Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 20/06/2025 15:13:57

Il conflitto tra Israele e l’Iran ha generato nel mondo arabo un’ondata di inquietudine, accompagnata da un senso di smarrimento. Questo stato d’animo emerge con particolare intensità sui quotidiani panarabi vicini al Qatar, come al-Arabi al-Jadid. Qui, lo scrittore palestinese Hussam Abu Hamid solleva una domanda tanto provocatoria quanto essenziale: “Chi è il vero nemico? Il progetto iraniano o quello sionista?”. La conclusione, a suo avviso, è “paradossale e dolorosa” al tempo stesso: «Forse siamo stati noi (arabi) a costruire un’inimicizia con l’Iran, ignorando il nemico israeliano, che non si è mai fermato un solo istante». Abu Hamid ripercorre l’evoluzione del rapporto tra Teheran e il mondo arabo, e denuncia il ruolo di quest’ultimo che ha combattuto la Repubblica Islamica fin dalla sua nascita: «Con il supporto occidentale, gli arabi hanno destinato decine di miliardi di dollari a Saddam Hussein nella Prima Guerra del Golfo, trasformandola in un conflitto di logoramento contro un regime rivoluzionario appena nato. Abbiamo preferito lo scontro al dialogo, trasformando una divergenza politica in una rivalità strutturale, successivamente accettata come fosse un destino inevitabile».

Pur riconoscendo e condannando le ingerenze iraniane in Siria, Yemen e Libano, Abu Hamid traccia una distinzione netta: «Il regime iraniano, per quanto odiato, non somiglia all’occupazione israeliana, fondata sull’espansionismo e sulla pulizia etnica». Critica, inoltre, il doppio standard di alcuni governi arabi: «Condanniamo qualsiasi apertura verso Teheran, ma intanto normalizziamo i rapporti con Tel Aviv. Perché parlare con l’Iran è tradimento, mentre allearsi con Israele è diventato politicamente accettabile?». L’autore conclude amaramente: «L’Iran ha le mani macchiate di sangue arabo, come gli arabi le hanno macchiate di sangue iraniano. Ma Teheran resta un vicino che può essere contenuto e con cui si può ricostruire un rapporto. Israele, invece, è un progetto di insediamento, sradicamento e sostituzione, che si ferma solo quando avrà eliminato la vittima». E ammonisce: «Prima di augurarci la caduta e la sconfitta dell’Iran per mano dell’America e di Israele, chiediamoci: cosa succederà dopo? Israele cesserà di essere nostro nemico, o si trasformerà in un nemico ancora più brutale e arrogante?»

Sul medesimo quotidiano, il politologo giordano Muhammad Abu Rumman vede nella strategia adottata da Israele dopo il 7 ottobre 2023 un progetto di affermazione egemonica nella regione, che prevede l’annientamento dell’influenza iraniana. Oggi però, prosegue l’articolo, il nuovo ago della bilancia è l’Arabia Saudita: «Il suo crescente ruolo regionale e il riavvicinamento con gli Stati Uniti, avviato sotto l’amministrazione Trump, puntano a ristabilire un nuovo equilibrio di potere nella regione, non con Israele, ma in opposizione al comportamento aggressivo di Netanyahu». Questa linea si riflette sia nella ferma condanna saudita degli attacchi contro Teheran, sia nell’insistenza di Riyad nel porre la creazione di uno Stato palestinese come condizione imprescindibile per la normalizzazione dei rapporti con Israele. Abu Rumman prevede inoltre che i Paesi arabi non accetteranno Israele come Stato egemone: «Si formerà un asse tra Turchia, Giordania, Egitto, Qatar ed Emirati, trainato da Riyad, che gode di relazioni consolidate con l’Europa, gli Stati Uniti, la Cina e la Russia».

Su al-Quds al-Arabi, lo scrittore algerino Tawfiq Ribahi mette in guardia contro le tifoserie sulle piattaforme social: «Gli esaltati, da una parte o dall’altra, ignorano le conseguenze di questa guerra per il mondo arabo. Nessuno dei due, in caso di vittoria, avrà pietà degli arabi». Se vince Israele, «si proclamerà il nuovo dio del Medio Oriente, tracciandone i confini e scrivendone la storia e il destino, come fanno sempre i vincitori. Ciò non significa che l’Iran proteggerà gli arabi dal bastone israeliano, ma quanto meno tiene parzialmente e temporaneamente occupato Israele», scrive il giornalista. Come sempre, conclude l’articolo, gli arabi restano spettatori passivi e il loro senso di inadeguatezza è destinato a intensificarsi perché chiunque vinca la guerra farà pesare loro di averli liberati dall’avversario.

Più esplicita e programmatica la posizione di Asasmedia. Mohamed Barakat, Direttore editoriale della testata libanese, equipara l’Iran e Israele a due potenze occupanti. La prima «vuole che gli sciiti arabi combattano le sue guerre nei loro territori»; la seconda «costruisce muri ed eserciti su base religiosa razzista». Per Barakat la scelta non è tra i due: «Non ha senso appoggiare l’Iran perché nemico di Israele, o viceversa. La vera opzione è un progetto di rinascita araba (Nahda) che rifiuti le tutele esterne. Il nostro interesse sta nell’indebolimento sia di Teheran sia di Tel Aviv, perché nel loro potere sta la fragilità degli arabi».

Sullo stesso quotidiano, il giornalista libanese Khairallah Khairallah ritiene che «l’Iran abbia già perso». A suo giudizio, Teheran ha solo due opzioni: «Arrendersi alle condizioni americane (cioè israeliane) o continuare la guerra da perdente». Alla luce di questo scenario, Khairallah invita il Libano a tutelare i libanesi tenendosi fuori dal conflitto: «Meglio restare spettatori di un conflitto che non ci appartiene e i cui esiti sono già noti».

Radicalmente diversa la posizione di al-Akhbar, testata libanese filo-Hezbollah. «Se l’Iran crolla, crolla anche il Medio Oriente», scrive Islam Özcan. Il giornalista turco denuncia poi l’indifferenza dei governi musulmani nei confronti della minaccia israeliana: «Se avessero davvero capito che la loro esistenza dipende dall’Iran, non si sarebbero fermati a semplici condanne verbali. Non si chiede di combattere con Teheran, ma almeno di offrire un decimo del supporto che l’Occidente dà a Israele». E conclude: «L’ambiguità di Trump, i giochi d’ombra della NATO e le dichiarazioni dei leader europei svelano il progetto: rimodellare la regione attraverso Israele».

In un altro articolo di al-Akhbar, lo scrittore giordano Mohamed Khaled offre un’analisi ottimista nei confronti dell’Iran. A suo giudizio, anche uno scenario ritenuto improbabile, come un intervento diretto degli Stati Uniti, finirebbe per rafforzare Teheran: «Un coinvolgimento americano offrirebbe all’Iran una lista di obiettivi da colpire e motiverebbe l’ingresso nel conflitto di attori come la Cina, la Russia e il Pakistan». Khaled osserva che persino gli arabi «normalizzatori» sanno che il crollo di Teheran innescherebbe conseguenze difficili da gestire. L’autore commenta la posizione israeliana citando un proverbio persiano: «Se il nemico conosce la ninna nanna (colpire le capacità nucleari e far cadere il regime iraniano) perché non riesce a prendere sonno?». E risponde: «Perché le sirene suonano senza sosta nei Territori occupati. Perché anche gli iraniani, a Teheran e dintorni, possiedono ciò che può privare il nemico del sonno e della sicurezza», a sottolineare la capacità di deterrenza iraniana e la vulnerabilità a cui Israele è esposta nonostante la sua superiorità militare.

Diversi, per toni e priorità, i media dell’orbita saudita e di quella emiratina. Sul quotidiano panarabo di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat, la giornalista bahreinita Sawsan al-Shaer elogia la linea «lungimirante» e prudente dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), fondata sull’analisi dei segnali regionali e internazionali che lasciavano presagire un’escalation potenzialmente incontrollabile, «capace di trascinare tutta l’area in nuove guerre logoranti, compromettendo la crescita economica e le priorità di sviluppo». Con toni autocelebrativi, la giornalista conclude: «I paesi del GCC hanno saputo rispondere alle sfide del futuro raggiungendo risultati che hanno superato ogni aspettativa nel breve periodo». Essi hanno puntato su «una strategia multilaterale di relazioni con attori sia orientali che occidentali, evitando rigidità e schieramenti. Questo approccio li ha resi interlocutori credibili per tutte le potenze coinvolte in conflitti, come dimostrano i ruoli di mediazione tra Russia e Stati Uniti, e tra Russia e Ucraina».

Sulla stessa testata, il politologo saudita Abdulghani al-Kindi riflette sulla crisi del pensiero politico arabo: «gli attacchi israeliani non solo hanno messo in luce le fragilità interne dell’Iran, ma anche la profonda impasse in cui si trova la mente araba». Per più di vent’anni, gli arabi hanno escluso l’eventualità di un attacco israeliano contro l’Iran «per eccessiva fiducia nella forza di Teheran o perché aderivano a visioni complottiste, secondo cui il conflitto tra Tel Aviv e Teheran sarebbe una messinscena orchestrata per danneggiare il mondo arabo». Da qui, il suo auspicio: «Mi auguro che questo colpo sia l’inizio di una nuova coscienza politica equilibrata, che privilegia il pensiero realistico alle teorie del complotto, e privilegia un approccio oggettivo ai discorsi ideologici e agli slogan approssimativi».

Sul quotidiano emiratino al-Ayn al-Ikhbariyya, il ricercatore Mohamed al-Ali invita gli Stati a concentrarsi sulle proprie economie e sul benessere dei popoli: «La regione ha già abbastanza crisi: le guerre non risolveranno nulla e non chiuderanno alcun dossier. Serve lavoro, non armi, per uscire dalle crisi politiche, economiche e sicuritarie che affliggono molti Paesi mediorientali. Alcuni di questi stanno già costruendo un futuro di prosperità per sé e per la regione». L’autore denuncia l’inerzia delle grandi potenze, accusate di non agire per garantire la stabilità nella regione: «Le crisi geopolitiche rallentano lo sviluppo. Il mancato impegno internazionale per la pace potrebbe trasformare una crisi regionale in un incendio su scala globale». La sua conclusione è chiara: «Una guerra regionale o uno squilibrio drastico nel sistema di potere danneggerebbe tutti. Solo la pace può garantire stabilità e sviluppo, ma fermare le guerre non basta: serve un approccio nuovo, fondato sul dialogo e la politica».

Infine, sempre su al-Ayn al-Ikhbariyya , lo scrittore Hani Salem Mashur punta l’attenzione sui Fratelli musulmani, che hanno rilasciato un comunicato a sostegno di Khamenei. Il giornalista lo definisce «un giuramento di fedeltà finale. Non è un comunicato in solidarietà con la Palestina, ma un documento di sottomissione politica e ideologica a Teheran. L’Iran che ha bruciato il Levante, annegato l’Iraq e fondato Hezbollah e gli Houthi, è diventato la “fortezza della nazione islamica”». Questo comunicato, prosegue l’articolo, rappresenta una svolta radicale nel linguaggio della Fratellanza, che «non nasconde più da quale parte sta. Il problema vero sta nelle conseguenze: proprio come è accaduto dopo la Guerra del Golfo nel 1991, sotto le mentite spoglie della “resistenza”, si apriranno le porte per creare nuove armate jihadiste, ancora più estremiste». Mashur lancia un appello ai governi arabi: «Bisogna smontare la macchina ancora in vita dei Fratelli musulmani nel mondo arabo. Si riorganizzeranno sotto slogan più accattivanti, che non partiranno da “al-Qaida” o dal “jihadismo”, ma cominceranno, come sempre, con la predicazione e l’educazione». Il giornalista chiude sottolineando che: «la Palestina non si libererà tessendo le lodi di Teheran e muovendo accuse contro Abu Dhabi […]. È il momento di chiamare le cose con il loro nome: chi scrive un comunicato di ringraziamento a Teheran, scrive un certificato di tradimento della verità, della storia e della sua nazione islamica».