Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 05/09/2025 14:46:46
La stampa araba ha seguito con attenzione il vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, svoltosi a Tianjin con la partecipazione di una ventina di capi di Stato, soffermandosi in particolare sull’incontro tra Xi Jinping, Vladimir Putin e Narendra Modi, considerati i tre attori protagonisti del nuovo Sud globale. “Chi sta cospirando contro Trump?”, titola il quotidiano di proprietà qatariota al-Quds al-‘Arabi, per poi rispondere che non si tratta di complotti, ma di «una crescente tendenza globale di protesta contro le misure arbitrarie degli Stati Uniti e il crescente livello di aggressività americana nei confronti del resto del mondo». La situazione che si sta delineando in Oriente, prosegue l’articolo, è la diretta conseguenza della «prepotenza esercitata dagli Stati Uniti» in giro per il mondo: dall’Iran, «reso necessariamente un alleato della Cina, della Russia e della Corea del Nord dall’aggressione e dalla pressione che continua a subire dall’Occidente per chiudere il dossier nucleare», fino a Gaza, che rappresenta «l’esempio più folle e brutale del ruolo giocato dagli Stati Uniti». Trump, scrive il giornale, sembra «più entusiasta di occupare Gaza della cricca Netanyahu-Ben-Gvir-Smotrich», ciò che significherebbe intensificare il genocidio e pianificare lo sfollamento forzato della popolazione palestinese.
Sulla stessa testata, il politologo egiziano Amr Hamzawy riflette sulle implicazioni del vertice per il Medio Oriente. La competizione tra Stati Uniti, Cina e Russia – osserva – è ormai una componente geopolitica e geostrategica che condiziona profondamente la regione, dall’Iran, al Golfo, fino al Maghreb. Dopo i fallimenti in Afghanistan e Iraq, Washington ha progressivamente ridotto la propria presenza militare e diplomatica, mentre Pechino, spinta dal crescente fabbisogno energetico, ha rafforzato i legami economici con i Paesi arabi. I vuoti di potere e la crisi delle istituzioni statali in Siria, Libia e Sudan hanno inoltre favorito il ritorno della Russia, assente dal mondo arabo dalla fine dell’URSS. Questo assetto ha conosciuto però un’inversione di tendenza con lo scoppio delle guerre in Ucraina e a Gaza, che hanno spinto gli Stati Uniti a riattivare un intervento diretto – militare, politico e diplomatico – nel tentativo di contenere Mosca e Teheran, frenare Israele e rilanciare i negoziati israelo-palestinesi, anche in vista della normalizzazione con l’Arabia Saudita. Tuttavia, conclude Hamzawy, l’America si è scoperta debole: «I suoi strumenti militari, politici e diplomatici non sono più sufficienti per persuadere Israele a fermare la guerra, dissuadere l’Iran e i suoi alleati o avviare negoziati di pace seri». La Cina invece appare oggi più solida che mai: «Le loro azioni sono state guidate dal soft power, da una politica di riduzione dei livelli di conflitto a livello globale e regionale e dalla fiducia che le realtà economiche e commerciali avrebbero prevalso sulla politica. Né la guerra in Ucraina né quella di Gaza hanno modificato questa linea: Pechino ha prodotto un discorso equilibrato, invocato la de-escalation, la fine delle guerre, il rifiuto degli interventi militari e la ricerca di soluzioni diplomatiche orientate alla pace».
Il «vertice degli arrabbiati», come l’ha definito la giornalista libanese Susan al-Abtah su al-Sharq al-Awsat, mette a nudo le fragilità dell’Occidente: «La crisi non è nei Paesi orientali, che cercano un luogo sicuro tra le onde impetuose e i cicloni internazionali, ma in Occidente, dove cresce la paura di qualsiasi gruppo o blocco che non sia a trazione occidentale e che viene accusato di cospirazione». «La crescente sensazione di debolezza dell’Occidente è diventato un nuovo complesso, dopo che la percezione di eccesso di potere era stata la sua più grande catastrofe», conclude al-Abtah.
Secondo Amir Taheri (giornalista iraniano, penna di al-Sharq al-Awsat), la nascita di un nuovo polo a trazione cinese non deve essere letta come provocazione all’America, ma è la realizzazione della «Dottrina Nixon», che prevedeva la creazione di diversi «centri di stabilità» attorno a uno o due Stati potenti, con l’obiettivo di mantenere la pace e la sicurezza nella loro regione. Con questo sistema, gli Stati sarebbero in grado di risolvere autonomamente le proprie controversie, evitando conflitti militari e l’intervento di potenze esterne. Quanto alla parata militare di Pechino, interpretata in Occidente come segnale delle ambizioni di Xi di sostituirsi a Washington, prosegue Taheri, può essere letta più semplicemente come un modo per «rivendicare un posto al tavolo dei grandi» del mondo. Attraverso la parata Xi ha voluto veicolare un messaggio profondo: «Ha celebrato il ruolo cinese nella “sconfitta del fascismo” durante la Seconda guerra mondiale, unendosi così, per la prima volta, alla narrazione che aveva portato gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica, la Gran Bretagna, la Cina prima di Mao e la Francia a guidare il nuovo ordine mondiale attraverso la Nazioni Unite». Il leader cinese, prosegue il giornalista, «sembra aver superato l’amnesia storica imposta da Mao Zedong con i suoi famosi slogan “Distruggi il vecchio per costruire il nuovo” e “Dimentica il passato e immagina il futuro”». Oggi Xi punta a restituire alla Cina memoria e prestigio, riaffermandone lo status di potenza globale, conclude l’articolo.
Secondo il giornalista giordano Samer Ahmed, che scrive su al-‘Arabi al-Jadid, la parata militare incarna «la filosofia cinese che promuove un nuovo modello di ordine internazionale, basato non su conflitti, alleanze rivali o guerre fredde o non fredde, ma sull’integrazione tra gli Stati, fondata su rapporti equi, sul rispetto del diritto internazionale e sul perseguimento del beneficio comune nonostante le differenze culturali, i disaccordi politici e la competizione strategica. Questo perché ciò rappresenta la massima garanzia per il raggiungimento dello sviluppo e della pace globale come interesse comune». Il giornalista respinge l’idea che la parata contenesse un messaggio ostile a Washington, sottolineando che la Cina aveva invitato anche i leader occidentali, incluso Trump. È stata la loro mancata partecipazione a segnare una presa di distanza, rivelando la scelta dell’Occidente di «aggrapparsi a un ordine internazionale classista e ingiusto, come sostiene la Cina, basato sul linguaggio del monopolio, del ricatto e delle misure unilaterali. Loro non vogliono un ordine globale più giusto e inclusivo», conclude Ahmed.
Una voce fuori dal coro è invece Massar Rady, giornalista iracheno che su al-‘Arab smorza l’entusiasmo generale: «I sogni del Sud del mondo, interpretati dalla Cina, sono lontani. Questo Sud non dispone delle infrastrutture digitali e tecnologiche necessarie né della capacità di impiegare le proprie risorse con sufficiente rapidità in caso di potenziali conflitti futuri. La Cina può svolgere al massimo il ruolo di “Signor veto” alle Nazioni Unite e invitare coloro che sono danneggiati dall’ordine globale a bere una tazza di tè e ad ammirare il fiore di loto».