Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 12/04/2024 16:26:44

Il destino della Giordania continua a preoccupare non poco i media arabi. Da diverse settimane nelle principali città del Paese sono sempre più numerose le manifestazioni a sostegno dei palestinesi di Gaza. Il livello di tensione nelle strade è inoltre salito dopo l’appello lanciato a fine marzo da Khaled Mesh‘al, uno dei leader di Hamas all’estero, in cui invitava i giordani a prendere parte direttamente alla guerra (ne avevamo parlato nella scorsa rassegna).

 

La stampa filo-emiratina e filo-saudita teme che il Regno hashemita possa essere fagocitato da forze politiche rivali, l’Iran e Israele, per poi essere coinvolto indirettamente nel conflitto. Il quotidiano libanese Asasmedia parla dell’esistenza di «una doppia cospirazione, israeliana e iraniana» ai danni di Amman, per rendere il Paese funzionale ciascuno al proprio progetto politico. Il progetto iraniano, scrive il giornalista libanese Ibrahim Rihan, «è iniziato dopo lo scoppio della rivoluzione di Khomenei nel 1979 e mira a espandere l’influenza di Teheran nella regione e rafforzare la sua presa politica e sicuritaria sulle capitali» arabe. Il piano procede a passi spediti soprattutto da «dopo la caduta di Baghdad nel 2003 e la transizione dell’Iraq verso l’era iraniano-americana», ciò che nel 2004 ha indotto il re giordano ‘Abdullah «a mettere in guardia contro la “mezzaluna sciita” a trazione iraniana». Il progetto antagonista, quello israelo-americano, commenta l’editorialista, è nato invece nel 1973 dall’idea di Henry Kissinger di «“dividere chi divide” in staterelli confessionali, con l’obiettivo di mantenere Israele saldo in un ambiente disgregato». Un progetto rafforzato nel 2006, spiega Rihan, quando l’ex segretario di Stato americano Condoleezza Rice annunciò da Beirut «la nascita del nuovo Medio Oriente» dopo la caduta del regime di Saddam Hussein nel 2003. Israele vede nella Giordania «una patria alternativa per i palestinesi», prosegue l’editoriale, facendo riferimento a ciò che disse «l’ex Primo ministro israeliano Ariel Sharon quando, dopo il ritiro delle forze palestinesi dal Libano nel 1982, invitò i palestinesi a fondare il loro Stato sulle terre della Giordania». L’intenzione di Teheran sarebbe invece «creare uno stato di caos in Giordania, per far sì che il Regno diventi un rifugio per le sue fazioni e un “fronte” aggiuntivo, al fine di rafforzare le carte iraniane sul campo e sgravare il partito [Hezbollah] in Libano e gli Houthi nello Yemen».

 

«La Giordania in balia della tempesta iraniana», titola lo stesso quotidiano. Dopo aver assunto il controllo dell’Iraq, della Siria e del Libano attraverso le milizie, Teheran ha puntato gli occhi sulla Giordania, un Paese che ospita un milione di siriani e circa sei milioni di palestinesi – scrive l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid. I tentativi iraniani di destabilizzare il Paese vanno avanti dal 2005, ma hanno conosciuto un’impennata soprattutto dal 2020, con le «ondate di infiltrazioni dalla Siria di bande di trafficanti di droga e di armi». E così, dal 2021 è scontro aperto tra le guardie di frontiera giordane e i trafficanti (pilotati da Damasco e Teheran) lungo i 375 chilometri di confine che il Regno hashemita condivide con la Siria, commenta l’editorialista. Ma la cosa più «spaventosa» è l’invito lanciato da Khaled Mesh‘al «ai giordani di origine palestinese, chiamati a marciare verso Gerusalemme e continuare a manifestare nelle strade di Amman». Questo appello ha generato molteplici effetti. Ha, per esempio, rinvigorito «le Forze di Mobilitazione Popolare irachene e i sostenitori di Muqtada al-Sadr, che si sono radunati al confine con la Giordania, con lo scopo di destabilizzare la sicurezza nel Regno» conclude al-Sayyid.

 

Sul quotidiano emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariyya la giornalista libanese Maria Maalouf accusa Hamas d’ingratitudine, di aver «dimenticato ciò che la Giordania, il suo popolo e le sue tribù hanno fatto per decenni a sostegno della loro causa, e come la Giordania ha difeso le città palestinesi fino agli eventi della “Battaglia di Karame” alla fine del 1967 [scontro militare tra al-Fath e l’esercito israeliano], al termine della quale le organizzazioni palestinesi e di sinistra di tutto il mondo hanno devastato le terre giordane, finché il valoroso esercito giordano e i capi tribù riuscirono a eliminare queste organizzazioni duranti i famosi eventi del “Settembre nero”, nel 1970». Provocando disordini in Giordania, Hamas aiuta indirettamente Israele a «realizzare il suo desiderio di trasferire i palestinesi della Cisgiordania in Giordania» e si rende di fatto complice della destra israeliana. Un trasferimento di massa, scrive la giornalista, genererebbe uno squilibrio demografico nel Regno hashemita, con il forte rischio di provocare una riedizione del “Settembre nero” degli anni ’70. Anziché cercare la riconciliazione intra-palestinese, Hamas ha preferito dichiarare guerra alla Giordania con il benestare di Teheran, scrive Maalouf, ciò che non stupisce particolarmente perché «la subalternità di Hamas all’ufficio di Khamenei è sotto gli occhi di tutti». Ma i giordani, conclude l’editoriale, non possono accettare «che il loro Paese sia venduto sul mercato degli schiavi iraniano».  

 

Sul quotidiano londinese filo-emiratino al-‘Arab, Farouk Youssef definisce l’Iran «un cattivo vicino per gli arabi, diventato parte di una realtà minacciosa e odiosa, che è scesa come un incubo su di loro». Un incubo da cui «i regimi politici sottomessi» non vogliono far uscire i loro popoli, ma che rischia di rendere il futuro peggiore del presente. Ora, il sorvegliato speciale di Teheran è la Giordania, da sempre minacciata dal rischio «di [diventare] la patria alternativa» dei palestinesi. Il Regno hashemita, conclude il giornalista iracheno, negli ultimi anni non è mai stato in guerra e «non è pronto a diventare un fronte di guerra alternativo a quello siriano o libanese».

 

«Cascate di sangue» per consolidare una posizione negoziale [a cura di Chiara Pellegrino]

 

I media vicini alle posizioni dell’islam politico hanno commentato ampiamente l’uccisione dei tre figli e dei quattro nipoti di Ismail Haniyeh (capo dell’Ufficio politico di Hamas), morti mercoledì scorso in un raid israeliano. Il canale satellitare al-Jazeera ha aperto con un editoriale firmato dal ricercatore palestinese Mahmoud al-Rantisi che, con toni apologetici, tesse le lodi di Haniyeh per la «dignità» con cui ha accolto la notizia della morte dei famigliari, e fa una riflessione sul concetto di «uguaglianza del sangue», l’idea cioè che i leader di Hamas e le loro famiglie non si «sottraggono al loro destino» e sono pronti «a sacrificarsi» per la causa al pari delle persone comuni. Questo concetto, spiega l’editorialista, affonda le radici nella «teoria della leadership etica», secondo la quale il leader incarna «il modello più elevato» di fronte al popolo e, «attraverso i suoi sacrifici, l’assunzione di responsabilità e il suo impegno per questi principi, si guadagna il rispetto e la fiducia» delle persone. L’editoriale infine manda un messaggio «all’occupante»: «le cascate di sangue versate sulla via della liberazione sono un elemento stabile, che non ha eguali [e contribuisce] a consolidare la posizione negoziale di qualsiasi movimento di liberazione».

 

Lo stesso tono celebrativo si ritrova nell’editoriale intitolato “Il massacro della famiglia di Haniyeh” pubblicato su al-Quds al-‘Arabi – “La Gerusalemme Araba” – il quotidiano londinese finanziato dal Qatar. L’articolo ribadisce inoltre la fermezza e la determinazione di Hamas a procedere con i negoziati senza scendere a compromessi, nonostante Israele pensi di trarre vantaggio dall’uccisione dei figli di Haniyeh. Il giornalista egiziano Wail Qandil su al-‘Arabi al-Jadid scrive che «l’assassinio di sette martiri innocenti della famiglia di Haniyeh» equivale «all’assassinio del concetto di mediazione onesta» e ritiene «vergognoso» che alcuni funzionari arabi possano «aggrapparsi all’illusione» che queste uccisioni siano avvenute su decisione dell’esercito israeliano all’insaputa di Netanyahu. Infine, in un’intervista video rilasciata ad al-Mayadeen, il capo dell’Ufficio politico di Hamas ha definito «i massacri e i crimini commessi dall’esercito di occupazione» come «tentativi disperati di un nemico che sta fallendo sul campo ed è terrorizzato dai colpi inferti dalla Resistenza, dal suo coraggio e dalle imboscate tese contro il suo esercito codardo».

 

 

Le fratture del blocco islamista marocchino e il “silenzio” su Gaza [a cura di Mauro Primavera]

 

In Marocco alcuni attivisti islamisti hanno iniziato a criticare il governo per il suo silenzio nei confronti della guerra a Gaza e per aver normalizzato le relazioni con Israele attraverso gli Accordi di Abramo. A tal proposito Al-‘Arabi al-Jadid dedica un interessante approfondimento alle posizioni delle forze islamiste marocchine. Secondo il giornale panarabo di proprietà qatariota, alcuni di questi movimenti sono «in contraddizione e contrapposizione quando si tratta di offrire sostegno ai palestinesi e di criticare Israele». «Per cominciare, occorre segnalare l’eccezione all’interno del panorama islamista maghrebino, al-‘Adl wa al-Ihsan (“Giustizia e Carità”), il più grande gruppo antigovernativo, che ha preso una direzione chiara e progressista di fronte a tutte le istituzioni politiche marocchine, siano esse laiche, di sinistra, islamiche e liberali e che si fonda sul rifiuto netto della normalizzazione. Quanto alle altre anime dell’Islam o, meglio, islamiste, a loro si addice il versetto coranico “penzolano qua e là non appartenendo né a questi né a quelli” (5,143), sono cioè divise sul rifiuto della guerra genocida a Gaza». Infatti questi da una parte «non possono fare diversamente, perché la loro fede gli impone di rifiutare l’aggressione ad altri musulmani»; dall’altra, però, cercano di preservare la loro popolarità all’interno di un contesto in cui la questione palestinese è fonte di grande preoccupazione. A prevalere sono quindi «paura, omertà e difesa dei propri interessi», che costringono le formazioni a rimanere in silenzio, o al massimo a misurare parole e dichiarazioni. All’interno del blocco, al-‘Arabi individua tre gruppi principali: gli islamisti impiegati nelle istituzioni del governo, ossia funzionari che «adottano senza remore la retorica del potere»; il salafismo politico «incapace di alzare la voce per condannare la normalizzazione»; il partito “Giustizia e Sviluppo”. In un altro articolo il giornale, per sottolineare la differenza rispetto all’approccio del Marocco, tesse le lodi dell’Algeria, le cui posizioni sono storicamente a favore della questione palestinese: qui «non ci sono ampie manifestazioni popolari e continue negazioni del genocidio, come avviene nel vicino Marocco, in numerosi Stati arabi e nelle principali capitali europee e mondiali. In questi posti vige un incomprensibile silenzio su una delle più grandi catastrofi umanitarie avvenute dopo la Seconda guerra mondiale». La testata indipendente marocchina al-‘Umk riporta il parere degli stessi islamisti, che sembrano ammettere come il fronte sia lungi dall’essere unito e coeso («noi islamisti non riusciremo a raggiungere i nostri obiettivi di governo e a realizzare il nostro programma intellettuale, perché siamo divisi»), e  sostengono che i veri amici di Israele sono altri gruppi politici: «l’estrema sinistra loda di continuo la sua elevata cultura democratica […] essa ha però un desiderio sfrenato di allearsi con il sionismo israeliano, con l’obiettivo di eliminare l’Islam dall’identità dei marocchini».  

 

 

Le elezioni municipali turche viste dalla stampa araba [a cura di Mauro Primavera]

 

La stampa araba ha inoltre commentato i risultati delle elezioni municipali turche, che segnalano una battuta d’arresto del partito di Erdoğan, l’AKP, e il successo delle opposizioni. Eloquente il titolo di al-‘Arab, giornale panarabo vicino alle posizioni degli Emirati, Paese ostile all’Islam politico e al presidente turco: “La sconfitta di Erdoğan è un momento spartiacque nella storia della Turchia”. «Dopo queste elezioni – si legge nell’articolo – il Paese si trova di fronte a un bivio. La sconfitta di Giustizia e Sviluppo nelle principali città rappresenta un grande mutamento nella politica turca e segnala il desiderio di cambiamento da parte degli elettori». Più cauta la testata emiratina Al Khaleej, che non si fa troppe illusioni sull’exploit delle opposizioni: «i turchi che hanno vissuto sotto Erdoğan conoscono molto bene il presidente», e sono certi che egli, quando parla di “punto di svolta”, intende dire che «insisterà nel cercare opportunità per mantenere il suo partito al potere».

 

Al Jazeera, emittente di proprietà qatariota vicina all’Islam politico e sostenitore del Reis, prova a spiegare (e a giustificare) il risultato elettorale. «Ma davvero gli elettori hanno ritirato la loro fiducia a Erdoğan?» si domanda nel titolo dell’articolo. Di certo, spiega l’editorialista, il risultato delle urne è un «messaggio a Erdoğan e al suo partito, chiamati a correggere le traiettorie» e sottolinea che il margine per recuperare c’è ancora, a patto che «il cambiamento sia reale e profondo». Sulla stessa linea al-‘Arabi al-Jadid: per quanto il responso sia «chiaro», Erdoğan e l’AKP «hanno ancora la forza di riprendersi dalla sconfitta», ma devono risolvere le cause del loro insuccesso. La conclusione è piuttosto ottimista: «spesso le crisi generano opportunità. Ed Erdoğan è noto per la sua grande abilità nel saper trasformare le crisi in opportunità».