Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 12/12/2025 14:42:07

Lo scorso 8 dicembre i siriani hanno celebrato il primo anniversario della caduta del regime di Bashar al-Assad. I giornalisti arabi fanno il punto sull’esperienza di governo del nuovo presidente Ahmed al-Sharaa, le relazioni di Damasco con gli Stati vicini e il futuro che attende il Paese. Tra le penne arabe sembra prevalere un sentimento di grande cautela e prudenza.

Su al-Quds al-‘Arabi l’attivista siriano e già oppositore del vecchio regime Yassin al-Hajj Saleh dipinge un quadro abbastanza pessimista di un Paese che, per certi versi, gli ricorda la vecchia Siria degli Assad. Damasco «ha bisogno di nuovi assetti politici che rispondano alla sua società plurale e garantiscano la rappresentanza dei siriani su tre livelli: l’autorità centrale, che deve assicurare uno Stato di diritto anziché uno Stato confessionale; le autorità locali e infine il pluralismo politico». Questi tre punti tuttavia «non sono realizzabili nello Stato attuale, la cui composizione confessionale favorisce il radicamento delle fratture sociali e settarie più che la loro risoluzione». Il vuoto politico in Siria, prosegue l’articolo, è compensato dall’adesione a forze di sicurezza o confessionali, come accadeva durante l’era di Assad e come si osserva oggi a Suwaida e nella Jazira, nel nord-est del Paese. «La logica è chiara: o ci sono forze politiche che trascendono le linee confessionali […], o prevalgono le formazioni armate confessionali». La nuova leadership «sembra essere una forza a guardia del vuoto politico più che una forza politica». Un partito politico, spiega al-Hajj Saleh, vive grazie all’esistenza di altri partiti, non da solo. «Il concetto stesso di partito unico è contraddittorio: nel momento in cui diventa unico, cessa di essere un partito e si trasforma in un’appendice dell’apparato di sicurezza o sicuritario-confessionale». Imporre un apparato di sicurezza repressivo a una società siriana così plurale porta inevitabilmente a tensioni esplosive. Basta osservare la realtà per rendersi conto che oggi il rischio è ancora maggiore per la proliferazione di armi, la fragilità politica, economica e sicuritaria del Paese, e la presenza di numerosi attori regionali e internazionali che interferiscono, conclude l’attivista.

«Nel primo anniversario della caduta del regime di Assad, Ahmed al-Sharaa non sa da dove cominciare», scrive Ridwan al-Sayyid sul giornale di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat. Le priorità del nuovo leader sono due: rilanciare l’economia e avviare la ricostruzione da un lato; reintegrare la Siria nel mondo arabo e nella comunità internazionale, dall’altro. Se sul fronte diplomatico i progressi sono evidenti, la ripresa economica è invece un percorso più difficile, lento e costoso. Al-Sharaa, prosegue l’articolo, deve inoltre affrontare due dossier delicati: la questione curda e la tensione con i drusi di Suwaida, «entrambi problemi seri perché riguardano l’unità del territorio e del popolo siriano». A questo si aggiunge il tema degli sfollati: più di un milione di persone sono già rientrate in Siria dalla Turchia, dalla Giordania e dal Libano. Un risultato importante, osserva al-Sayyid, perché «ritornare significa aver superato la paura e far prevalere l’amore per la patria sui problemi e le difficoltà». Ma il ritorno solleva la questione della ricostruzione: metà di coloro che sono tornati non ha più una casa abitabile e il Paese soffre di una grave carenza di scuole, elettricità e strutture sanitarie. Un’ulteriore sfida riguarda l’inquietudine che il nuovo governo, a maggioranza sunnita, suscita tra i Paesi vicini e soprattutto tra le minoranze. Il Libano e l’Iraq temono che la vittoria dei sunniti in Siria possa rafforzare le rivendicazioni sunnite in tutta la regione. Come nota al-Sayyid, «è difficile per gli sciiti al potere in Iraq e per il “duo sciita” in Libano adattarsi alla nuova realtà siriana, perché hanno perso una sfera d’influenza importante su cui avevano esercitato il controllo per anni a spese del popolo siriano».

Il rapporti della nuova Siria con il Libano preoccupano anche il giornalista libanese Yaqtan al-Taqi, che su al-‘Arabi al-Jadid scrive: «Le ferite del passato tra i due Paesi rimangono aperte». Le questioni spinose riguardano il ritorno dei rifugiati siriani, le controversie sui confini terrestri, le fattorie di Shebaa, la demarcazione dei confini marittimi e la situazione di centinaia di detenuti siriani nelle carceri libanesi, così come quella dei prigionieri libanesi scomparsi nelle carceri siriane. Le autorità siriane chiedono peraltro la collaborazione di Beirut per l’estradizione di esponenti dell’ex regime fuggiti in Libano e chiarimenti sul destino dei depositi siriani nelle banche libanesi durante il crollo finanziario del 2019, spiega al-Taqi. Tutto ciò si aggiunge a una storia controversa tra i due Paesi – la separazione doganale nel 1949, gli interventi militari, gli assassinii e il coinvolgimento siriano nella guerra civile libanese, il traffico di droga negli ultimi anni del governo di al-Assad – che ha segnato profondamente la memoria collettiva dei due popoli, prosegue il giornalista. «La storica mancanza di fiducia tra le due capitali, rende difficile intraprendere il percorso verso la guarigione della memoria, e i due Paesi rischiano di restare bloccati ciascuno nel proprio dolore e nel proprio modo di pensare». Beirut teme che sotto la guida del presidente Ahmed al-Sharaa Damasco non tratti da pari il Paese dei cedri, ma prosegua le politiche di Hafez e Bashar al-Assad, che hanno esercitato una forma di tutela sul Libano e sono stati responsabili di numerosi omicidi politici. Alcuni temono peraltro che il Libano, a lungo partner privilegiato dell’Occidente sul piano politico, economico e culturale, possa essere scavalcato dal nuovo regime siriano, che cercherà di rafforzare le relazioni con gli Stati del Golfo e Washington. In questo contesto, spiega ancora l’articolo, una parte della classe politica libanese, tra cui Hezbollah, teme un ritorno all’accordo siro-saudita del 2009 sul Libano. Infine, Riad e Washington potrebbero chiedere ad al-Sharaa, partner dell’iniziativa “nuovo Medio Oriente”, di farsi carico del dossier libanese in assenza di progressi sul disarmo del Paese.

I sunniti siriani vivono oggi «un’euforia politica che non hanno più conosciuto da quando il generale Henri Gouraud entrò a Damasco nel 1920, e che si riflette in slogan popolari come “Damasco è nostra fino al Giorno del Giudizio”», commenta lo scrittore e giornalista libanese Obada Alladan sulla piattaforma d’informazione Asas Media. Il successo sunnita in Siria continua però a mandare in confusione i libanesi, che «faticano a comprendere il pragmatismo che ha caratterizzato il gruppo dirigente, consentendogli di conquistare Tom Barrack [l’inviato americano per la Siria, NdR] più di tutti i politici libanesi messi insieme e di facilitare l'ingresso di al-Sharaa, con la sua lunga barba, alla Casa Bianca e lo scambio di doni con Donald Trump». L’ascesa dei sunniti a Damasco rappresenta un fatto inedito nella storia politica della regione. Per quanto le comunità sunnite del Libano siano da sempre legate alla Siria sul piano culturale, sociale ed economico, non hanno mai percepito la Siria come un modello politico da seguire, spiega Alladan. Anzi, durante l’era al-Assad, sono state spesso emarginate, sorvegliate o represse, mentre Damasco si appoggiava soprattutto alla comunità sciita libanese per consolidare la propria influenza. Per ironia della sorte, mentre i sunniti siriani ritornano oggi al centro del potere, i sunniti libanesi sembrano essere entrati in una parabola discendente: frammentati, indeboliti e privi di una leadership forte, conclude Alladan.

Prudente anche lo scrittore siriano Ali Qasim che sulle pagine di al-‘Arab riconosce i risultati ottenuti dall’amministrazione al-Sharaa nel suo primo anno, ma invita alla cautela, perché «il Paese sta affrontando sfide strutturali profonde, che minacciano di riprodurre i vecchi modelli di potere o di far precipitare il Paese in un nuovo caos». Le criticità sono tante: i costi della ricostruzione che superano i 216 miliardi di dollari, la distruzione o l’inagibilità di un terzo delle abitazioni e delle infrastrutture, e la fornitura di elettricità estremamente limitata persino nella capitale. Più del 90% della popolazione, prosegue l’articolo, vive sotto la soglia di povertà e oltre 16 milioni di persone dipendono dagli aiuti umanitari. Nelle aree rurali la carenza di servizi sanitari e scolastici continua a ostacolare il ritorno dei rifugiati. Anche sul fronte della sicurezza le tensioni rimangono acute: nel nord-est del Paese continuano a intermittenza gli scontri tra le Forze democratiche siriane e le fazioni sostenute dalla Turchia; lo Stato Islamico continua le sue attività nel deserto siriano sfruttando il vuoto di sicurezza, mentre a sud Israele intensifica i raid. Il protrarsi di queste tensioni, scrive Qasim, potrebbe consolidare zone di influenza – turca a nord, curda a est e israeliana a sud – indebolendo ulteriormente la sovranità centrale e complicando il progetto di ricostruzione statale. Anche la transizione politica resta fragile. La società civile reclama maggiore pluralismo e riforme, mentre la pesante eredità burocratica di decenni di governo di Assad frena i cambiamenti e alimenta il timore di un ritorno della corruzione e del clientelismo.