Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:39:23

L’escalation di violenza in Israele e Palestina e il rischio di allargamento del conflitto preoccupano molto i media saudita ed emiratini che, come abbiamo visto nella precedente rassegna, avevano cercato di mantenere una posizione equilibrata ed equidistante tanto dal terrorismo di Hamas quanto dalla brutalità della reazione israeliana. Dopo le ultime e gravi tragedie, però, la critica nei confronti di Hamas è diventata più intensa ed evidente, al punto da trasformarsi in aperta condanna. Significativa, a tal riguardo, la lunga intervista dell’emittente saudita al-‘Arabiya a Khalid Mish‘al, capo di Hamas all’estero. La conversazione assume fin dall’inizio un tono polemico: la giornalista in studio domanda se il movimento avesse previsto che, dopo l’aggressione, Gaza sarebbe stata bombardata pesantemente dall’esercito israeliano e privata di cibo, acqua, carburante e corrente elettrica. Mish‘al, in collegamento dal Qatar, risponde che sì, era stato preventivato, ma aggiunge che era il prezzo da pagare per la liberazione del territorio, e giustifica il massacro dei civili ricorrendo a dei parallelismi storici («i russi nella Seconda guerra mondiale hanno offerto trenta milioni di vittime pur di liberare il Paese. Il popolo afgano ha sacrificato tre milioni di persone pur di sconfiggere gli americani»). La giornalista però lo interrompe e a più riprese critica con durezza l’operato di Hamas: «avete messo in conto che l’esercito israeliano avrebbe organizzato un’operazione terrestre a Gaza? […] Avete messo in conto che Israele, dopo l’attentato, poteva reagire militarmente, avendo il sostegno dalla Comunità Internazionale?» Segue la condanna ai fatti del 7 ottobre: «formazioni armate che aggrediscono civili… questo si chiama terrorismo! A prescindere dai vostri diritti e dalle rivendicazioni di cui avete parlato prima». Nel momento in cui Mish‘al commenta le posizioni del mondo arabo, affermando che quest’ultimo dovrebbe dimostrare un appoggio più deciso nei confronti della “resistenza” di Hamas, la giornalista ribatte ricordando che quest’ultima ha pianificato il “Diluvio di al-Aqsa” in completa autonomia, senza coinvolgere i Paesi arabi, e che essa non può pretendere un sostegno incondizionato. E ribatte sottolineando come il gruppo si sia contraddetto nella preparazione degli attacchi: «non si può convincere nessun arabo dotato di senno del fatto che voi avete compiuto l’operazione senza la supervisione iraniana», perché allo stesso tempo «[sostenete] che l’Iran ha dato il suo placet sull’attacco».  

 

Quanto alla stampa saudita, su al-Sharq al-Awsat l’intellettuale libanese Hazim Saghyeh espone un’analisi di ampio respiro sulle implicazioni del nuovo capitolo del conflitto israelo-palestinese e sul futuro del mondo arabo. Per cominciare, «il grande paradosso della guerra di Gaza è quello di incarnare una scoperta duplice e contraddittoria: da una parte il problema palestinese può risolversi solo a livello politico, ossia attraverso la creazione di uno Stato; dall’altra, però, una soluzione come questa è diventata del tutto impraticabile. In realtà, la prima parte di questa “scoperta” non è una vera scoperta», perché entrambe le parti avevano cercato di raggiungere un accomodamento per la creazione di uno Stato palestinese, come dimostrano gli Accordi di Oslo del 1993. Nonostante tutti i loro limiti, quegli accordi erano la cosa migliore che gli arabi potessero ottenere: «certamente Oslo era incomparabilmente migliore rispetto alla nostra situazione attuale» chiosa Saghyeh, perché oggi «non si può nemmeno immaginare una scena dove Netanyahu e i capi di Hamas siedono allo stesso tavolo». Nel frattempo, anche il mondo è cambiato: in particolar modo, l’Occidente, in cui l’islamofobia e l’antisemitismo sono in aumento, «non affronta la guerra israeliana in termini di politica estera, ma in quelli di sicurezza interna». Come osserva il giornalista libanese Nadim Qutaysh, il mondo arabo è minacciato dal “matrimonio d’interesse tra Tel Aviv e Teheran”: da una parte Netanyahu «distrugge qualsiasi possibilità di creare uno Stato palestinese unito», dall’altra Teheran «vanifica ogni speranza di creare la pace nella regione, soprattutto quella portata avanti dal Regno dell’Arabia Saudita».    

 

Il quotidiano al-‘Arab abbandona definitivamente la linea della prudenza e dell’equidistanza e si schiera nettamente contro Hamas, attaccando di conseguenza l’“Islam politico”. Il giornalista egiziano Hisham al-Nijar critica duramente l’organizzazione islamista palestinese, «colpevole di essersi macchiata degli stessi errori di al-Qa‘ida e di aver fatto deviare la Resistenza dal suo percorso». Il movimento, infatti, «ha fatto perdere ai palestinesi l’occasione di cogliere i frutti politici». Il suo modo di governare non è stato fallimentare come quello di altri “rami” della Fratellanza Musulmana; ciononostante, esso «è stato affetto da avventatezza e da mancanza di realismo», condizione peraltro comune alla maggior parte delle formazioni jihadiste. Il sospetto è che Hamas abbia infatti ripetuto l’errore di al-Qa‘ida dopo l’11 settembre, ossia il non aver approntato una valida strategia dopo la sanguinosa dimostrazione di forza, affidandosi a desideri e ideologie irrealizzabili. «Hamas non ha imparato nulla dal lungo conflitto arabo-palestinese […] la Resistenza guidata da Hamas ha trascurato di equilibrare la situazione sul campo con la capacità di sopportazione dei palestinesi», sacrificando moltissime vite senza ottenere alcun beneficio politico, con l’unico risultato di essersi alienata la popolazione locale. «Al posto di mettersi a capo del movimento popolare per trasformarlo in una grande intifada sull’intero territorio della Palestina occupata, al posto di creare un nesso tra le proteste di al-Aqsa e la resistenza di Gaza e Gerusalemme, rendendo la questione palestinese un tema capace di coinvolgere la società araba tutta anche sul piano emotivo, Hamas è intervenuta con i suoi razzi nel maggio 2021, limitando di nuovo la questione ad un mero scontro tra Israele e i ribelli armati nascosti a Gaza». Anche lo scrittore Hamid Qarqan si schiera pubblicando l’articolo “Non sosterrò Hamas”. Ancora prima di entrare nel merito, l’autore denuncia il pesante clima culturale formatosi negli ultimi giorni: «so che è un titolo forte, soprattutto in questa situazione politica e in un contesto dove l’opinione comune araba sostiene ciò che ha fatto Hamas […] so che solo una ristretta minoranza si è pronunciata senza curarsi di ricevere una serie di attacchi volgari per il fatto di avere un’opinione e di dichiararla apertamente». Subito dopo Qarqan elenca le principali motivazioni del suo non sostegno. Tra le altre cose, Hamas si è concentrata molto sulla preparazione militare e troppo poco sul miglioramento delle condizioni socioeconomiche di Gaza. Lo scrittore yemenita Hani Salim Mashur scrive a chiare lettere: “Hamas non è la Palestina” che in realtà è uno sferzante j’accuse contro la Fratellanza Musulmana, eterno nemico dello «stato nazionale» e causa dei mali del mondo arabo dal 1928, anno della sua fondazione, alle Primavere Arabe. Per questo «Hamas e Movimento per il Jihad Islamico non hanno diritto di rappresentare la volontà del popolo palestinese gettandolo in una guerra senza senso […] sarebbe meglio che la mente araba aprisse gli occhi sulla realtà delle cose: non si può scambiare lo Stato nazionale con il Califfato o con una autorità internazionale».

 

L’emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariyya continua a tenere una linea neutrale volta al rispetto dei diritti umani, senza compromettersi con giudizi politici. Come si legge in un suo articolo, Israele e Hamas sono entrambi colpevoli di aver «sacrificato la vita di cittadini innocenti» per le loro necessità militari e politiche. E di fronte alle reazioni scomposte e affrettate di alcuni attori internazionali, come quelle degli Stati Uniti, brilla invece la «diplomazia umanitaria» degli Emirati, che si dimostra equilibrata e razionale. Su al-Ittihad un editoriale titola “Diluvio di perdite”, facendo il verso all’operazione di Hamas “Diluvio di al-Aqsa”, mentre un altro articolo enfatizza l’iniziativa di pace di Abu Dhabi: «chi ritiene che gli arabi non siano pacifici deve riconsiderare le sue idee e fare delle ricerche, perché noi siamo una nazione pacifica che non porta i vessilli della guerra». La soluzione per porre fine al conflitto israelo-palestinese «è una sola» e consiste nel recupero del percorso diplomatico inaugurato dagli Accordi di Abramo del 2020. Agli antipodi troviamo la posizione di Akhbar al-Khaleej, testata del Bahrein di orientamento nazionalista, Stato che pure aveva normalizzato le relazioni con Israele: «l’operazione “Diluvio di al-Aqsa” ha dimostrato la forza e l’eroismo dei combattenti palestinesi nonché la loro destrezza nel prepararsi, addestrarsi, camuffarsi ed entrare in azione […] Loro, che per tutto il conflitto erano stati sulla difensiva, hanno invertito il paradigma portando la guerra nello Stato sionista».  

 

Su questa stessa lunghezza d’onda si collocano i quotidiani tradizionalmente sensibili alla causa israelo-palestinese, che plaudono all’azione di Hamas e criticano un Occidente accusato di continuare a sostenere «l’entità sionista colonizzatrice» a prescindere dal merito, e alcuni regimi arabi, «disinteressati» alla causa palestinese.

 

Sul quotidiano panarabo londinese al-Quds al-‘Arabi – letteralmente “La Gerusalemme araba” – l’attivista siriano Yasin al-Hajj Saleh denuncia la tendenza del mondo occidentale a difendere sempre e comunque il punto di vista israeliano, ciò che dimostrerebbe la sua incapacità di «pensare a partire dalla prospettiva degli altri, cioè i palestinesi assediati e sottoposti a un regime di apartheid». Ed è su questa incapacità, scrive l’editorialista, che «Hannah Arendt ha fondato la sua idea di “banalità del male”, diagnosticata osservando il processo contro Adolf Eichmann», l’ufficiale nazista responsabile della deportazione degli ebrei nei campi di sterminio. «L’atto del pensare è un dialogo intrapersonale […] in cui coinvolgiamo un’altra persona diversa da noi, non simile e non uguale. L’incapacità di pensare a partire dalla prospettiva di un’altra persona è perciò l’incapacità stessa di pensare […] e implica l’incapacità di formare la coscienza». Eichmann non riuscì mai a mettersi nei panni degli ebrei, e la stessa cosa accade oggi in Occidente «dove c’è un’ampia produzione di “eichmannismo”. […] L’altro oggi è l’immigrato, il rifugiato, la persona di colore e, nel contesto attuale, il palestinese. La coscienza si forma con l’allenamento a pensare a partire dalla prospettiva di questo altro, ciò che implica [saper] ascoltare la sua voce e accogliere le valutazioni che egli fa di se stesso». Ma l’Europa oggi ha aderito totalmente al punto di vista ebraico ed è alle prese con un «monologo, non un dialogo, con una convinzione fanatica, non una riflessione morale, capace di generare una coscienza». Questa incapacità è radicata anche in Medio Oriente, constata al-Hajj Saleh. In Oriente essa è conseguenza dell’alienazione e del risentimento che l’oppressione ha generato, mentre in Occidente è il risultato dell’«interiorizzazione di una dottrina di superiorità e predominio, che riflette l’egemonia globale, la ricchezza e il potere dell’Occidente negli ultimi secoli».

 

Su al-Jazeera anche Mu‘taz al-Khatib, professore di Etica all’Università qatariota Hamad bin Khalifa, accusa l’Occidente di continuare ad adottare la politica dei due pesi, due misure, aggiungendovi però una difesa a spada tratta della natura e dell’operato di Hamas. Le espressioni con cui il mondo occidentale ha definito il Diluvio di al-Aqsa – «brutalità», una campagna di «pura crudeltà» contro il popolo ebreo, «il male assoluto», «l’odio», «il giorno più sanguinoso per gli ebrei dall’Olocausto» – tradiscono la volontà di «privare delle qualità morali e politiche l’azione di resistenza, e disumanizzare Hamas». L’Occidente, scrive, ha voluto trasformare la vicenda in un nuovo 11 settembre e così ha condannato qualsiasi simpatia per la causa palestinese e per l’uso della bandiera palestinese. I criteri stabiliti a seguito dell’11 settembre «impongono di privare di qualsiasi carattere morale o politico l’operazione militare condotta da Hamas, ciò che però non tiene conto del fatto che ci troviamo di fronte a un movimento di resistenza armata contro un regime di occupazione e di apartheid e che l’operazione ha avuto luogo alle porte del muro dell’apartheid eretto dalla stessa occupazione sulle terre usurpate ai palestinesi». Decontestualizzare l’azione di Hamas, secondo l’editorialista, avrebbe consentito al «mondo libero» di «esagerare nel descrivere la brutalità della vicenda», mentre disumanizzare Hamas «si è reso necessario per conseguire l’obbiettivo politico e militare fissato per questa battaglia, cioè, distruggere il movimento […] e punire gli abitanti di Gaza. Così, si è finito per esagerare dipingendo un’immagine brutale di Hamas ed equiparandolo all’Isis, anche se ci sono molte differenze tra Hamas e l’Isis. […] Hamas è un movimento di resistenza nazionale che opera nei confini dello Stato palestinese, combatte l’occupazione e aderisce a un’etica della guerra specifica, mentre l’Isis è un movimento di protesta contro l’ordine globale, vuole istituire un califfato che supera i confini e non aderisce ad alcuna etica di guerra, perché si fonda sull’efferatezza». L’Occidente, dunque, si prefiggerebbe di «rimuovere l’azione di Hamas dalla sfera dell’azione politica e militare trasformandola in un atto puramente criminale e di vendetta, non governato da alcuna legge o principio morale».

 

In questi giorni le piazze arabe sono insorte contro Israele. Al-Jazeera e il sito filo-islamista ‘Arabi21 hanno fatto la diretta giornaliera delle proteste in atto in diversi Paesi arabi, mentre sul quotidiano panarabo londinese al-Arabi al-Jadid il giornalista egiziano Wail Qandil ha definito le manifestazioni lo strumento più efficace per frenare Israele. L’editorialista sostiene che i Paesi arabi non dovrebbero prestarsi all’azione di mediazione diplomatica tra i due contendenti perché «il fratello non può essere mediatore» e per la precisione «non può mediare tra la Palestina, e i suoi ladri e usurpatori». Più che la diplomazia araba sono utili le manifestazioni: «Una sola manifestazione da un milione di persone, in ogni Paese arabo a sostegno del popolo palestinese potrebbe essere mille volte più potente delle carte di negoziazione e mediazione utilizzate dai regimi arabi ufficiali con la comunità internazionale. Milioni di persone riunite contemporaneamente in ogni capitale araba possono frenare l’aggressione sionista e far scendere l’americano e l’europeo dall’alto della sua insolenza e delle sue menzogne ​​sulla storia e sul momento attuale. Cosa ancora più importante, queste manifestazioni avrebbero un impatto maggiore sulla resistenza palestinese rispetto all’invio di aiuti materiali, e la renderebbero capace di continuare il miracolo militare che si sta registrando in questa tornata del conflitto».

 

Una parte della stampa araba inoltre si è interrogata sul ruolo che possono giocare gli attori stranieri non arabi. “Dov’è la Turchia di Erdoğan sul massacro di Gaza?”, si domanda il predicatore islamista ‘Issam Talima su ‘Arabi21. Talima lamenta l’esitazione del presidente turco a prendere una posizione netta e forte a sostegno di Gaza. In passato, spiega l’editorialista, la Turchia, più dei Paesi arabi, si è sempre distinta per la sua posizione molto netta e inequivocabile a sostegno della causa palestinese, ma nell’ultima vicenda non è stato così, e la risposta turca è stata al di sotto delle aspettative: «Il vecchio Erdoğan, amato dai popoli arabi e islamici, nelle sue posizioni su Gaza e sulla resistenza era veramente espressione della coscienza della nazione islamica, che vedeva in lui un simbolo forte e solido di questa questione». L’Erdoğan di oggi però non è quello di un tempo; il presidente turco «sta perdendo credito a livello delle masse [che lo sostengono] e del suo stesso popolo turco […]. Dicendo questo non intendiamo incitarlo a prendere posizione, ma ad essere ciò che lui è, come la gente lo ha conosciuto, con il suo ardore per le questioni che riguardano la nazione islamica, Erdoğan il leader musulmano, la persona forte che prende posizione a sostegno degli oppressi, e non Erdoğan il partigiano che ci tiene in primis a soddisfare l’elettore turco» perché la questione palestinese è trasversale a tutti i popoli musulmani.

 

Su Asas Media l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid allo stesso tempo smorza i toni e lancia un allarme, scrivendo che la guerra finirà con «una tragedia immane». Egli auspica perciò un’azione diplomatica congiunta di tutti i Paesi arabi, che «non possono restare a guardare […]. Tutti insieme devono premere sull’America e su Israele per una soluzione pacifica che, si spera, placherà la situazione e li proteggerà dalla violenza che potrebbe raggiungerli attraverso la Giordania, il Libano e l’Iraq».

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