Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 10:36:06

Il ritorno della violenza in Palestina, iniziato con il raid dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin che ha causato la morte di nove persone («l’aggressione più sanguinosa dal 2002», precisa il quotidiano libanese al-Nahar sulla prima pagina del 27 gennaio) e proseguito nei giorni successivi con attentati e rappresaglie da ambedue le parti, ha provocato la comprensibile indignazione di gran parte della stampa, come sempre divisa tra i giornali più militanti, spesso vicini al Qatar, e le testate di proprietà saudita o emiratina, che si sono limitate a riportare la cronaca degli eventi. I commenti non si sono limitati a condannare le operazioni militari dello Stato ebraico, ma hanno anche criticato le fragilità interne al fronte arabo. Al-Quds al-‘Arabi vede in questi scontri «i primi segni del fascismo» del nuovo governo di Benjamin Netanyahu, responsabile del massacro. Si spinge più in là Gilbert Achcar, scrittore e accademico libanese, che mette sotto accusa il sionismo tout court, mostrandosi del tutto indifferente alle manifestazioni antigovernative in corso dall’inizio del 2023 a Tel Aviv: «i nostri cuori non battono per quelle proteste, per una sola e grande ragione: si tratta di manifestazioni “bianche e blu” che rappresentano un mare di bandiere israeliane che ondeggia nella piazza principale di Tel Aviv; con questa immagine che esprimeva il loro attaccamento allo Stato, i manifestanti intendevano chiarire al governo di estrema destra, da loro contestato, che essi non rinnegano l’adesione ai principi di questo Stato sionista, anzi sono addirittura più dediti alla sua causa che il governo stesso. Questi vedono nell’estrema destra soltanto un pericolo per la democrazia, anche se alcuni osservatori critici l’hanno ribattezzata a buon diritto “democrazia etnica”, per il fatto di essere fondata sulla discriminazione razziale e di essere riservata a una sola categoria di persone, gli ebrei appunto […] Inoltre i manifestanti vedono nel governo un pericolo per la sicurezza del loro Stato, perché aggraverebbe il declino dell’immagine artefatta e ingannevole di Israele come “unica democrazia del Medio Oriente”». Achcar prosegue lapidario: «la verità è che con il sionismo non è possibile nessuna democrazia»; per quanto riguarda l’Autorità nazionale palestinese, invece, essa «non ha nulla di nazionale» e, addirittura, nulla di autorevole: al contrario, sembra che la sua presenza soddisfi in qualche modo le richieste dell’occupante, dimenticandosi del loro slogan: “la rivoluzione fino alla vittoria”.        

 

Per al-‘Arabi al-Jadid, i principali traditori della causa palestinese sarebbero proprio quegli arabi che, a causa del loro placet alla riconciliazione con Tel Aviv, hanno gettato i loro “fratelli” «in una fossa sperando che venissero divorati dal lupo». Messaggio che è stato reso ancora più esplicito dalla vignetta di apertura raffigurante un arabo intento a srotolare il lunghissimo ramoscello d’ulivo della normalizzazione, le cui foglie lanceolate si trasformano in acuminati proiettili che una mitragliatrice israeliana spara a raffica contro la bandiera della Palestina. Un altro articolo del quotidiano panarabo londinese sostiene che il senso di abbandono provato dai palestinesi stia portando molti di loro a compiere spregiudicati attacchi di rappresaglia contro le “forze d’occupazione”. Questo fenomeno è causato, secondo il giornale, dall’eccesiva rigidità delle organizzazioni militari palestinesi, ormai irregimentate alla stregua di eserciti regolari, e dall’eccessiva dipendenza dai finanziamenti di attori esterni. Paradossalmente, l’alto grado di specializzazione raggiunto dalle forze militari ha avuto il risultato di frammentare l’unità del popolo, spianando la strada alle divisioni interne. Ancora una volta, la soluzione alla crisi sembra impossibile: «sbaglia chi ritiene che la repressione e il contenimento possano risolvere un problema del genere», così come «appare indubbio il fatto che, per Israele, il problema alla radice sia proprio l’esistenza stessa dei palestinesi». Volendo, prosegue al-‘Arabi, una soluzione ci sarebbe pure: l’annientamento della popolazione autoctona, come insegnano il caso americano e quello australiano. Provocazione e sarcasmo allo stato puro. Il filo-emiratino Al-‘Arab se la prende invece con l’OLP e sulla prima pagina del 28 gennaio scrive: «l’attacco israeliano al campo di Jenin ha dimostrato che l’Autorità palestinese non possiede alcuna influenza interna ed esterna», tanto che «gli analisti politici si chiedono che cosa sia rimasto dell’OLP» che, «chiusasi da sola in un angolo, è diventata un attore secondario rispetto a Israele»; lo stesso dicasi per il presidente dell’organizzazione, l’ottantasettenne Mahmud Abbas (noto anche come Abu Mazen), ormai «incapace di fare qualsiasi cosa». Un giudizio ancora più impietoso sul suo conto compare il 2 febbraio, a pagina 7 dell’edizione cartacea, in un articolo dal titolo “Il risultato di anni di governo è una pila di fallimenti”: Abbas, dopo «aver trascorso gran parte della sua vita all’ombra di Yasser Arafat» è salito al potere, «ma in quasi vent’anni non è riuscito a combinare niente, perdendo persino il controllo di Gaza, ceduta ad Hamas; nel frattempo, i coloni israeliani continuavano a frammentare la Cisgiordania che si trovava sotto la sua autorità». La mancanza di carisma rispetto al suo predecessore, gli scarsi risultati ottenuti dai negoziati, le sue uscite antisemite e l’età avanzata sono i principali fattori che hanno sancito il declino della sua parabola politica.   

 

 

Gas e “uova d’oro”. Italia e Spagna nel Maghreb 

 

Dopo Algeri è la volta di Tripoli: continua il viaggio di Meloni lungo la sponda sud del Mediterraneo. Sabato scorso la premier è stata ricevuta dal presidente del Governo di Unità Nazionale libico Abdul Hamid Dbeibah e dal presidente del consiglio presidenziale Mohammed al-Menfi. A conclusione dell’incontro è stato firmato un importante accordo tra le rispettive compagnie petrolifere nazionali, ENI e NOC (National Oil Corporation) dal valore di otto miliardi. Riportando la notizia, al-‘Arab ha fatto presente le perplessità sorte intorno alle modalità di cooperazione tra le due parti; anzi, sarebbe più corretto includere anche un terzo attore all’interno dell’equazione geoenergetica: la Turchia, anch’essa alleata di Dbeibah. «Non si sa se Italia e Turchia, i cui funzionari in passato avevano annunciato di avere una “visione comune sulla Libia”, abbiano tracciato una linea di demarcazione nel Paese per ritagliarsi le rispettive influenze nell’ambito energetico, né è chiaro a quanto ammonterà la quota riservata alla Turchia nell’accordo sul gas». Qualora i termini risultassero fumosi e ambigui, allora si potrebbe creare, nei prossimi mesi, una crisi nella partnership tra Ankara e Roma. Al momento, chi ci guadagna è Dbeibah che sta cercando di stabilizzare il suo governo, sotto pressione per il montare dell’opposizione interna, servendosi proprio degli accordi firmati con gli altri Paesi mediterranei. La tenuta del governo libico sarà infatti fondamentale per la buona riuscita degli ambiziosi progetti di ENI, per non parlare della questione dei migranti, tema cruciale per le relazioni italo-libiche. Sempre Al-‘Arab riporta che l’incontro tra la premier italiana e il presidente algerino Tebboune avrebbe irritato l’establishment russo, considerato molto vicino al paese nordafricano: «l’accordo per la costruzione del nuovo gasdotto – si legge sulla prima pagina del 2 febbraio – sarà in grado di raddoppiare la produzione algerina verso l’Italia. Ciò non potrebbe fermarsi all’assorbimento della quota che Roma riceveva da Mosca, ma forse potrebbe eccedere, permettendo ad altri Paesi europei di ottenere il gas». In realtà, prosegue l’articolo, si tratta della solita e collaudata politica algerina, abituata ad oscillare, senza mai perdere l’equilibrio, tra Russia e Occidente.

 

Prosegue anche il dialogo tra Spagna e Marocco. Al-Quds al-‘Arabi analizza il rafforzamento dell’asse Madrid-Rabat che, come noto, si fonda sul riconoscimento della sovranità marocchina sul Sahara occidentale in cambio di una serie di vantaggi commerciali. L’idillio rischia però di andare incontro a un inaspettato stop: vi è anzitutto la mai risolta questione delle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, da sempre rivendicazioni del Paese arabo, a cui si aggiunge la contesa per il controllo dello spazio aereo sul Sahara occidentale, al momento prerogativa della Spagna. Per il giornale la cosa più ragionevole e sensata sarebbe che Madrid vi rinunciasse, dal momento che ha riconosciuto questo territorio come «parte inseparabile del suo vicino meridionale. E tuttavia ci si domanda: sarà facile per loro privarsi di una di quelle carte che ancora si trovava con saldezza nelle loro disponibilità? Alla luce degli scontri e delle attuali dinamiche geopolitiche interne e regionali, una scelta del genere sarà ancora possibile e ammissibile?». Dato che nel sottosuolo del Sahara si celano probabilmente minerali di un certo valore, la risposta per al-Quds è scontata: «gli spagnoli non vogliono rinunciare alla gallina che ancora depone, per loro, uova d’oro».    

 

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