Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 09/05/2025 12:14:40
La Siria continua a essere uno dei sorvegliati speciali dei media arabi, sempre meno ottimisti sulle sorti del Paese. Su al-Quds al-‘Arabi il giornalista siriano Mustafa al-Khalil commenta amaramente che «non c’è nulla di più miserevole che vedere un popolo ribellarsi per la libertà e poi inciampare sulla soglia dello Stato, brancolando nel passaggio dalla distruzione alla costruzione». «Rovesciare il regime è solo metà della battaglia, forse anche meno», prosegue l’editoriale, e la caduta di Asad ha portato alla luce «un vuoto profondo nella struttura alternativa: non c’era uno Stato che aspettava nell’ombra, ma uno stato rivoluzionario senza un progetto fondativo chiaramente definito». Al-Khalil paragona la Siria post-Asad – frammentata in «governi ombra e signori della guerra, ciascuno con la propria “rivoluzione”» – alla Francia del 1789, quando cadde re Luigi XVI e la rivoluzione «degenerò in un ciclo di sanguinose purghe e conflitti interni». La storia – la Russia dopo il 1917, la Somalia dopo il 1991, la Libia dopo il 2011 – insegna che «ogni volta che il regime viene distrutto ma lo Stato non viene ricostruito, è la corruzione a farla da padrone, e la voce delle armi prevale sulla voce della legge. […] i regimi cadono, ma le repubbliche non nascono». Nel caso siriano, prosegue l’articolo, «il momento rivoluzionario emerso nel 2011 è rimasto sospeso nel tempo, senza trasformarsi in un momento fondativo di un nuovo contratto sociale, capace di avviare lo Stato e la società verso un processo di trasformazione». Insistere nel rimanere in uno stato rivoluzionario, finisce per svuotare la rivoluzione del suo significato più profondo. La rivoluzione, spiega ancora il giornalista, è un mezzo, non un fine, è «una scintilla che apre le porte a un progetto fondativo, ma se resta accesa senza una direzione, finirà per bruciare indistintamente ciò che è verde e ciò che è secco».
Sullo stesso quotidiano, lo scrittore siriano e oppositore del precedente regime Mouaffaq Nyrabia riflette sulle «sfide esplosive» che il governo siriano deve affrontare con la minoranza curda e drusa. Con i curdi, con cui pure il governo siriano ha siglato un accordo, la tensione resta alta. Lo scorso 25 aprile la TV siriana ha annunciato che la quantità di petrolio inviata dai territori curdi al governo siriano era stata ridotta del 50%, a seguito di divergenze tra le due parti sull’attuazione degli accordi relativi ai due quartieri di Aleppo a maggioranza curda (Ashrafieh e Sheikh Maqsoud) e alla diga di Tishrin. Il nodo centrale, spiega l’articolo, risiede nelle divergenze tra le due parti rispetto alla sostanza dell’accordo: «Una parte lo intende come un’attuazione quasi diretta della restituzione, al governo centrale, delle risorse bloccate nella Siria settentrionale e orientale, accompagnata dallo smantellamento diretto delle Forze democratiche siriane e dalla loro integrazione nell’esercito regolare». L’altra parte concepisce il processo come un percorso più articolato, da completarsi entro la fine dell’anno, e che richiede ancora la risoluzione di diversi nodi. E poi c’è la questione drusa, riesplosa pochi giorni fa dopo che sui social è circolata una registrazione audio attribuita a un religioso druso che conteneva commenti offensivi nei confronti di Muhammad, il Profeta dell’islam. Al momento, tuttavia, l’autenticità dell’audio non è stata verificata e c’è chi sostiene che si tratti di un contenuto generato con l’intelligenza artificiale. La diffusione della registrazione ha scatenato un’ondata di proteste, durante le quali si sono levati inquietanti appelli allo «sterminio dei drusi», costringendo gli studenti appartenenti a questa comunità, iscritti all’Università di Homs, ad abbandonare le lezioni per timore di aggressioni. Nel suo articolo Nyrabia mette in guardia contro «l’estremismo ideologico, che prima erode la fiducia, poi la catalizza in comportamenti violenti, alimentando l’insicurezza e la paura e mettendo a rischio la stabilità» sociale.
Nonostante la loro esigua consistenza numerica, i drusi costituiscono una componente di rilievo all’interno della Siria, sia per la loro collocazione geografica strategica, sia per il ruolo storico che hanno svolto nella formazione dello Stato siriano, osserva Khairallah Khairallah su al-‘Arab. Concentrati principalmente nel governatorato di Suwaida, al confine con Israele e la Giordania, i drusi sono una minoranza importante per almeno due motivi: da un lato, l’area è vulnerabile all’influenza israeliana; dall’altro, è una zona di transito dei traffici di armi e droga diretti verso la Giordania e il Golfo. Khairallah ricorda inoltre come, sotto il regime degli Asad, i drusi abbiano subito sistematicamente forme di esclusione, in particolare l’emarginazione dalle alte cariche militari. Una situazione ben diversa rispetto ai decenni precedenti, quando – tra gli anni ’40 e ’60 – la loro presenza all’interno delle forze armate siriane era significativa. Il punto di svolta, prosegue l’articolo, fu il colpo di Stato del 23 febbraio 1966, orchestrato dagli ufficiali alawiti Salah Jadid e Hafez al-Assad, con l’appoggio del druso Salim Hatoum. Quest’ultimo, tuttavia, fu rapidamente estromesso e costretto all’esilio in Giordania. Nel 1967 tentò di rientrare in patria, ma fu arrestato e giustiziato. La sua fine, scrive Khairallah, segnò anche il tramonto dell’influenza drusa nell’apparato militare siriano. Alla luce di questa storia, il giornalista auspica che al-Sharaa adotti un atteggiamento diverso nei confronti della comunità drusa, anche in considerazione del fatto che Israele «è pronto a sfruttare qualsiasi turbolenza interna per presentarsi come difensore delle minoranze e penetrare nella Siria meridionale»
«Il nocciolo della questione siriana», scrive Rania Mustafa su al-‘Arabi al-Jadid, è che «non si è ancora formata un’identità nazionale e viviamo con l’eredità del precedente regime, che ha sfruttato le contraddizioni sociali per perpetuare il suo potere». A distanza di quattordici anni dall’inizio della rivoluzione, la Siria appare frantumata in una miriade di gruppi fondati su appartenenze tribali, familiari o regionali, ciascuno mosso da ambizioni di potere, accesso alle risorse e controllo economico. In questo contesto, osserva la giornalista siriana, «è diventato naturale ricorrere ai fanatismi religiosi per garantire la propria sopravvivenza, in assenza di un piano chiaro per controllare tutte le armi sparse nel Paese e di una visione politica nazionale capace di coinvolgere tutte le siriane e i siriani nella costruzione del loro Stato»
Sullo stesso quotidiano il giornalista egiziano Wail Qandil commenta con preoccupazione la recente visita del presidente siriano all’Eliseo, durante la quale al-Sharaa ha annunciato l’apertura di «negoziati con l’entità sionista, tramite mediatori, per fermare le ingerenze israeliane negli affari interni della Siria». Qandil teme che Damasco stia imboccando la via della normalizzazione con Israele e si dice sconcertato dall’assenza di reazioni critiche da parte dell’opinione pubblica vicina al nuovo presidente. Né le trattative con un nemico che aveva esultato per la caduta di Bashar al-Asad, né la definizione degli attacchi israeliani come semplici «interferenze» sembrano aver destato scandalo, commenta il giornalista. Al contrario, sottolinea l’articolo, ciò che ha indignato i sostenitori di al-Sharaa è stato l’uso del termine «massacro» da parte di una giornalista presente all’Eliseo per descrivere gli scontri confessionali avvenuti nel nord-ovest della Siria con gli alawiti. «La propensione del regime caduto [a sostenere] una determinata confessione e reprimere le altre componenti del popolo non giustificano il ripetersi della stessa repressione in senso inverso. Ciò che sognano i sostenitori della Siria è una rottura con l’eredità di un regime che ha fatto soffrire il suo popolo. Ma questa rottura non dovrebbe estendersi fino a includere un cambiamento nel modo di trattare con il nemico storico della Siria», ovvero Israele, conclude l’articolo.