Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:36:25

Le due grandi calamità naturali che questa settimana hanno colpito il nord Africa – il terremoto in Marocco e l’uragano in Libia – hanno occupato ogni giorno le prime pagine dei giornali arabi.

 

Su al-‘Arabi al-Jadid, il giornalista marocchino ‘Ali Anouzla descrive il contesto socio-culturale dei villaggi del Haouz, la regione intorno a Marrakech colpita dal sisma. Il sisma ha portato alla luce un volto nascosto del Marocco, «le cui immagini non troviamo nei programmi di sviluppo ufficiali e nei progetti di cui si fregiano i discorsi dei mezzi d’informazione ufficiali; ha portato alla luce le verità di una realtà che non cresce, la realtà di persone che vivono ancora una vita quasi primitiva in edifici di argilla e pietra, con i tetti in legno, paglia e terra. È il Marocco dei villaggi di fango e pietra, il Marocco della gente semplice che viveva ai margini dello Stato e della società, dimenticata nei suoi villaggi remoti e isolati, il cui unico sostentamento erano l’orgoglio, la modestia e la sobrietà, che nel tempo sono stati trasformati in tesori eterni. È il Marocco della maggioranza silenziosa, che vive al di sotto della soglia di povertà o raggiunge a malapena questa ipotetica soglia, che fissa il tetto del reddito giornaliero pro capite a poco meno di due dollari. Secondo le statistiche ufficiali, [questo gruppo] rappresenta un terzo della popolazione del Marocco. Per questo gruppo non c’è posto nei programmi dei partiti politici, che lo utilizzano come veicolo durante le loro campagne elettorali, non ci sono rappresentanze sindacali che parlano in suo nome, e non ha voce nei mezzi d’informazione ufficiali. È un gruppo silenzioso che non ha il tempo di protestare e manifestare». In questi villaggi, scrive l’editorialista, il tempo pare essersi fermato, «sono rimasti esattamente come li ha trovati il colonialismo e come li ha ereditati lo Stato marocchino indipendente», e nei 67 anni di indipendenza del Paese la loro immagine è stata utilizzata per promuovere il turismo.

 

Sullo stesso quotidiano, Mohamed Ahmed Bennis ha invece posto l’accento sulla risposta di solidarietà dei marocchini verso i connazionali colpiti dal terremoto: «i disastri naturali rafforzano lo spirito nazionale all’interno delle società e la solidarietà tra le sue componenti, soprattutto in quelle società in cui la solidarietà sociale tradizionale è ancora fortemente presente». La tragedia del Haouz ha dimostrato che nella società marocchina continuano a coesistere «forme tradizionali di solidarietà che alimentano la coesione sociale» accanto «ai valori dell’individualismo e della globalizzazione, alla diffusione dello stile di vita legato alla classe media urbana e al declino dell’influenza delle forme di organizzazione sociale tradizionale (la tribù, la famiglia allargata...), un insieme di fattori che hanno sradicato la solidarietà tradizionale dalla struttura della società marocchina».

 

Su al-Quds al-‘Arabi, il giornalista palestinese Suhail Kiwan ha aperto una riflessione sui risvolti politici del terremoto. «Le catastrofi naturali, o le tragedie in generale, offrono alle persone – gli individui, le famiglie, i clan, i popoli e le nazioni – l’occasione di rivalutare le relazioni reciproche, sono un’occasione per migliorare una relazione tesa o deteriorata, o addirittura per salvare una relazione interrotta. Tendere la mano nelle difficoltà esprime intenzioni e sentimenti, così come accettare o rifiutare questo aiuto esprime una posizione». Dietro ambedue le parti, chi offre l’aiuto e chi li riceve, ci sono sempre dei calcoli politici. In questa logica, Israele si è detto disponibile a inviare aiuti al Marocco in virtù dell’accordo di normalizzazione che lega i due Paesi, non certo perché abbia davvero a cuore il destino dei marocchini colpiti dal sisma, visto il trattamento «fascista», scrive Kiwan, che riserva ai musulmani e ai luoghi sacri islamici. E da parte sua, il Marocco ha rifiutato gli aiuti israeliani per evitare di dover dare delle giustificazioni al suo popolo. Accettare gli aiuti di Israele dopo aver rifiutato l’aiuto algerino sarebbe stato imbarazzante.

 

Il sisma ha inoltre rappresentato l’ennesima occasione per mettere in luce i rapporti tesi tra la Francia e il Marocco. Una relazione difficile, segnata dal passato coloniale, le cui cifra è resa bene dal titolo di al-‘Arabi al-Jadid, “Il terremoto tra Parigi e Rabat”. Perché, come scrive il poeta siriano Bashir al-Bakr, «il terremoto non ha riparato ciò che la politica aveva rovinato tra la Francia e il Marocco, ed si è persa un’occasione importante per incontrarsi a metà strada».

 

Più severo il giornalista marocchino Tali‘ al-Saud al-Atlasi, che sul quotidiano panarabo londinese al-‘Arab denuncia la campagna mediatica lanciata dalla Francia contro il re Muhammad VI, dopo il rifiuto opposto da quest’ultimo agli aiuti offerti dall’Eliseo. «Lo Stato profondo francese immaginava che la tragedia del terremoto del Haouz sarebbe stata l’occasione per aizzare [i marocchini] contro il re», considerato da molti «l’istigatore e il modello della ribellione africana contro l’egemonia francese». Tra Parigi e Rabat è in corso una «guerra fredda», scrive l’editorialista.

 

Per quanto riguarda invece l’uragano che ha colpito la vicina Libia, e Derna in particolare, la domanda posta più spesso negli editoriali è di chi sia la responsabilità del disastro (annunciato, secondo diversi giornalisti). Del governo, è la risposta su cui tutti convergono, prima ancora che del cambiamento climatico, la cui responsabilità è solo tangenziale. Su al-‘Arab Habib al-Aswad parla di «crimine di Stato» e menziona una serie di studi scientifici che già nei primi anni 2000 mettevano in guardia dal rischio di inondazioni e di cedimento della diga di Derna. «Nel 1961 fu costruita la diga della valle di Derna e lo Stato si occupò della sua manutenzione nel 1977 e nel 1986. I residenti locali dicono che la costruzione delle dighe ha messo fine al problema delle inondazioni della città, che causavano grandi perdite in termini di vite umane e proprietà, ma il vero pericolo ha finito per nascondersi nelle dighe stesse. All’inizio degli anni Settanta, un’impresa jugoslava ha costruito due dighe sul corso della valle: la “diga al-Bilad”, un chilometro circa a sud del cuore della città, e la “diga Abu Mansour”, a tredici chilometri circa a sud della prima diga». In Libia, scrive al-Aswad, le dighe sono state progettate e costruite in maniera casuale, a causa delle reti di corruzione che da sempre permeano lo Stato. Quelle di Derna in particolare sono state costruite su un terreno caratterizzato da caverne e spaccature, e dunque inadatto a ospitare una diga. Un piano di manutenzione richiederebbe un budget tra i 7 e gli 8 milioni di dollari, ma il governo era solito stanziare soltanto 400.000 dollari, che peraltro non venivano neppure spesi regolarmente. Le condizioni della diga, spiega l’editorialista, sono peggiorate ulteriormente negli ultimi dieci anni, con al-Qaeda e l’ISIS che si sono alternate al potere in città dal 2011 all’estate 2018, a cui è seguita una nuova fase di negligenza con le forze del generale Khalifa Haftar.

 

La rottura di due dighe e il gran numero di vittime «non sono scientificamente e moralmente attribuibili alla furia della natura», ma alle costruzioni di cattiva qualità, alla negligenza e all’incapacità di anticipare i disastri naturali. E anche nel caso della Libia, i soccorsi non sfuggono alle logiche della politica perché, scrive al-Quds al-‘Arabi, «se il governo di unità nazionale e il Consiglio presidenziale libico si sono accordati sul lutto nazionale e sul considerare i luoghi alluvionati come aree disastrate indipendentemente dalla parte politica che li controlla, i circoli di Khalifa Haftar hanno continuato a perpetuare lo stato di divisione e non hanno esitato a vantarsi del fatto che il presidente degli Emirati ha contattato personalmente il maresciallo offrendogli il suo aiuto».

 

Su al-Sharq al-Awsat Jibril al-‘Obaidi, docente all’Università di Bengasi, attribuisce la responsabilità del disastro al deterioramento delle infrastrutture avvenuto nei decenni scorsi, al cambiamento climatico, ai cittadini che hanno continuato a vivere nelle aree a rischio di alluvione, ma soprattutto al governo di unità nazionale «il cui capo, riconosciuto dalla comunità internazionale, […] se ne sta seduto negli hotel di lusso di Tripoli a twittare sul suo account personale». Anche volendo però l’entità del disastro è più grande delle possibilità e delle forze dei due governi libici che si contendono la legittimità del potere al governo, dice al-‘Obaidi, e sarebbe necessario l’intervento internazionale soprattutto perché «le squadre di soccorso libiche non hanno un’esperienza sufficiente per affrontare un disastro di questa entità alla luce delle scarse capacità del governo nominato dal parlamento».


 

Il “corridoio” del G20: la Belle Époque saudita tra splendido isolamento ed elefanti [a cura di Mauro Primavera]

 

Il vertice dei G20 tenutosi a Nuova Delhi si è concluso con un annuncio di grande valore politico e commerciale: la nascita di un corridoio economico e infrastrutturale, un tracciato di ferrovie e tratte marittime che collegherà India, Medio Oriente ed Europa. Il progetto competerà con la Belt Road, conosciuta anche come nuova Via della Seta, il principale programma di sviluppo promosso dalla Cina di Xi Jiping. L’Arabia Saudita svolgerà un ruolo cruciale, mettendo in comunicazione Occidente e Oriente e incrementando ulteriormente il suo ruolo geopolitico nell’arena regionale e mediorientale. Di questo momento d’oro che sta attraversando il Paese parla diffusamente la testata panaraba al-Sharq al-Awsat, finanziata dagli stessi sauditi. In uno dei tanti articoli dedicati al tema “La nostra regione a metà tra la Belt Road cinese e il corridoio indiano”, l’incipit è quasi solenne: «guardiamo il futuro prossimo realizzarsi oggi». L’annuncio di Delhi sulla creazione di un corridoio commerciale tra India, Medio Oriente ed Europa dimostra infatti «lo slancio economico indiano verso la nostra regione […] come se leggessimo una pagina presa dalla storia passata». Il giornale si riferisce alla Belle Époque dei primi del Novecento, quando le aziende occidentali costruivano in Medio Oriente grandi arterie ferroviarie, come quella che univa Berlino a Baghdad, passando per Costantinopoli. Tornando al presente, l’autore chiede: «cosa conviene di più a Riyad, la Via della Seta cinese o il corridoio indo-europeo? E come può il Medio Oriente tenersi lontano dai guai nello scontro tra gli stati elefante?». La risposta è, molto semplicemente, «entrambi, per quanto possibile», perché sia Pechino che Nuova Delhi rimarranno i due mercati principali dell’Arabia Saudita nei prossimi anni. In un altro articolo si sottolinea come Riyad risulti centrale per la buona riuscita del progetto. Una centralità che dipende certamente dalla posizione geografica, ma non solo: «questi successi sono il prodotto di un lavoro assiduo e hanno trasformato le istituzioni legate a Vision 2030, che ha influenzato persino la cultura del settore privato e della comunità, in un grande laboratorio aperto alle opportunità, eliminando gli aspetti negativi della cultura dell’assistenza e della pastorizia che pure sopravvive ancora».  

 

Di questo momento eccezionale che sta vivendo il Paese parla, con toni più equilibrati, il quotidiano al-‘Arab, vicino agli Emirati: in un articolo a firma del direttore Haytham al-Zubaydi dal titolo «Sì a “prima l’Arabia Saudita”, no a “l’Arabia Saudita prima e ultima”» si scrive: «è questo lo scenario della visione saudita oggi. C’è un piano di profitto di un certo tipo, in un certo settore, in un certo luogo. Il surplus di capitale si dirige verso grandi investimenti ai quattro angoli dell’economia mondiale, investimenti tanto importanti quanto quelli per la realizzazione di Vision 2030 […] in tutto ciò il Paese pone il suo implicito slogan ufficiale “prima l’Arabia”». Questo approccio, scrive il direttore, ha certamente apportato benefici allo Stato e trasformato Riyad in un attore di rilevanza globale: «ora che ha desistito dal portare avanti il progetto religioso che le aveva causato solo pericoli, il suo orizzonte geopolitico è più vasto. Il problema adesso risiede nel fatto che questa politica potrebbe trasformarsi in “l’Arabia Saudita prima e ultima”. Ultimamente, e soprattutto negli ultimi due anni, il Paese sembra focalizzato soltanto sul suo progetto e si sta allontanando, giorno dopo giorno, dal suo ruolo regionale e mondiale. Un distanziamento che ha cominciato a preoccupare i suoi alleati e amici che vedono in Riyad una colonna portante per il mantenimento della stabilità mediorientale […] non c’è dubbio che lo slogan “l’Arabia prima e ultima” derivi dalle esperienze avute dalla leadership saudita nel passato, giustificando la sua posizione verso l’introversione politica, al riparo dai problemi». Al-Zubaydi teme quindi che una politica estera “zero problemi”, per quanto efficace sul piano economico, rischi di diventare controproduttiva nel lungo termine.  

 

Anche se gli Emirati Arabi Uniti figurano tra i firmatari dell’iniziativa del G20, la testata nazionale al-‘Ayn al-Ikhbariyya non si sbilancia: il vertice di Nuova Delhi si inserisce all’interno del quadro multipolare che sta emergendo, ma è ancora troppo presto per capire quando e quanto sarà efficace. L’altro quotidiano di Abu Dhabi, al-Ittihad, loda l’iniziativa indiana, ma non può fare a meno di notare come la simultanea assenza del presidente cinese e di quello russo rischino di azzopparla: «si può ritenere che il sole del G20 forse potrebbe iniziare a tramontare, che i potenti del mondo possano perdere la capacità di lavorare in sinergia, e che il futuro possa spianare la strada a polarizzazioni economiche più aspre, intensificando gli scontri politici esistenti». Chi è invece fuori dal progetto è l’Egitto: nonostante l’importanza del Canale di Suez per i collegamenti tra Est ed Ovest, il corridoio entrerà nel Mediterraneo passando attraverso Giordania e Israele. Ne discute un editoriale del quotidiano egiziano al-Ahram, che adotta un approccio pragmatico, ai limiti dell’opportunismo: se da un lato è vero che «nella febbrile competizione globale» stanno emergendo «progetti e si propongono iniziative ispirate dalla fantasia», dall’altro «rimane sempre il dovere nazionale» e  «l’importanza di interagire e cooperare, cercando di aggiungersi» a tali schemi, in modo da diventarne «una parte fondamentale, e non ospiti accolti a malincuore».      

    

Decisamente critico, invece, il giudizio sul vertice del quotidiano al-Quds al-‘Arabi, vicino alle posizioni del Qatar, che bolla i risultati del vertice come «lettera morta» (“inchiostro su carta” in arabo). Il G20 ha richiesto «duecento ore di negoziato continuo, trecento ore di incontri bilaterali, quindici bozze»; il timore è che, visto il gran numero di attori presenti, il testo finale sia un «timido collage diplomatico che eviti di toccare questioni delicate e sensibili per non irritare le maggiori potenze del gruppo». Il giornale critica inoltre il premier indiano Narendra Modi, principale promotore del corridoio commerciale, e il suo partito «estremista indù», per le vessazioni di cui è vittima la minoranza musulmana locale: «come ha fatto l’India, che ha sacrificato milioni di persone appartenenti a diverse religioni per ottenere l’indipendenza dal colonialismo britannico, a trasformarsi in un Paese che non protegge i suoi cittadini da un governo estremista che uccide in base all’identità (religiosa)?».   

 

Il destino della Palestina 30 anni dopo gli Accordi di Oslo [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Il 13 settembre è stato il trentesimo anniversario degli Accordi di Oslo, siglati alla Casa Bianca tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin alla presenza dell’allora presidente statunitense Bill Clinton. L’anniversario ha comprensibilmente conquistato le prime pagine di alcuni quotidiani. L’editorialista libanese Khairallah Khairallah si chiede che cosa è rimasto di quegli accordi. Nulla, perché trenta anni dopo la firma, «la destra israeliana ha vinto la sua guerra contro gli accordi». Uno degli errori commessi in questi decenni è stato sottovalutare la capacità di sabotaggio di due fronti alleati: il “fronte della resistenza” guidato dall’Iran e la destra israeliana. Ma «l’errore più grande resta quello di non essersi mossi rapidamente per sviluppare l’accordo e attuarne le disposizioni mentre Yitzhak Rabin era vivo. Questo è accaduto per due ragioni. Innanzitutto Yasser Arafat non sapeva molto del gioco politico in atto a Washington e di come venivano gestite le cose lì, né sapeva molto di Israele e delle tensioni all’interno di quel Paese. E poi non si è reso conto subito dell’impatto che avevano le operazioni suicide condotte da Hamas nel cambiare radicalmente la natura della società israeliana». L’alleanza tra la “resistenza”, che comprende anche Hamas, e la destra israeliana ha minato Oslo e innescato un cambiamento all’interno dello stesso Israele, in cui ormai c’è spazio solo per la destra, conclude Khairallah.

 

Una voce decisamente più critica è quella del palestinese Abdelhamid Siyam, pubblicata su al-Quds al-‘Arabi. Con gli accordi Oslo, scrive, si è «rinunciato all’unità del popolo palestinese, all’unità della terra e all’unità di intenti. Il popolo palestinese veniva limitato ai soli abitanti della Cisgiordania e di Gaza, mentre venivano esclusi tutti i palestinesi nell’interno, nei Paesi di asilo e nella diaspora, che equivalgono a più della metà del popolo palestinese. Inoltre, il riconoscimento palestinese dell’attuale Stato di Israele, che si estende sul 78% del territorio palestinese totale, significa che lo Stato palestinese sarebbe fondato sul 22% soltanto del territorio della Palestina storica». Gli accordi inoltre hanno cambiato gli obiettivi palestinesi: «non più creare uno Stato democratico su tutto il suo territorio, ma creare uno Stato palestinese comprendente la Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza». In pratica, scrive Siyam, l’unità del popolo, l’unità della terra e l’unità di intenti sono state cedute in cambio della promessa di avviare negoziati per giungere a una soluzione finale se l’Autorità nazionale palestinese dimostrerà di essere in grado di gestire la sicurezza, reprimere i manifestanti ed eliminare la Carta nazionale. Ma l’Autorità e il suo presidente, Mahmud ‘Abbas, hanno perso completamente legittimità. ‘Abbas viene accusato di essere diventato una sorta di «sovrano assoluto» (le ultime elezioni presidenziali risalgono al 2005), di essersi circondato di un piccolo gruppo di persone che lo serve e lo glorifica, ma soprattutto di essere rimasto a guardare in silenzio il processo di normalizzazione tra Paesi arabi e Israele.

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