte le componenti religiose, inclusa la maggioranza sunnita: «tra i danni più disastrosi prodotti dal regime spicca il confessionalismo, il più pericoloso strumento per frammentare la società siriana, ricreandola sulla base di una logica di lealtà e non di appartenenza nazionale […]. Fino ad ora, le autorità non si sono dimostrate sufficientemente serie o intenzionate ad avviare un processo che elimini alla radice la crisi data dal confessionalismo». In merito alle questioni sociali, lo scrittore Mouaffaq Nyrabia si domanda su al-Quds al-‘Arabi quale sia la direzione che sta prendendo il suo Paese e critica i connazionali che mostrano un atteggiamento troppo benevolo, ai limiti dell’accondiscendenza, verso il governo di al-Sharaa: «c’è una maggioranza che tende a dare una fiducia smodata alle nuove autorità, fatto che porta ad accettare i loro proclami senza averli esaminati con la dovuta attenzione o senza metterle in dubbio». Non è però facile trovare la “giusta misura” («tenere il bastone al centro» nell’originale arabo), in quanto anche il fenomeno opposto, la critica serrata e senza sconti, potrebbe mettere a dura prova la stabilità del neonato regime. La testata filo-islamista Arabi 21 sospende il giudizio: al momento la «bussola» siriana punta in tre direzioni diverse (Turchia, Occidente e Golfo), ma non chiarisce quale potrebbe essere la meta finale.
Veniamo alla stampa di area filo-emiratina e filo-saudita. Alquanto favorevole il parere dell’intellettuale e accademico libanese Ridwan al-Sayyid che sulla testata Asas Media elogia il presidente al-Sharaa, dotato di «capacità straordinarie e di notevole dinamismo» e aggiunge ammirato: «è sorprendente: è come se stesse calcando la scena politica da più di mezzo secolo! Ieri era con il ministro degli esteri saudita, domenica si è recato in visita in Kuwait. Naturalmente sta cercando di “vendere” il suo Paese in tutto il mondo arabo, in Europa e in America». È chiaro, osserva al-Sayyid, che permangono ancora diverse difficoltà e problemi interni – come la questione delle minoranze drusa, alawita e curda – ma le promesse di crescita economica unita alla fine del regime di terrore di Assad lasciano ben sperare per il futuro. Sempre su Asas, Nadim Qutaysh si spinge oltre e traccia un paragone (impietoso) tra la situazione della Siria e quella del vicino Libano: «in meno di un anno la Siria è passata da Paese isolato a livello internazionale a una piazza di riposizionamento politico-economico» aperta agli investimenti miliardari del Golfo; «al contrario, il Libano è in stallo», nonostante alcuni progressi politici. Meno benevolo Younis al-Issa che su al-‘Arab sottolinea la necessità di creare un apparato statuale degno di questo nome: «dopo la caduta di Assad, occorre fare una distinzione tra Stato e potere […]. Il nuovo Stato deve essere aperto al mondo e stabilire le sue relazioni in base all’interesse comune, dando a tutti i cittadini la possibilità di partecipare alla politica nazionale. Ma la sfida più grande che attende la nuova Siria riguarda l’eredità di Assad: uno Stato esausto in tutti gli ambiti, al cui interno è scomparso il concetto stesso di “Stato”» permettendo alle «potenze regionali e internazionali di sfruttare e riempire quel vuoto, impossessarsi del potere e trasformare la Siria in un’arena di scontro». Un altro articolo anonimo di al-‘Arab critica, a seguito di un attacco ai danni della comunità alawita, la debolezza dell’esercito: «l’incidente rappresenta un duro colpo ai tentativi di al-Sharaa di rassicurare l’estero in merito alla protezione delle minoranze e a integrare migliaia di combattenti stranieri nelle forze regolari».
Del tutto positivo invece il giudizio del quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat. Il giornalista e accademico ‘Abd Allah al-Ridadi paragona la Siria al Sudafrica post-Apartheid degli anni Novanta che, dopo l’eliminazione delle sanzioni, si rese protagonista di una grande rinascita economica: «oggi la Siria affronta un momento simile a quello del Sudafrica, anche se ora ci sono molte più opportunità di investimento; i Paesi amici, soprattutto quelli della regione, non hanno perso tempo a esprimere il loro sostegno alla Siria. L’Arabia Saudita, sotto la guida del principe ereditario, ha provato a eliminare le sanzioni durante la visita di Donal Trump, sfruttando le buone relazioni con gli Stati Uniti».
Il Libano prova a chiudere l’era delle milizie, ma «gira a vuoto» [a cura di Farah Ahmed]
Lo scorso 21 maggio, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), si è recato a Beirut per incontrare il nuovo presidente libanese Joseph Aoun. Al centro dei colloqui vi è stata l’urgenza di disarmare i campi profughi palestinesi in Libano, ponendo fine al cosiddetto Accordo del Cairo del 1969, che garantiva ai palestinesi il diritto di armarsi per la lotta contro Israele. La decisione si inserisce nel piano del governo libanese di riaffermare il monopolio statale sull’uso della forza, eliminando progressivamente le armi detenute da Fatah, Hamas ed Hezbollah.
La notizia ha generato reazioni contrastanti nei media panarabi, collegate a dinamiche regionali più ampie e alla complessità della realtà libanese.
Intervistato da Sky News Arabiyya, il ricercatore libanese Nizar Ghanem ha affermato che «ormai la ragione per cui erano concesse le armi palestinesi è venuta meno» e aggiunto: «La questione dei campi profughi è una questione eminentemente politica, di rilievo regionale. Il governo libanese si trova sotto l’influenza degli accordi stipulati tra Arabia Saudita e Stati Uniti, che prefigurano un cambiamento negli equilibri di potere in Medio Oriente». Ghanem sottolinea che il Libano ha l’obbligo, nei confronti di Washington e della sua inviata speciale Morgan Ortagus, di procedere al disarmo di Hezbollah: «In quest’ottica, il disarmo palestinese diventa una sorta di prova generale dell’impegno libanese. Hezbollah, da parte sua, sosterrà formalmente il processo, ma con l’unico scopo di guadagnare tempo».
Sul quotidiano saudita al-Sharq al-Awsat, il giornalista libanese Hanna Saleh si schiera chiaramente a favore del disarmo. «È evidente l’impegno dell’OLP nel prevenire qualsiasi tentativo di faida tra palestinesi e libanesi, che le forze della resistenza potrebbero alimentare». Tuttavia, a differenza di Ghanem, Saleh accusa apertamente Hezbollah: «Hezbollah si oppone al ritiro delle armi perché sa bene che ciò minaccia i suoi obiettivi. Il partito spera di riportare indietro le lancette dell’orologio, lanciando proclami trionfalistici intrisi di arroganza e negazione, ignorando le implicazioni dei profondi mutamenti in atto nelle dinamiche regionali».
Più severo ancora è, sullo stesso giornale, Hazem Saghieh, scrittore e editorialista libanese, che scrive: «Le dichiarazioni di Hezbollah, dopo lo scossone subito con la ‘guerra di sostegno’ e le sue conseguenze, rivelano un chiaro stato di delirio». E continua: «Il fatto che Hezbollah, pur non essendo riconosciuto ufficialmente, si ponga come una struttura parallela e superiore allo Stato, accusando di tradimento chiunque gli si opponga, è stato per lungo tempo considerato un suo diritto incontestabile […]. Ma il passaggio da una fase in cui la dipendenza era la norma e il delirio veniva tollerato, a una fase in cui il delirio viene denunciato e i suoi portatori sono chiamati ad adattarsi, è particolarmente doloroso». Saigha amplia poi l’analisi, collegandola al contesto internazionale: «Quel delirio ha una funzione ben precisa: è strumentale agli interessi dell’Iran nei negoziati con Washington. In questo quadro, è essenziale che le armi di Hezbollah restino fuori dal controllo dello Stato, così come è strategico mantenere attivi gli Houthi in Yemen come carta di scambio».
Anche Khairallah Khairallah, giornalista della testata libanese Asasmedia, afferma che Hezbollah non rinuncerà facilmente alle armi, sottolineando il legame strutturale con Teheran: «Solo il tempo potrà risolvere questa questione complessa, destinata ad aggravarsi finché l’Iran non si convincerà che le armi nei campi non le porteranno alcun vantaggio, soprattutto dopo aver perso tutte le guerre parallele a quella di Gaza. Allo stesso modo, non le gioverà mantenere le armi di Hezbollah, che non sono mai state altro che armi iraniane, dirette contro il popolo libanese e, dal 2012 in poi, anche contro quello siriano».
In un altro articolo, Khairallah sposta l’attenzione sui cambiamenti che stanno avvenendo in Siria e sul loro impatto sul Libano: «Il Libano non può ignorare i grandi cambiamenti storici in corso in Siria. La Siria sta tornando a giocare un ruolo nella regione da una prospettiva araba, non più iraniana. È chiaro che sotto la guida di Ahmad al-Sharaa Damasco mira a stabilire relazioni chiare con il mondo, Israele incluso». E conclude: «Il Libano è impegnato nel gioco delle armi in cui il “Partito” (Hezbollah) cerca di trascinarlo, attraverso campagne lanciate contro il primo ministro Nawaf Salam. Campagne che non portano né avanti né indietro, soprattutto se consideriamo la nuova occupazione israeliana da un’angolazione inevitabile: quella secondo cui le armi non hanno prodotto altro che occupazione, nell’esecuzione di un’agenda iraniana e null’altro».
Sull’altro fronte, il quotidiano libanese al-Akhbar, vicino a Hezbollah, pubblica un articolo firmato collettivamente da giornalisti, accademici e attivisti che difendono la resistenza armata: «Affermare che la resistenza fornisce un pretesto a Israele per l’aggressione significa ignorare la natura stessa di Israele come entità coloniale e aggressiva sin dalla sua fondazione». L’articolo si chiude con un’affermazione netta: «Quando lo Stato fallisce in questo compito, la difesa popolare diventa un diritto naturale, legittimo e garantito dal diritto internazionale e dal buon senso politico. La resistenza armata non è una deviazione dal progetto statale, ma una risposta necessaria all’occupazione. Ogni discussione seria sulla strategia difensiva deve partire dalla definizione chiara del nemico e delle minacce, e non da pressioni esterne o dispute settarie che vogliono eliminare le fonti di forza autonoma».
Una terza voce, più riflessiva, è quella della scrittrice libanese Dalal al-Bizri, che su al-Arabi al-Jadid descrive la situazione come un circolo vizioso: «Il Libano gira a vuoto e tutti stanno perdendo la pazienza». Secondo al-Birzi, anche la mediatrice americana Morgan Ortagus ha perso la pazienza: «Viene a Beirut, constata che il disarmo non è avvenuto, si innervosisce e lancia minacce. Alla fine, prende ispirazione dalla “riuscita” esperienza siriana». Con amarezza, la scrittrice commenta: «Giriamo in tondo: Israele ci occupa, le sue fiamme arrivano nel nostro cuore. Questo rafforza l’argomento di Hezbollah a favore del mantenimento delle sue armi. L’esercito non può affrontare né Hezbollah né Israele. La ricostruzione non avverrà senza la consegna delle armi».
Al-Birzi conclude con un timore: «Se la Siria dovesse stabilizzarsi, mantenere una sola leadership e il favore di Stati Uniti e Arabia Saudita, allora questi potrebbero affidare al suo presidente la soluzione del nostro dilemma. E la storia si ripeterebbe».