In Myanmar continua la guerra civile nonostante la crisi umanitaria causata dal recente terremoto. La situazione è particolarmente grave nello Stato occidentale del Rakhine, dove si concentra la popolazione musulmana
Ultimo aggiornamento: 12/05/2025 11:57:54
Nonostante il terremoto di magnitudo 7.7 che il 28 marzo ha colpito il Myanmar, devastando le aree centrali del Paese, i brutali combattimenti che hanno finora caratterizzato la guerra civile birmana non si sono arrestati. Al contrario: la giunta militare che nel 2021 ha preso il potere con un colpo di Stato ha bombardato alcuni villaggi nelle regioni piegate dal sisma. In particolare, si è continuato a combattere anche nello Stato occidentale del Rakhine, dove si concentra la popolazione musulmana (secondo le stime circa il 20% della popolazione locale, contro un oltre 75% dei buddhisti): i due più importanti gruppi armati della regione, l’Arakan Army (AA), la principale milizia ribelle, e l’Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA), un gruppo terroristico di ispirazione islamista oggi alleato dell’esercito birmano, negli ultimi anni si sono scontrati per il controllo del territorio, su cui la giunta militare mantiene un controllo solo parziale.
La militarizzazione delle etnie
Per capire come si è arrivati all’attuale situazione di conflitto dentro al conflitto è necessario fare un passo indietro. Le tensioni etnico-religiose, soprattutto tra buddhisti e musulmani, concentrati nel nord dello Stato del Rakhine, iniziarono già durante il dominio coloniale britannico, ma divennero evidenti con il ritiro degli inglesi nel secondo dopoguerra e l’indipendenza del 1948. Fu allora che in tutto il Paese cominciarono a formarsi le cosiddette organizzazioni etniche armate (Karen, Chin, Kachin, Shan, solo per citare le principali minoranze) che chiedevano la secessione dalla Birmania, in cui l’etnia politicamente dominante è sempre stata quella Bamar, prevalentemente di religione buddhista.
Alcuni leader musulmani dell’Arakan (nome che si rifà a un antico regno e con cui era riconosciuto lo Stato del Rakhine prima che la giunta militare ne cambiasse la denominazione nel 1989) nel 1946 si erano rivolti a Muhammad Ali Jinnah, il fondatore del Pakistan (che al tempo comprendeva anche l’odierno Bangladesh), chiedendo che almeno due municipalità a maggioranza musulmana venissero annesse al nuovo Stato musulmano che andava creandosi separandosi dall’India. Jinnah rifiutò perché non voleva intromettersi negli affari interni birmani. Alcuni combattenti decisero allora di imbracciare le armi contro il governo centrale birmano, alimentando diverse ondate separatiste nei decenni successivi, alcuni civili scapparono verso il Pakistan orientale, che nel 1971 sarebbe diventato il Bangladesh indipendente, e l’esercito birmano iniziò una dura persecuzione contro la propria popolazione musulmana, aprendo la porta a decenni di abusi e persecuzioni. Ancora oggi i Rohingya, la popolazione musulmana del Rakhine, vengono chiamati “bengalesi” dai generali, nel tentativo di rimarcare una presunta non appartenenza al Myanmar, già sancita a livello amministrativo dalla loro esclusione dalla lista delle etnie ufficialmente riconosciute dalla legislazione nazionale (attualmente 135), ciò che rende di fatto apolidi i membri di questa minoranza.
Dalla difesa dei musulmani all’alleanza con i militari
A complicare il quadro è la presenza dell’ARSA, un gruppo armato estremista che afferma di difendere i diritti della popolazione musulmana in Myanmar, ma che in realtà, dopo essersi scontrato per un certo tempo con l’esercito birmano, ha trovato più conveniente allearsi con i militari (perlopiù buddhisti di etnia Bamar) contro l’Arakan Army, in un conflitto in cui le identità religiose ed etniche si accavallano e si mescolano a seconda delle necessità sul campo di battaglia.
Emerso nel 2013 in risposta a violenze interetniche che l’anno precedente avevano coinvolto buddhisti e musulmani, l’ARSA è stato guidato fino al 19 marzo da Ataullah Abu Ammar Jununi, nato in Pakistan, cresciuto in Arabia Saudita, e di recente arrestato dalle autorità del Bangladesh in una periferia di Dhaka. In base ai video pubblicati dalla milizia sui propri canali, ora il gruppo è guidato dal comandante Ustad Khalid.
Secondo un recente rapporto dell’organizzazione umanitaria Fortify Rights, Jununi ha direttamente supervisionato orribili atti di violenza, tra cui uccisioni, rapimenti e torture sia in Myanmar che in Bangladesh contro giovani Rohingya e majhi, i leader comunitari. Tra questi è incluso l’omicidio, avvenuto nel 2021, di Mohammed Mohib Ullah, che si batteva per una risoluzione pacifica della questione dei Rohingya attraverso il dialogo con il governo birmano. Nei campi profughi di Cox’s Bazar, i più affollati al mondo, in questi anni si è consumata anche una silenziosa guerra tra l’ARSA e i membri di un’altra organizzazione locale, la Rohingya Solidarity Organization (RSO), anche se – come vedremo in seguito –, anche in questo caso le alleanze si sono dimostrate flessibili. Negli ultimi mesi si è verificato un aumento della violenza all’interno dei campi profughi del Bangladesh: il 4 e il 16 marzo l’ARSA ha ucciso due membri della RSO in due attacchi separati, mentre l’8 marzo uno scontro a fuoco tra i due gruppi ha provocato un morto all’interno di Cox’s Bazar. Se da una parte diverse organizzazioni di diritti umani hanno chiesto maggiori garanzie alle autorità del Bangladesh per proteggere i rifugiati Rohingya dagli scontri armati, dall’altra, dopo l’arresto di Jununi, decine di rifugiati musulmani hanno tenuto incontri di preghiera per chiederne il rilascio.
Furono gli attacchi coordinati dell’ARSA tra il 2016 e il 2017 a dare avvio a una spirale di violenza che raggiunse il culmine il 25 agosto 2017, quando centinaia di miliziani attaccarono circa 20 posti di polizia e una base militare: un’ondata di aggressioni rivendicata dal gruppo come “azione difensiva” contro le oppressioni, ma che provocò la dura rappresaglia dell’esercito birmano. Quest’ultimo avviò operazioni di “sgombero” nei villaggi Rohingya che le Nazioni Unite avrebbero poi denunciato come una campagna di pulizia etnica, con uccisioni di civili, stupri di massa e l’esodo di oltre 700.000 persone in Bangladesh. Anche il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, al tempo alla guida del governo, venne accusata di essere complice dei generali birmani, ma diverse persone a lei vicine, incluso il figlio Kim Aris, hanno più volte sottolineato che la leader democratica stava cercando di evitare lo scontro con l’esercito, poi materializzatosi con il colpo di Stato militare del febbraio 2021: da allora la Signora – com’è sempre stata chiamata l’icona democratica – è detenuta in luogo sconosciuto anche ai suoi familiari.
Il procuratore capo della Corte penale internazionale ha chiesto ai giudici del tribunale di emettere un mandato di arresto nei confronti del generale Min Aung Hlaing, leader della giunta militare birmana, per i crimini commessi contro la minoranza Rohingya tra il 2016 e il 2017 ma, in maniera anche un po’ sorprendente, nella sua richiesta non viene citata la realtà sul campo oggi nello Stato Rakhine.
L’autorità parallela dell’Arakan Army
Nel conflitto attualmente in corso, è l’Arakan Army, composto da decine di migliaia di combattenti di etnia Rakhine, o arakanese, e in prevalenza buddhisti, ad aver assunto un ruolo di primaria importanza. Fondato nel 2009 come braccio armato della Lega Unita dell’Arakan (ULA) – tutte le minoranze etniche si sono dotate nel tempo di una sezione politica e una militare –, dal 2015 combatte al fianco delle altre milizie etniche per chiedere una maggiore autonomia. A ottobre 2023 ha partecipato alla “Operazione 1027”, la più importante offensiva condotta finora dalle forze della resistenza anti-golpe. Da allora l’Arakan Army ha continuato ad avanzare, liberando le zone settentrionali e centrali della regione, dove si è insediato istituendo un’autorità parallela di fatto. La milizia ha dichiarato di voler governare il territorio in modo inclusivo, ma al momento per alcuni questo è difficile da credere perché anche l’AA nell’ultimo anno si è macchiato di feroci crimini contro i civili Rohingya musulmani, stimati in un milione in Myanmar. Nel prendere il controllo di località strategiche, i combattenti hanno messo in atto esecuzioni sommarie, incendi di villaggi e violenze contro anziani e bambini in fuga, oltre che contro la popolazione sospettata di fiancheggiare l’esercito o l’ARSA, secondo i rapporti di diverse organizzazioni internazionali.
Come si è visto, dopo lo scoppio della guerra civile l’ARSA si è infatti alleato con i militari birmani contro l’Arakan Army. Ma tale cooperazione ha incluso la coscrizione di centinaia di giovani Rohingya, anche provenienti dai campi profughi in Bangladesh, in molti casi reclutati in maniera forzata, alimentando ulteriormente le tensioni inter-comunitarie tra Rohingya musulmani e Rakhine buddhisti. In sostanza, l’ARSA – bollato come “organizzazione terroristica” dal governo birmano – si è tacitamente trasformato in un braccio ausiliario di quello stesso esercito che aveva giurato di combattere, mentre i combattenti dell’AA hanno risposto massacrando i Rohingya delle aree settentrionali.
Le conseguenze dei tagli americani
Sembra che a rimetterci siano sempre i Rohingya, che ultimamente stanno anche subendo le conseguenze del taglio agli aiuti imposti dall’amministrazione statunitense guidata dal presidente Donald Trump. A inizio marzo le Nazioni unite hanno avvertito di trovarsi costrette a dimezzare le razioni alimentari mensili per i rifugiati Rohingya in Bangladesh, passando da 12,50 dollari a testa a soli 6 dollari. Già nel 2023 il Programma alimentare mondiale era stato costretto a ridurre l’assistenza (da 12 a 10 dollari e poi 8 a persona al mese), con conseguenze immediate: aumento della malnutrizione infantile, casi di anemia e disperazione nei campi. Un ulteriore taglio a 6 dollari rischia di generare una situazione di fame diffusa. Le agenzie ONU hanno lanciato appelli urgenti, ma lamentano che i donatori internazionali sono distratti da altre crisi globali. Servirebbero oltre 80 milioni di dollari aggiuntivi solo per ripristinare le razioni per il 2025.
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