Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:39:42

Anche questa settimana la stampa saudita e (filo)emiratina prosegue la linea della “doppia condanna”, a Israele per i bombardamenti su Gaza e ad Hamas per la sua strategia insensata e autodistruttiva.

 

A tal proposito, il giornalista saudita Tariq al-Hamid scrive su al-Sharq al-Awsat un articolo caustico sotto forma di lettera destinata a Yahya Sinwar, capo di Hamas a Gaza: «tutti sanno che sei un uomo sanguinario non solo nei confronti di Israele, ma persino verso alcuni leader delle brigate Qassam». Gli ricorda che l’unico risultato del “Diluvio di al-Aqsa” è stato quello di scatenare la rabbiosa reazione di Israele, che sta trasformando la Striscia in un inferno. «Sinwar – continua la missiva –, la tua testa potrebbe essere il prezzo da pagare per spegnere l’incendio di Gaza, oppure il tuo arresto potrebbe rappresentare il rinsavimento israeliano. Forse la tua uscita di scena potrebbe essere la soluzione alla crisi. Ma la domanda ora è: che cosa sei Yahya Sinwar, un leader o un terrorista? Stai riscattando Gaza e la questione [palestinese], oppure sei in procinto di sacrificarle fino all’ultima goccia di sangue? Non eri allora tu quello che una volta ha detto al corrispondente del secondo canale televisivo israeliano: “non riconosciamo Israele, ma siamo pronti ad accettare una lunga tregua”»? La lettera si chiude con un invito alla ragionevolezza: cessare la lotta armata per il bene degli abitanti di Gaza e della causa palestinese. «Fai tutto questo perché il tuo è un progetto suicida, non statuale, o perché la tua preoccupazione è la Questione? Sarò sincero con te, forse la tua uscita da Gaza non cambierà nulla a causa del folle furore israeliano, ma fallo», per non dare più scuse agli israeliani nel proseguire l’attacco. Hisam ‘Itani, direttore della testata saudita al-Majalla, scrive un articolo a proposito del paragone tra l’attentato di Hamas e l’Olocausto. Per l’autore si tratta di un’equazione semplicistica che non tiene conto del «contesto» e delle dinamiche storiche e che sembra unicamente giustificare la ferocia della reazione israeliana sulla Striscia. D’altro canto, anche il fronte arabo-palestinese non ha mai compreso a fondo il significato profondo dell’Olocausto e, «introducendo l’approccio jihadista all’interno del conflitto israelo-palestinese, è finito in un impasse» in cui non c’è spazio per la politica e per la mediazione. In conclusione, Hamas e Olocausto non possono essere paragonati, anche perché, ricorda ‘Itani, lo sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale è stato commesso da un Paese occidentale.       

 

Dopo settimane di neutralità, il quotidiano emiratino al-Ittihad si sbilancia leggermente lanciando un monito a Israele. In un editoriale intitolato non a caso “la fermezza della posizione emiratina nei confronti degli sviluppi della Striscia di Gaza” si sottolinea il ruolo umanitario di Abu Dhabi, ma si scrive anche che «gli Emirati confermano che non si può giustificare la punizione collettiva per la Striscia, sottolineando da una parte il dovere di Israele di adempiere ai suoi obblighi previsti dal diritto internazionale umanitario, dall’altra il rifiuto totale dell’ordine di evacuare più di un milione di persone dal settore settentrionale della Striscia a quello meridionale o di far emigrare i cittadini di Gaza, perché ciò significherebbe la liquidazione della questione palestinese». Anche la testata al-‘Ayn al-Ikhbariyya ribadisce lo stesso concetto, ma utilizza un lessico più esplicito: «gli Emirati sono fermi nella loro posizione di principio sulla necessità di fermare l’occupazione israeliana, di fermare il processo di insediamento dei coloni e di creare lo Stato palestinese; è una posizione chiara come il sole».   

 

Al-‘Arab tratta la causa palestinese da una prospettiva inconsueta: quella dei curdi. L’autore dell’analisi, lo scrittore curdo siriano Jawan Dibo, osserva che questa popolazione è famosa per i suoi «sterili dibattiti bizantini». Proprio come i sovrani dell’Impero Romano d’Oriente che amavano perdersi in prolisse e inutili diatribe teologiche, così anche loro affrontano questioni, come quella palestinese, di cui in realtà hanno poco interesse: «la domanda è: che vantaggio morale e pratico trarranno i curdi dalla condanna [della guerra di Gaza]? Significa che ci sarà qualche ricaduta positiva sulla Questione? È evidente che la posizione dei curdi, per mere ragioni religiose e settarie, propende a favore dei palestinesi». Tuttavia, «nel passato e nel presente i palestinesi, da intendersi sia come popolo sia come movimento politico, non sono mai stati, neanche per un giorno, alleati e sostenitori della causa curda, fatta eccezione per alcuni poeti e scrittori che si contano sulle dita di una mano». Dibo ricorda infatti che Arafat aveva sostenuto la pulizia etnica dell’ex presidente iracheno Saddam Hussein, così come il presidente dell’Olp Abu Mazen si era espresso nel 2017 contro il referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno. «I capi palestinesi così come i leader e i politici del mondo erano e sono ancora dei pragmatici in affanno dietro i loro interessi, visto che fanno finta di ignorare ciò che ha commesso l’Iraq di Saddam, l’Iran di Khomeini e Khamenei, la Turchia di Erdoğan e la Siria di Assad contro i curdi». Dimenticati da tutti, – conclude lo scrittore – la minoranza vaga «confusa e smarrita», priva di punti di riferimento.        

 

I quotidiani filo-palestinesi continuano invece a lanciare accuse a Israele, che nelle ultime ore ha colpito l’edificio in cui risiedeva la famiglia di un giornalista di al-Jazeera, e all’Occidente, che tende a fare propria la narrazione israeliana dei fatti.

 

Secondo un adagio diffuso tra i giornalisti, il compito di questi ultimi è informare, non diventare una notizia. Nel conflitto in corso a Gaza sono però numerosi i reporter che sono diventati loro malgrado tragici protagonisti degli eventi. Il caso più recente è quello di Wael al-Dahdouh, storico giornalista di al-Jazeera, la cui famiglia è stata uccisa da un bombardamento israeliano. L’emittente del Qatar ha ampiamente commentato la notizia, diffondendo inoltre un video mandato precedentemente in onda da un canale israeliano in cui un analista dell’esercito israeliano spiega che la famiglia del giornalista era effettivamente l’obiettivo dell’operazione. Ma «perché l’occupazione israeliana prende di mira gli occhi della verità?» domanda al-Jazeera. «Se uccidere i testimoni non aiuta a nascondere il crimine, l’occupazione lavora per uccidere le loro mogli e i loro figli, con l’obiettivo di distoglierli dal loro dovere professionale e umanitario, ripiegati sul loro dolore personale e familiare». E questa è stata anche la storia di Shireen Abu Akleh, altra giornalista di al-Jazeera uccisa un anno fa durante un’operazione dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin. Israele, scrive al-Jazeera, non può tollerare una narrazione diversa dalla propria, perciò cerca di mettere a tacere le voci che raccontano i fatti dal campo. In particolare, Israele «non ama l’essenza della copertura mediatica di al-Jazeera, per la quale i palestinesi non sono meno umani degli altri e la loro tragedia deve essere vista dal mondo intero, nonostante la cieca presa di posizione della maggior parte dei media occidentali a favore della parte israeliana».

 

«Wael al-Dahdouh vince sul messaggio di sangue israeliano», ha commentato ancora su al-Jazeera ‘Abdel Nasser Salama – ex capo-redattore del quotidiano egiziano al-Ahram. La compostezza mantenuta da Wael al-Dahdouh dopo il «martirio» della sua famiglia è «un messaggio allo Stato occupante, che potrebbe essere non meno influente e profondo del messaggio mediatico lanciato dal giornalista e che gli israeliani non sono stati capaci di sopportare e affrontare con professionalità. Il collega ha dichiarato che, come tutti i cittadini della Striscia di Gaza, persisterà nella sua tenacia fintanto che la causa rimarrà giusta, ha affermato che lo Stato occupante è privo di etica e salutato la resistenza e il popolo palestinese ovunque si trovino». Da un lato, scrive ancora Salama, «abbiamo di fronte un’entità occupante e usurpatrice, una banda di criminali che né le leggi internazionali né gli appelli umanitari scoraggiano». Dall’altro, «abbiamo di fronte un mondo occidentale colonizzatore, che ha permesso allo Stato occupante di fare quello che voleva fin dal primo giorno e gli ha dato denaro e armi in abbondanza. I grandi della terra hanno continuato ininterrottamente a fare visita al Paese, sostenendolo e aiutandolo».

 

Per Al-Quds al-‘Arabi,  colpire gli affetti dei giornalisti impegnati sul campo non risponde soltanto all’obiettivo “razionale” di distrarli dal loro lavoro, ma anche a un «fattore irrazionale e illogico, che rasenta la ferocia vendicativa, istintiva, genocida, e commette crimini a livelli “industriali” al di fuori di ogni logica o limite».

Poche ore dopo l’uccisione della sua famiglia, al-Dahdouh ha ripreso il suo lavoro e diffuso sul suo account X un video che lo riprendeva sul tetto di un edificio con il giubbotto e il casco anti-proiettili e le telecamere puntate sulla città.

 

Anche questa settimana, inoltre, la stampa araba ha denunciato la copertura mediatica del conflitto fatta dall’Occidente e da alcuni Paesi arabi. «L’opinione araba e quella occidentale svuotano la questione palestinese del suo significato politico e nazionale», ha titolato al-Nahar. L’operazione di Hamas è certamente riuscita a ritardare la normalizzazione araba con Israele, scrive Ghassan Salibi, ma ha finito per creare una situazione paradossale. «Il motivo presunto per cui Hamas e gli altri volevano fermare la normalizzazione era preservare la causa e i diritti del popolo palestinese. L’operazione però ha finito per sortire l’effetto opposto: ha giustificato l’uccisione senza fine del popolo palestinese da parte di Israele e la distruzione delle sue proprietà, e ha aperto la strada allo sfollamento della popolazione da Gaza. Ha inoltre delegittimato ulteriormente la questione palestinese agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, a causa dei crimini commessi da Hamas contro i civili israeliani». La vicenda apre perciò allo storico dilemma del mezzo che giustifica il fine. Nello specifico, secondo il giornalista, non si tratta tanto di capire se un mezzo violento possa condurre a dei fini elevati, ma se la strategia di Hamas sia il mezzo adeguato per raggiungere l’obiettivo nel senso strategico del termine. Finora però i fatti dimostrano che la via perseguita da Hamas ha finito per vanificare la causa che si prefiggeva di sostenere. Il rapporto tra il mezzo e il fine, tuttavia, interessa solo una piccola percentuale dell’opinione pubblica araba e palestinese, perché la maggior parte delle persone considerano l’operazione di Hamas «una reazione legittima e giustificata dall’occupazione», scrive Salibi. E interessa ancor meno l’opinione pubblica occidentale, che non spiega le ragioni di Hamas, ma «si limita a definirlo “terrorista”, perché le sue operazioni portano all’uccisione di civili israeliani». L’opinione pubblica occidentale e araba hanno due visioni opposte della questione palestinese: «L’opinione pubblica araba è arrivata a considerare la resistenza militare palestinese come pura reazione all’occupazione, mentre l’opinione pubblica occidentale la considera un’azione indipendente dall’occupazione. In entrambi i casi però l’azione militare è privata della sua dimensione politica». Per la maggior parte degli arabi e dei palestinesi, il mezzo, cioè la resistenza militare, si è trasformato in un obiettivo e il progetto politico è assente. In Occidente invece l’obiettivo coinciderebbe con il mezzo: il terrorismo per il terrorismo: «non c’è un prima, cioè l’occupazione, e non c’è un dopo, cioè la liberazione dall’occupazione e il progetto politico». Per l’Occidente non esiste alcun collegamento tra la sofferenza dei palestinesi, le loro condizioni di vita e il «terrorismo» di Hamas, conclude il giornalista.

 

Sul tema della «guerra delle narrazioni» si è concentrato anche al-Arabi al-Jadid. Malik Wannous definisce la stampa occidentale «sottomessa alla narrazione israeliana». Gli israeliani sono riusciti a mobilitare l’apparato mediatico, diplomatico e militare dell’Occidente «gonfiando lo spirito coloniale di questo Occidente». Ma quel che è peggio, scrive il giornalista, è che la retorica occidentale è stata adottata anche da alcuni leader arabi, tra cui il presidente egiziano al-Sisi, che nel suo discorso alla presenza del cancelliere tedesco Olaf Scholz al Cairo, lo scorso 18 ottobre, ha riconosciuto la necessità di eliminare i movimenti armati a Gaza e mettere fine al «terrorismo».

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