Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 04/07/2025 16:03:01

All’indomani del cessate il fuoco tra Israele e Iran, le immagini dei giganteschi cartelloni dello “scudo di Abramo” affissi per le strade di Tel Aviv hanno fatto il giro del mondo. In primo piano, Donald Trump e Benyamin Netanyahu, circondati da una decina di leader arabi, inclusi quelli di Paesi che non hanno ancora normalizzato i rapporti con Israele, come l’Oman, il Libano e la Siria.

Un articolo pubblicato da al-Quds al-Arabi sottolinea come, in questi cartelloni, sia stata volutamente esclusa una parte significativa del mondo arabo: Qatar, Algeria, Tunisia, Yemen e Libia. Secondo il quotidiano, questa campagna promozionale dello “scudo di Abramo” rientra nel più ampio piano israeliano di “cambiare il volto del Medio Oriente” attraverso un’alleanza regionale con «i Paesi arabi moderati per affrontare l’Iran e le “organizzazioni terroristiche” che gli sono affiliate». In parallelo, osserva l’articolo, gli analisti israeliani dichiarano che Netanyahu sarebbe pronto a porre fine all’assedio su Gaza nell’ambito di un nuovo quadro regionale di intese. Tuttavia, tale prospettiva è osteggiata da figure come Ben Gvir, Smotrich e dai ministri israeliani della Finanza e della Sicurezza nazionale.

L’articolo mette in luce come questi sviluppi regionali e internazionali riflettano una «rapida sottomissione di Netanyahu alle strategie di Trump in Medio Oriente». Secondo l’autore, dietro le quinte dello “Scudo di Abramo”, Trump avrebbe «frenato le ambizioni di Netanyahu e dei suoi partner attraverso l’equazione “Gaza in cambio di Fordow”», riprendendo, in parte, la logica araba della soluzione a due Stati. E così, se da un lato lo “Scudo di Abramo” rappresenta una celebrazione dell’alleanza tra Netanyahu e Israele con alcuni Paesi arabi, dall’altro – osserva l’autore – esso può anche essere letto come una sorta di dichiarazione implicita di fallimento, tanto sul fronte iraniano quanto su quello di Gaza.

A catalizzare l’attenzione di molte testate arabe è stata però soprattutto la presenza, tra i volti raffigurati nei cartelloni, di quello del presidente siriano Ahmed al-Sharaa, un fatto che ha sollevato interrogativi su una possibile normalizzazione tra Siria e Israele. Sul quotidiano  al-Arabi al-Jadid, l’analista giordano Muhammad Abu Rumman firma un articolo intitolato “Al-Sharaa sta ripercorrendo i passi di Sadat?”. Nonostante le dichiarazioni ufficiali israeliane rimangano ostili a Damasco, l’autore osserva: «C’è qualcosa di americano che si sta cucinando in segreto, molto probabilmente legato all’inclusione della Siria negli Accordi di Abramo». Si tratterebbe, secondo lui, di un piano più ampio promosso da Washington e che includerebbe anche l’Arabia Saudita. Per la Siria, il premio della normalizzazione sarebbe la revoca delle sanzioni e l’avvio della ricostruzione. Tuttavia, restano nodi irrisolti, come la questione delle alture del Golan, che Israele non ha alcuna intenzione di restituire e che lo stesso al-Sharaa non è in grado di negoziare. Per quanto riguarda Riyad, invece, la normalizzazione passerebbe attraverso il riconoscimento di uno Stato palestinese e la revoca da parte israeliana delle misure unilaterali. In cambio, i palestinesi dovrebbero accettare un accordo che escluda Gerusalemme Est.

Abu Rumman ricorda un’intervista in cui al-Sharaa aveva definito Anwar Sadat «un uomo coraggioso» per aver firmato gli Accordi di Camp David del 1979. E conclude: «Ahmed al-Sharaa ha dimostrato un pragmatismo politico superiore a quello di molti leader arabi, prendendo decisioni inaspettate che hanno superato ogni barriera ideologica e politica. Non sarebbe dunque sorprendente, in determinate circostanze, se arrivasse a firmare un accordo di pace con Israele. Paradossalmente, la dottrina salafita si mostra oggi più pragmatica di quella dei Fratelli Musulmani».

Sulla testata libanese filo-saudita Asasmedia, il giornalista Amine Qammourieh sottolinea come il processo di normalizzazione e la riconfigurazione del Medio Oriente immaginata da Israele non si realizzerà così facilmente come spera Netanyahu: «Il Medio Oriente non è un appezzamento di terreno che Netanyahu ha ereditato da suo padre […]. I Paesi arabi più rilevanti, in particolare Egitto e Arabia Saudita, non hanno ceduto la leadership regionale a Israele. Il Cairo respinge il trasferimento forzato dei palestinesi nel Sinai, mentre Riyad mantiene come condizione imprescindibile per la normalizzazione la creazione di uno Stato palestinese».

Sempre su Asasmedia, il giornalista Nabil Amru scrive di una possibile normalizzazione siriana imposta secondo condizioni saudite. A suo avviso, «il nuovo governo siriano, accolto positivamente a livello regionale e internazionale, non è ancora pronto a compiere un passo così decisivo come la normalizzazione, che molti considerano un suicidio politico anticipato». Amru afferma che se Trump dovesse continuare a spingere per la normalizzazione, dovrebbe farlo tornando allo spirito originario degli Accordi di Abramo con l’Arabia Saudita: «Una soluzione accettabile per la questione palestinese è l’unica strada percorribile per risolvere i conflitti regionali. La normalizzazione con i Paesi arabi non ha prodotto né stabilità né pace. Questa condizione non deve valere solo per l’Arabia Saudita, ma anche per la Siria e per tutti gli altri Paesi di cui Trump annuncia la prossima normalizzazione». L’autore conclude evidenziando che l’unica opzione efficace per una normalizzazione reale è «risolvere la questione palestinese, ed è proprio a questo che si allude implicitamente, senza però proporre alcun piano concreto per realizzarlo».

Diverso è il tono usato dal giornalista palestinese Khaled Barakat sul quotidiano libanese al-Akhbar, vicino a Hezbollah. Barakat appare isolato rispetto ai commenti su una possibile normalizzazione tra Damasco e Tel Aviv, concentrando la sua attenzione esclusivamente sulle alture del Golan e sulla necessità della loro liberazione. Scrive: «L’occupazione sionista del territorio siriano non è meno grave di quella della Palestina. Eppure, all’interno della Siria, questo tema è quasi ignorato, come se fosse un territorio irrecuperabile». E aggiunge: «La resistenza nella regione ha una responsabilità fondamentale in questo, poiché occorre guardare al regime di Damasco con lo stesso occhio critico con cui guardiamo all’Autorità di Oslo a Ramallah».

Secondo Barakat, la scelta della resistenza e della liberazione «riporta la bussola nella giusta direzione, e restituisce al popolo siriano il suo ruolo storico come forza centrale nella battaglia della nazione contro il nemico sionista». Il giornalista conclude poi con toni decisi: «La resistenza per la liberazione non ha bisogno del permesso di nessuno: è un dovere nazionale e un diritto autentico per tutti i siriani, individualmente e collettivamente”.

In questi scenari, l’attenzione di diversi osservatori preoccupati si sposta anche sul Libano, percepito come potenziale anello debole o zona cuscinetto del nuovo ordine regionale. Su al-Arabi al-Jadid, il giornalista libanese Yaqzan al-Taqi riflette sull’incapacità di Beirut di elaborare una posizione chiara rispetto alle nuove dinamiche in atto. Il Paese – scrive – si trova di fronte a una “roadmap” americana consegnata dal delegato speciale per la Siria, Thomas Barak, che invita il Libano a rimanere neutrale, migliorare i rapporti con Damasco e attuare riforme economiche e finanziarie urgenti.

Tuttavia, secondo al-Taqi, manca lo “slancio” politico necessario per rispondere a queste richieste: «Il Libano non è ancora qualificato per unirsi alla stagione della pace nel “nuovo Medio Oriente”, e non ha molto da offrire nei partenariati regionali in formazione». Sullo sfondo, restano senza soluzione le tensioni legate all’armamento di Hezbollah, all’assenza di una strategia unitaria di governo e all’ambiguità del contesto internazionale: «Non c’è un piano chiaro su cosa fare se si aprisse un confronto tra Stati Uniti, Iran e la nuova Siria».

Anche Edward Gabriel, presidente della American Task Force on Lebanon, scrive sulla testata saudita al-Sharq al-Awsat che, a differenza di quanto sta accadendo in Siria e nel Golfo, il Libano non è ancora riuscito a compiere passi concreti, nonostante alcuni sviluppi favorevoli tra cui l’indebolimento di Hezbollah, il cessate il fuoco con Israele e il ridimensionamento dell’influenza iraniana. Gabriel osserva che, se Donald Trump – «un uomo impaziente» – dovesse percepire esitazioni o ritardi nei processi di disarmo, sposterà rapidamente le sue attenzioni verso contesti più reattivi. In uno scenario di normalizzazione tra Israele e Siria, l’autore avverte: «il Libano rischia di trasformarsi in una zona cuscinetto, o peggio ancora in uno spazio di guerra». L’articolo si conclude con un monito: «La regione sta cambiando rapidamente, e questa è un’occasione unica per il Libano per preservare il sostegno internazionale, ricostruire lo Stato e rafforzare le proprie forze armate. Se vuole essere incluso nei piani di pace regionale, deve accogliere le proposte americane».

 

Tra Israele e Iran la guerra non è finita [a cura di Chiara Pellegrino]

I media arabi continuano a riflettere anche sugli effetti della guerra dei dodici giorni. Il 24 giugno, giorno in cui Donald Trump ha annunciato un accordo di cessate il fuoco tra Iran e Israele, segna «la fine di una battaglia, ma non della guerra», osserva il politologo tunisino Khaled El Tarawili su al-Jazeera. Dodici giorni sono sufficienti a decretare l’esito di uno scontro sul piano tattico, ma non ne definiscono il corso strategico. Tutte le parti in causa hanno rivendicato la vittoria, misurandola in termini di distruzione inflitta e resistenza opposta, prosegue l’articolo. Ma la vera posta in gioco non sta nei danni visibili, bensì nella capacità di influenzare nel lungo periodo gli equilibri politici e militari: ed è qui che si gioca la differenza tra una battaglia e una guerra. La tattica può vincere sul campo, ma è la strategia a decidere chi prevale davvero. E in questa guerra dei dodici giorni, la dimensione strategica è rimasta nell’ombra, conclude El Tarawili.

Paradossalmente, scrive sullo stesso quotidiano Mahmoud Allouch, «questa guerra potrebbe essere il preludio di scontri più seri in futuro». Il conflitto infatti «ha infranto le barriere psicologiche che finora avevano impedito lo scontro diretto, rendendo possibile una nuova guerra in futuro». Dal 7 ottobre 2023 la contrapposizione tra Iran e Israele, prosegue l’articolo, si è evoluta rapidamente, passando dallo scontro per procura alla guerra aperta.

In un articolo pubblicato su al-‘Arabi al-Jadid, quotidiano panarabo di proprietà qatariota, Ghazi al-‘Aridi riflette invece sul ruolo crescente assunto dal Qatar negli ultimi anni, definendolo «il piccolo Paese dal grande ruolo». Grazie a una strategia diplomatica efficace, scrive il giornalista libanese, Doha è riuscita a valorizzare il proprio potenziale, affermandosi come mediatore credibile in numerose crisi internazionali, da ultimo nella guerra dei dodici giorni. L’articolo ripercorre i successi diplomatici del piccolo emirato, dalla mediazione tra l’Afghanistan e gli Stati Uniti, al negoziato per il rilascio dei soldati libanesi rapiti da Jabhat al-Nusra nel 2015 e delle suore sequestrate nel nord della Siria nel 2011, fino allo scambio di prigionieri tra Stati Uniti e Iran (2023), e alla mediazione del cessate il fuoco a Gaza. Il Qatar, conclude l’articolo, è «un esperimento importante nell’arte della gestione delle crisi; svolge un ruolo di mediazione pacato, a volte lontano dai riflettori, e ottiene successi, sorprese e accordi». Il ruolo che ha saputo ritagliarsi supera di gran lunga la sua modesta estensione geografica, grazie a una diplomazia paziente e ben orchestrata, conclude al-‘Aridi.

Sul quotidiano filo-emiratino al-‘Arab, il giornalista tunisino Mukthar al-Dhibabi elogia invece l’abilità dell’Arabia Saudita, che ha mantenuto aperto il dialogo con Teheran finendo per uscire rafforzata dalla guerra dei dodici giorni: «Le posizioni saudite, prima, durante e dopo il conflitto, sono rimaste invariate. Il criterio adottato è stato quello di salvaguardare i propri interessi e i risultati raggiunti nel dialogo con l’Iran». Sebbene Washington abbia cercato di isolare Teheran, Riyad ha scelto di mantenere i canali aperti in virtù della logica regionale per cui «la prossimità geografica impone ai due Paesi la costruzione di relazioni dirette, che a loro volta contribuirebbero a ridurre le tensioni confessionali nella regione». La leadership saudita, conclude l’articolo, «è riuscita a chiudere uno dei dossier più preoccupanti, che minacciavano di ostacolare il percorso di grande trasformazione interna del Regno, alla luce della visione del principe ereditario. Inoltre, ha saputo proteggere e garantire il futuro dei sauditi e dell’intera regione nel lungo periodo, prevenendo la rinascita di inimicizie settarie e confessionali».

Sul quotidiano emiratino al-Ayn al-Ikhbariyya, il giornalista Ahmed Saeed al-Aloui sottolinea l’importanza della moderazione adottata dai Paesi del Golfo: una scelta che riflette «la maturità politica sviluppata nel tempo, fondata sulla consapevolezza che un confronto diretto con l’Iran non porterebbe alcun beneficio, e che la sicurezza del Golfo non può costruirsi sulle macerie di altri Stati». Tuttavia, l’attacco iraniano alla base americana in Qatar ha rappresentato, secondo al-Aloui, una rottura della fiducia: «L’Iran è pronto a trattare i suoi vicini come partner regionali e strategici anziché come avversari?» – si domanda al-Aloui. Le porte «restano aperte per chi rispetta la sovranità dei Paesi del Golfo e comprende che gli interessi comuni devono essere gestiti con trasparenza. Ma ci chiediamo se l’Iran abbia il coraggio politico di abbandonare la logica di milizie, missili e provocazioni, per intraprendere finalmente un percorso di cooperazione regionale», conclude l’articolo.