Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:12:55

Mentre purtroppo non finisce la conta delle vittime del terremoto che ha colpito la Turchia sud-orientale e la Siria nord-occidentale, la stampa internazionale continua ad analizzare le ripercussioni politiche e geopolitiche del sisma. Su al-Monitor, Gilles Kepel si sofferma sul concetto di linee di faglia, presente tanto nella terminologia geologica quanto in quella figurata della geopolitica. Il politologo francese sottolinea come nel caso di Turchia e Siria le due dimensioni si sovrappongano tragicamente, visto che alle frizioni sotterranee tra la placca tettonica anatolica e quella araba si sommano in superficie numerosi problemi politici irrisolti.

 

Foreign Policy offre un dettagliato resoconto delle inefficienze del governo turco nel prevenire i danni della tragedia, dai mancati controlli ai casi di corruzione che da decenni piagano l’edilizia della Repubblica di Turchia. Lo stesso Erdoğan denunciò all’inizio della sua carriera politica questi fenomeni a seguito del sisma del 1999 che colpì la città di Izmit (l’antica Nicomedia), sul Mar di Marmara. All’epoca quel discorso sulla prevenzione sismica contribuì in maniera determinante alla sua vittoria alle elezioni presidenziali del 2002; adesso, però, gli scandali e la lentezza dei soccorsi rischiano di compromettere la sua corsa alla rielezione, dato che secondo i sondaggi il suo indice di consenso è in calo già da parecchi mesi. Dello stesso avviso il giornale israeliano Haaretz, secondo cui il 2023 – centenario della nascita della Repubblica turca, la Cumhuriyeti – cambierà inevitabilmente significato: la Turchia, forte della sua posizione nello scenario regionale e ambiziosa sul piano economico per la costruzione di grandi opere, si scopre all’improvviso fragile e bisognosa di aiuti dall’estero. Malgrado le evidenti responsabilità del governo, il giornale si mostra cauto nel fare previsioni sul futuro politico del presidente uscente, che rimane comunque in una posizione di forza rispetto ai suoi avversari e ha la possibilità di gestire la narrazione politica facendo leva sui sentimenti di fiducia e speranza della popolazione.

 

Per quanto riguarda gli affari siriani, i giornalisti Ruth Michaelson e Lorenzo Tondo hanno intervistato per il Guardian Abu Mohammad al-Joulani, leader di Tahrir al-Sham, formazione islamista erede di Jabhat al-Nusra. Al-Joulani, sulla cui testa pende una taglia da dieci milioni di dollari, ha parlato come se fosse un vero e proprio governante riconosciuto a livello internazionale: ha invocato l’apertura dei posti di blocco frontalieri e sollecitato maggiori aiuti dalle organizzazioni internazionali e dagli Stati Uniti. Per il leader si tratta infatti di un’occasione per mostrare al resto del mondo i progressi compiuti da Tahrir al-Sham: non più una violenta organizzazione salafita-jihadista, bensì il più importante gruppo d’opposizione siriano, che negli ultimi anni ha avviato una “svolta moderata” attraverso l’istituzione del Governo di Salvezza Nazionale.

 

Allo stesso modo, Bashar Assad sta approfittando, come spiega il Middle East Eye, di questa “rara opportunità” per riallacciare le relazioni con gli altri Paesi arabi, sull’onda dell’emozione derivata dall’immane tragedia umanitaria. Damasco conta soprattutto sugli aiuti e sul sostegno degli Emirati, ma spera anche in un riavvicinamento, non necessariamente ufficiale, con l’Arabia Saudita e l’Egitto. Il reintegro della Siria nella grande “placca araba”, fino a qualche anno fa impensabile, è diventato un progetto concreto. 

 


In piazza per la democrazia israeliana [a cura di Claudio Fontana]

 

Decine di migliaia di persone hanno manifestato lunedì per le strade di Gerusalemme e davanti alla Knesset per protestare contro la riforma della giustizia proposta dal governo di Benjamin Netanyahu. Le manifestazioni hanno avuto luogo mentre all’interno del Parlamento israeliano una commissione iniziava le operazioni di voto per permettere alle prime parti della riforma di approdare in Parlamento, dove dovranno essere nuovamente votate. Il presidente Isaac Herzog, preoccupato per le crescenti tensioni, aveva invitato il primo ministro Benjamin Netanyahu a congelare la riforma e iniziare un dialogo con l’opposizione. In un discorso alla nazione, Herzog ha affermato: «io percepisco, tutti percepiamo che siamo appena un attimo prima di uno scontro, persino uno scontro violento». Netanyahu però ha finora tirato dritto.

 

Secondo gli organizzatori, più di 100.000 persone hanno preso parte alle proteste, le più grandi da diversi anni a questa parte. I manifestanti sono uno spaccato composito della società israeliana: arabi, ebrei, esponenti di minoranze religiose, attivisti per i diritti delle donne, membri dell’opposizione politica, intellettuali, avvocati, esponenti delle aziende tecnologiche israeliane (questi ultimi tra i più agguerriti oppositori). Tutti uniti al grido di “democrazia!”. È stato inoltre dichiarato uno sciopero, al quale hanno aderito molte aziende del settore tecnologico, ma non la più importante organizzazione sindacale israeliana (Histadrut), che ha deciso di non prendere posizione. Come ha scritto Amir Tibon (Haaretz), quello che è avvenuto lunedì è estremamente importante proprio per le dimensioni delle manifestazioni: esse, infatti, sono state pensate come una «dimostrazione di forza» in quella che il giornalista definisce già una «guerra civile fredda», di cui le proteste sono state il «colpo di avvertimento». Dopo che mercoledì il governo ha rinviato alcuni voti relativi alla riforma – una semplice decisione tattica secondo Anshel Pfeffer – la proposta di mediazione avanzata da Herzog è nelle mani di Netanyahu, che fondamentalmente deve decidere se mantenere in vita la sua coalizione, con il rischio di aggravare lo scontro all’interno del Paese, con la diaspora ebraica e, soprattutto, con l’amministrazione Biden, che ha fatto sapere a più riprese quanto Washington ritenga intangibile l’indipendenza della magistratura.

 

Il timore dei manifestanti è che la riforma voluta da Netanyahu faccia venir meno i pesi e contrappesi necessari nei sistemi democratici, subordinando il ruolo della magistratura e in particolare della Corte Suprema all’esecutivo. Incurante, Netanyahu ha invitato i manifestanti a mettere fine alle loro proteste, accusandoli di favorire deliberatamente la discesa di Israele verso l’anarchia.

 

Il principale nodo del contendere è uno: i poteri e il controllo della Corte Suprema. La riforma voluta dall’attuale maggioranza prevede che sia sufficiente un voto a maggioranza semplice della Knesset per ribaltare le sentenze della Corte su qualsiasi argomento. Inoltre, la riforma modificherebbe la composizione del comitato che nomina i giudici. Attualmente si tratta di un organo composto da nove membri: tre giudici della Corte, due rappresentanti dell’ordine degli avvocati, due ministri del Governo e due membri del Parlamento (di cui uno, generalmente, dell’opposizione). Quindi: cinque professionisti in ambito giudiziario, quattro politici. Con la nuova proposta, i rapporti verrebbero invertiti e la maggioranza andrebbe ai membri politici del comitato, che dunque avrebbero via libera nella nomina dei giudici.

 

Se così sarà, di fatto la coalizione di maggioranza avrebbe poteri incontrollati. È per questo che l’ex premier Yair Lapid ha affermato: «non ce ne staremo a casa mentre loro trasformano Israele in una dittatura e ci silenziano». A queste considerazioni si aggiunge il conflitto di interessi che riguarda Netanyahu, il quale potrebbe utilizzare quanto previsto dalla riforma per uscire indenne dai guai giudiziari in cui si trova ormai da anni.

 

D’altro canto, i sostenitori della riforma lamentano il potere eccessivo riservato alla magistratura, che può respingere le leggi votate dalla Knesset dichiarandole incostituzionali (in un Paese, Israele, che è privo di una vera e propria Costituzione). Il ruolo della magistratura è cresciuto nel corso degli anni e ha portato allo spostamento dell’equilibrio di potere a favore di élite non elette come i giudici a discapito dei funzionari democraticamente legittimati.

 

Il contesto nel quale si svolge la lotta per il controllo della magistratura è caratterizzato dall’ascesa della destra religiosa israeliana. In particolare, gli ebrei ortodossi mal sopportano l’opposizione della Corte Suprema nei confronti delle politiche che vorrebbero introdurre, come la separazione di uomini e donne sui bus pubblici e la totale esenzione dal servizio militare per i giovani impegnati negli studi della Torah. Ancora più delicato, però, è il potere della Corte di porre dei limiti agli insediamenti in Cisgiordania, che al contrario le forze della destra religiosa vorrebbero estendere. Ciononostante, come ha spiegato Patrick Kinglsey sul New York Times, anche tra i coloni e tra esponenti del mondo ebraico ortodosso non manca chi si oppone alla riforma. «Persone come me – di destra, religiose, ortodosse – generalmente sono dell’idea che il sistema giudiziario in Israele […] debba cambiare. Ma quello che il governo vuole fare è demolire Israele», ha detto Einat Halevy Levin, uno degli oppositori di questa riforma.

 

Intanto, mentre Germania, Italia, Francia, Stati Uniti, Regno Unito hanno espresso la loro disapprovazione per la decisione di Israele di legalizzare nuovi insediamenti, in Cisgiordania proseguono le violenze. Martedì un ragazzo palestinese è stato ucciso dalle forze israeliane. Da inizio anno le vittime palestinesi sono già 47.

 

Lo smantellamento della democrazia tunisina  [a cura di Michele Brignone]

 

In Tunisia si stringe la morsa autoritaria del presidente Kais Saied. Nelle ultime due settimane, un’ondata di arresti ha colpito diverse personalità di spicco del Paese: uomini e oppositori politici, tra cui l’ex parlamentare di Ennahda ed ex ministro della Giustizia Noureddine Bhiri, due ex-magistrati, un sindacalista, un influente imprenditore, e il direttore di Radio Mosaïque, una delle emittenti più ascoltate ma anche più critiche verso Saied. L’accusa è per tutti di attentato alla sicurezza dello Stato. Durante una visita al Ministero degli Interni, il presidente ha affermato che «coloro che sono stati arrestati sono terroristi e devono essere giudicati». Rispondendo ai suoi critici, ha inoltre dichiarato che gli «arresti non hanno niente a che fare con i diritti e le libertà». Saied, che non è nuovo a denunciare cospirazioni di varia natura, ha anche detto di aver sventato un piano di assassinio nei suoi confronti.

 

Il Fronte di Salvezza Nazionale, principale coalizione dell’opposizione, ha descritto come “repressivi” gli arresti decisi da Saied e deplorato la “degradazione” della situazione politica del Paese. Anche il principale sindacato tunisino, la potente UGTT, che negli ultimi due anni ha mantenuto una posizione oscillante nei confronti del capo dello Stato, ha criticato l’arbitrio delle ultime detenzioni.

 

In un’analisi per Middle East Eye, il direttore del quotidiano arabofono digitale Arabi21, ha scritto che, insieme alla bassissima affluenza alle recenti elezioni parlamentari, alle gravi difficoltà economiche del Paese e al sostanziale fallimento della lotta di Saied contro la corruzione, l’ultima ondata di arresti è un ulteriore segno della perdita di legittimità del presidente, il quale al momento della sua elezione godeva di un ampio consenso popolare.

 

Mentre solo fino a pochi mesi fa parlava inopinatamente di un “rischio” autoritario per la Tunisia, Amberin Zaman su al-Monitor prende atto del sostanziale smantellamento della giovane democrazia tunisina, sottolineando l’inazione degli Stati Uniti e dei Paesi europei di fronte a questa deriva.

 

 

In breve

 

In Libano non ha fine la svalutazione della Lira. OrientXXI usa l’immagine del “buco nero”, mentre un editoriale il Guardian punta il dito contro le élite del Paese.

 

Saif al-Adel, che da circa vent’anni risiede in Iran, sarebbe il nuovo leader di al-Qaeda, benché l’organizzazione jihadista non abbia ancora ufficializzato il nome del successore di Zawahiri.

 

Nel corso di un viaggio ufficiale in Cina, il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha incontrato Xi Jinping. Xi ha comunicato a Raisi il sostegno cinese nel negoziato sul nucleare, l’aumento delle importazioni di prodotti agricoli e il coinvolgimento iraniano nei progetti della BRI (Wall Street Journal).

 

Il Financial Times dedica un articolo all’incontro che il mese scorso la Pontificia Accademia delle Scienze ha dedicato all’intelligenza artificiale, con la partecipazione di cristiani, musulmani ed ebrei.

 

 

 

 

 

 

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