Introduzione a “Il sollievo dopo la distretta” di Al-Muhassin Ibn ‘Alī al-Tanūkhī

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Ultimo aggiornamento: 10/10/2022 15:44:51

Una concubina accusata ingiustamente di adulterio, un funzionario che rischia di vedere il suo patrimonio confiscato, un mercante frodato da un falso cieco che salmodia il Corano con voce soave. Sono solo una manciata dei personaggi che popolano l’affollato salone del giudice e letterato al-Tanūkhī. Diversi per estrazione sociale, provenienza geografica ed epoca storica, sono tutti accomunati dal fatto di sperimentare, come recita il titolo dell’opera, Il sollievo dopo la distretta. La stessa sorte toccata al loro autore.

 

Nato nel 939 da un giudice a letterato di Basra, al-Tanūkhī, rimasto orfano di padre a 15 anni, viene accolto nel circolo del potente visir al-Muhallabī. Uomo di fiducia del primo emiro buyide Mu‘izz al-Dawla, che nel 945 si era impadronito di Baghdad e aveva posto il califfo sotto la sua tutela, al-Muhallabī offre al giovane Tanūkhī un’educazione di prim’ordine, affidandolo alla guida di Abū l-Faraj al-Isfahānī, il celebre poeta e musicista a cui si deve il Libro dei canti. Terminata la sua formazione, al-Tanūkhī inizia a svolgere la professione di giudice. Tuttavia, la sua ascesa subisce una battuta d’arresto con la morte di al-Muhallabī nel 963. Continua a navigare le acque tempestose ancora per qualche anno e mentre si trova nel Khuzistan ha un breve incontro con il famoso poeta al-Mutanabbī. Tuttavia nel 970 cade in disgrazia e i suoi beni sono sottoposti a confisca per ben due volte. Temendo per la vita, al-Tanūkhī deve addirittura fuggire nelle paludi dell’Iraq meridionale, dove rimane nascosto per alcuni mesi. È forse lì che concepisce il disegno della sua opera e inizia a raccoglierne il materiale. Il sollievo invocato nella finzione letteraria sopraggiunge nella realtà nel 977, quando ‘Adud al-Dawla, emiro di Persia, s’impadronisce dell’Iraq e porta il dominio buyide all’apogeo della sua potenza. Al-Tanūkhī è riabilitato e riceve diverse missioni ufficiali, tra cui quella di negoziare il matrimonio tra il califfo e la figlia di ‘Adud al-Dawla. Tuttavia le sue fortune presso il nuovo patrono sono di breve durata. Nel 983, l’anno della morte dell’emiro, inizia la stesura del Sollievo e trascorre il resto della vita lontano dall’arena politica. Muore a Baghdad nel 994.

 

Come afferma Julia Bray, «al-Tanūkhī scrisse il Sollievo non solo per un pubblico di persone come lui; lo scrisse anche per sé e su di sé, come un esercizio spirituale e un palcoscenico su cui raccontare e dar senso alle sue proprie esperienze»[1]. In questa ricerca al-Tanūkhī non era evidentemente isolato: fulminee ascese e altrettanto repentine cadute erano infatti moneta corrente nella società del suo tempo, e in molte altre che lungo i secoli avrebbero riproposto il modello autocratico. Ciò spiega l’enorme fortuna dell’opera, continuamente imitata in arabo e arricchita di nuovi aneddoti generazione dopo generazione, riproposta in giudeo-arabo dal letterato tunisino Ibn Shāhīn (X secolo), tradotta in turco e in persiano, oltreché in numerose lingue europee moderne tra cui l’italiano, nella scelta antologica curata da Antonella Ghersetti da cui abbiamo tratto gran parte dei brani.

 

Le indubbie abilità letterarie dell’autore, che sovrintende da dietro le quinte al sereno dipanarsi dell’azione, non devono far dimenticare la finalità dell’opera che, oltre a svagare, si propone di ravvivare nel lettore la fede in Dio. Al-Tanūkhī infatti apparteneva alla scuola teologica mu‘tazilita per la quale Dio regge i destini del mondo con sovrana giustizia, operando sempre il meglio per le sue creature. Dopo l’iniziale appoggio da parte dei califfi, questa corrente era divenuta oggetto di persecuzioni, che nel tempo ne decretarono l’estinzione. Riscoperta in età contemporanea, è talvolta liquidata come intellettualistica e fredda, portatrice di «un’immagine meccanicista di una divinità costretta dalle sue stesse leggi»[2]. Il sollievo dopo la distretta mostra invece una ben diversa spiritualità, in cui il credente si affida a Dio nella fiducia della Sua sovrana giustizia, che saprà sistemare le cose nel modo più inatteso. Certo, nella realtà il problema del male non è liquidabile con l’ottimismo semplice di questi racconti – un cristiano direbbe che senza la croce l’enigma rimane irresolubile – ma essi hanno nutrito nei secoli una fiducia che fa da sano contraltare all’arbitrario universo dei partigiani della predestinazione.

 

Articolato in quattordici libri, il Sollievo spazia da Adamo alla società del suo tempo. Al suo interno si distinguono facilmente tre diversi livelli: innanzitutto la Bibbia e il Corano. L’opera si apre infatti con una carrellata di sventure toccate ai vari profeti, da Adamo fino a Muhammad, non senza riletture e adattamenti. Il figlio del sacrificio mancato di Abramo è infatti Ismaele, come nella tradizione islamica maggioritaria, che scioglie in questa direzione l’ambiguità coranica, e Daniele nella fossa dei leoni è miracolosamente soccorso da Geremia, laddove nella sezione deuterocanonica del libro di Daniele (14,33-39) il protagonista era Abacuc.

 

Conclusasi la storia profetica con l’episodio di Muhammad appartato nella grotta per sottrarsi ai meccani e con i detti dei suoi Compagni, il campo è lasciato ad alcuni aneddoti senza tempo, come la serpe e il devoto o i tre giovani israeliti, o situati in un remoto passato, come il medico Buzurjmihr e il re Cosroe I Anushirwan (VI secolo).

 

La parte più vivace, oltre che più estesa, è però sicuramente l’ultima, in cui si raccolgono episodi tratti dalla società abbaside del tempo, ritratta anche nell’altra opera di al-Tanūkhī, Nishwār al-muhādara (all’incirca “Conversazioni a tavola”). Anche se la dimensione letteraria è sicuramente presente in questi aneddoti che si vogliono storici e senza dimenticare che il punto di vista è sempre quello delle élite, essi offrono squarci preziosissimi su una società crudele e caotica, assetata di denaro e lusso, in cui i fondamenti etici erano andati perduti. Due sono i paradigmi che si alternano a sostenere la narrazione: da un lato il lieto fine; dall’altro una visione più cupa per cui bene e male, fortuna e sfortuna, si alternano ciclicamente nella vita dell’uomo. «Al-Tanūkhī credeva realmente nel lieto fine – si domanda ancora Julia Bray – o stava solo cercando di convincersi a crederci? La questione è aperta. Ma ogni lettore noterà che l’emozione dominante nel Sollievo […] è la paura: paura della malattia, del dolore fisico, dell’ingiustizia, della tortura, di essere condannati a morte. La storia dei tempi di al-Tanūkhī mostra di quante cose c’era in effetti da aver paura. Dovremmo ricordarcelo se vogliamo capire perché il Sollievo fu scritto e perché fu letto con così grande entusiasmo»[3].

 

Non è un mistero per nessuno, le paure di al-Tanūkhī sono le stesse che ci attanagliano oggi, nell’Occidente della post-pandemia e della guerra, ma anche in un Medio Oriente in cui il circolo vizioso di autoritarismo ed estremismo religioso sembra impossibile da rompere. Vorremmo allora che il Sollievo dalla distretta diventasse un augurio per tutti i nostri amici mediorientali, musulmani e cristiani, che abbiamo avuto la fortuna di conoscere in questi anni, un inno alla speranza fondato su una teologia amica dell’uomo, di cui il Medio Oriente ha assoluto bisogno per poter realizzare l’invocato cambiamento politico e sociale. Prima che sia troppo tardi.

 

Martino Diez

 

 

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[1] Al-Muhassin Ibn ‘Alī al-Tanūkhī, Stories of Piety and Prayer. Deliverance Follows Adversity, edited and translated by Julia Bray, Library of Arabic Literature, NYU Press, New York 2019, p. xii.

[2] Khaled Blankinship, “The Early Creed”, in Tim Winter (a cura di), The Cambridge Companion to Classical Islamic Theology, Cambridge University Press, Cambridge 2008, p. 50.

[3] Ibidem, p. xxix.

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