Rassegna stampa ragionata sul Medio Oriente e sul mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:28

Di cosa parliamo questa settimana:

 

  • morte del leader e del numero due di al-Qaeda
  • conflitto in Etiopia: c'è il rischio di coinvolgimento dell’Eritrea?
  • ritiro delle truppe americane dal Medio Oriente
  • situazione precaria in Somalia
  • fine del cessate il fuoco tra Marocco e Fronte Polisario

 

Durante lo scorso fine settimana è arrivata la notizia della morte del capo di al-Qaeda Ayman al-Zawahri e del numero due dell’organizzazione, Abdullah Ahmed Abdullah, responsabile degli attacchi alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998 e noto con il nom de guerre di Abu Muhammad al-Masri. La domanda che ora molti si pongono riguarda chi sarà il nuovo leader.

 

Ma andiamo con ordine e ricostruiamo gli eventi.

 

Venerdì sera, Hassan Hassan, giornalista esperto di jihad, ha twittato la notizia della morte di al-Zawahri, da tempo malato. Il successore di Osama bin-Laden sarebbe morto per cause naturali un mese fa. Poco dopo il New York Times ha pubblicato un’inchiesta sull’uccisione di al-Masri, avvenuta a Teheran il 7 agosto (data simbolo, visto che è la stessa degli attentati in Africa del 1998) per mano di agenti israeliani in collaborazione con gli Stati Uniti. L’Iran aveva detto che l’uomo ucciso era Habib Dauod, un professore di storia libanese membro di Hezbollah, e che insieme a lui era morta anche la figlia Maryam. La notizia sembrava plausibile, ma era totalmente falsa. Il 19 ottobre alcune fonti di al-Qaeda avevano rivelato che l’uomo ucciso era in realtà al-Masri, e la donna la moglie di Hamza bin Laden, figlio di Osama ucciso l’anno scorso. La notizia però era stata fatta sparire rapidamente dai forum e social jihadisti.

 

Dalla vicenda emergono diverse questioni. In primis, perché la notizia è stata confermata da al-Qaeda così in ritardo? Secondo Rita Katz, al-Qaeda ha voluto coprire la morte di al-Masri non tanto per timore di offendere  l’«ospitalità iraniana», ma per non mostrarsi debole sullo scenario globale.

 

Secondo fonti dell’intelligence israeliana, invece, «la rivelazione dell'assassinio di Abdullah Ahmed Abdullah, noto anche come Abu Mohammed al-Masri, vuole trasmettere un messaggio al Presidente eletto Biden, che intende rinnovare i negoziati con l’Iran. Israele vuole rappresentare Teheran come un incubatore di terrore per l’organizzazione responsabile degli attentati dell’11 settembre».

 

E qui entra in gioco la seconda questione: che ci facevano (e fanno) i leader del principale movimento jihadista sunnita in un Paese sciita, l’Iran? L’ha spiegato Daniele Raineri sul Foglio in articolo uscito sabato: «[…] l’Iran è anche un regime pragmatico che considera i nemici dei suoi nemici come possibili asset, anche se sono terroristi che ammazzano civili. Per asset s’intende: elementi che ti possono venire molto utili. Sulla storia di come l’Iran ha ospitato e ospita ancora gli uomini di al-Qaida c’è un libro di seicento pagine (“The Exile”) scritto da due giornalisti specializzati molto bravi che racconta tutto. Tra gli episodi che ricordo: quando uno dei capi più pericolosi (esperto nell’uso di esplosivi) e vicini a Bin Laden, Sayf al Adel, vuole nuotare, gli iraniani lo portano in una bella piscina della capitale frequentata anche da diplomatici occidentali, che così senza saperlo sono vicini di corsia con un ricercato internazionale che ha sulla testa dieci milioni di dollari di taglia».  

 

Per spiegare i rapporti tra al-Qaeda e l’Iran è utile un lungo report pubblicato dal Long War Journal. I rapporti tra al-Qaeda e la Repubblica islamica possono esser fatti risalire agli anni ’90, periodo in cui l’organizzazione terroristica si era rifugiata in Sudan. Fu Hassan al-Turabi, importante politico islamista sudanese a tessere i primi rapporti con l’Iran: «il Paese di Turabi funzionava come la cantina di Mos Eisley nell’originale Guerre stellari, che accoglieva i cattivi che cercavano di fare accordi tra di loro». Negli anni seguenti i quadri operativi di al-Qaeda viaggiarono in Iran per formarsi in materia di esplosivi, mentre più recentemente «i due hanno cooperato per minare l’autorità di Abu Muhammad al-Jawlani, il capo di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS)», in Siria.

 

Cosa ne sarà ora dell’organizzazione? Al-Masri sarebbe dovuto diventare capo di al-Qaeda alla morte di al-Zawahri. Il prossimo in linea di successione è Saif al-Adel ma è anche probabile che al-Qaeda abbia aggiornato la propria linea di successione negli ultimi mesi.

 

Daniel Byman (Brookings) sottolinea l’importanza del carisma del leader nello strutturare il brand globale di al-Qaeda. «[…] se il marchio globale di al-Qaeda rimane debole, ci sono meno incentivi per nuovi gruppi ad aderire e più incentivi per gli affiliati esistenti a disertare. Ancora più rilevante è il fatto che i gruppi locali potrebbero professare lealtà al nuovo leader ma poi nella pratica andare per la loro strada, un problema costante per al-Qaeda anche ai tempi di bin Laden».

 

Il conflitto etiope sconfinerà in Eritrea?

 

Il conflitto scoppiato in Etiopia lo scorso 4 novembre è in evoluzione, e la comprensione degli eventi è complicata dalla quasi totale assenza di giornalisti sul posto. Alcuni giornalisti locali sono stati arrestati e le agenzie di stampa estere sono state espulse. Domenica il conflitto è in parte sconfinato in Eritrea perché le forze del Tigrè hanno lanciato dei missili contro la capitale Asmara e sembra ci siano stati anche scontri al confine.

 

Più di 27.000 persone sono fuggite in Sudan, ma i tigrini hanno paura a scappare in altre regioni dell’Etiopia perché temono la violenza etnica nei loro confronti, scrive Associated Press. A questi timori il primo ministro e premio Nobel per la pace Abiy Ahmed ha risposto dicendo che «le persone del Tigrè saranno le prime a beneficiare» della caduta dei loro politici. La situazione in realtà pare essere drammatica, visto che dopo una recente carestia causata dalle locuste, i camion con i rifornimenti umanitari sono stati bloccati al confine e non hanno accesso alla regione del Tigray.

 

Sempre secondo le affermazioni del primo ministro, che ha rifiutato qualsiasi tentativo di mediazione internazionale, «l’ultima e fondamentale» operazione militare contro i Tigrè sarebbe stata lanciata contro Macallè, la capitale della regione. Successivamente l’Etiopia ha dichiarato di essersi effettivamente avvicinata alla città, ma resta difficile confermare le comunicazioni ufficiali che vengono da entrambe le parti.

 

Forse il premio Nobel per la pace ad Ahmed è stato assegnato un po’ troppo velocemente, hanno fatto notare alcuni. Il riconoscimento era stato assegnato per gli sforzi nel risolvere il conflitto con l’Eritrea, ma i leader tigrini credono che Asmara e Addis Abeba ora abbiano trovato un nemico comune nella popolazione tigrè. Sempre secondo i leader del TPLF, infatti, soldati eritrei stanno combattendo insieme all’esercito etiope. Il rischio che il conflitto si allarghi è quindi reale, in una regione, il Corno d’Africa, che è già fortemente  instabile: martedì almeno cinque persone sono morte per un attacco a Mogadiscio, la capitale della Somalia, poi rivendicato dal gruppo terroristico al-Shabaab.

 

Anche secondo William Davison esiste il potenziale per un’escalation: «Che si tratti o meno di una guerra civile può forse essere oggetto di dibattito. Ma mentre il governo federale gode di alcuni vantaggi e rivendica la sua esclusiva legittimità, si tratta comunque di due entità ben armate che si confrontano e la situazione potrebbe diventare molto più pericolosa».

 

Inoltre, anche il Sudan potrebbe avere un ruolo nel conflitto, scrive Foreign Policy. Khartoum avrebbe degli interessi a sostenere il TPLF «ma se il Sudan sostiene il Tigrè, che confina anche con l’Eritrea, la guerra civile diventerà certamente un affare prolungato, e le ricadute strategiche nelle relazioni di Khartoum con Addis Abeba e Asmara potrebbero essere troppo elevate. La regione potrebbe infatti tornare rapidamente allo stato di conflitto per procura che ha preceduto l’ascesa di Abiy e il crollo del regime dell’ex presidente sudanese Omar al-Bashir – o precipitare una più ampia conflagrazione regionale».

 

A questo punto potrebbe essere utile ripercorrere alcune delle tappe che hanno portato al conflitto odierno. Il Washington Post ha riassunto la storia delle relazioni tra Eritrea ed Etiopia e con la popolazione tigrè. René Lefort spiega come il primo ministro Abiy Ahmed abbia strumentalizzato la questione etnica: «A mio avviso, ha una responsabilità molto pesante per aver esacerbato la dimensione etnica di questo conflitto inviando amhara e forse presto anche truppe oromo a combattere contro i tigrini per sostenere l’esercito “nazionale” e quindi “non etnico”, con tutti i rischi di guerra civile che ciò comporta». Se fino a qualche tempo fa quindi non era chiaro che modello federale volesse adottare Abiy Ahmed, ora pare evidente che voglia inserire gli ahmara nei luoghi chiave e smantellare il federalismo etnico, propugnato dal TPLF.

 

Afghanistan, non è facile uscirne bene

 

È di lunedì la notizia che il presidente americano Donald Trump ha ordinato l’ulteriore riduzione delle truppe americane in Afghanistan, Iraq e Somalia, contrariamente ai consigli di alcuni capi militari americani. Tuttavia, questo non porrà fine alla presenza americana all’estero: sia in Iraq che in Afghanistan resteranno 2.500 soldati.  Il Washington Post sottolinea perciò che (non diversamente dai suoi predecessori) «[…] anche se Trump vince questa battaglia, sembra aver perso la guerra per riportare a casa i soldati americani».

 

Dopo l’annuncio, dei missili hanno colpito la Zona verde di Baghdad, mentre gli ufficiali afgani temono che questa decisione permetta ai talebani di prendersi il controllo del Paese. I negoziati di pace sono infatti in fase di stallo e hanno continuato a verificarsi offensive intorno alle città principali del Paese. D’altronde, leggiamo sul sito del MEI, «per i talebani, l’accordo di febbraio con gli Stati Uniti, che ha posto le basi per i colloqui intra-afgani, non riguardava tanto la negoziazione di un accordo di pace, quanto l’assicurazione dell’impegno americano a ritirarsi». Altri esperti hanno inoltre sottolineato che i talebani non hanno rispettato nessuna condizione che potrebbe giustificare un ritiro di truppe così massiccio.

 

Intanto nel Paese continuano a dilagare crimini, corruzione, rapimenti. Il governo afgano sta facendo di tutto per gestire la situazione e ottenere così l’ennesima donazione internazionale (necessaria più che mai in questo momento di incertezza), ma in realtà il potere centrale controlla solo poco più di metà del territorio afgano, scrive Foreign Policy. Il livello di violenza è insostenibile per i cittadini di Kabul e in alcuni casi la gente preferisce le misure repressive messe in atto dai talebani rispetto «al sistema giudiziario del governo, impantanato nel clientelismo».

 

Nei giorni scorsi un’inchiesta ha svelato dei gravi crimini compiuti dalle forze speciali australiane proprio in Afghanistan. Secondo quanto riportato da Reuters, le Australian Defence Force avrebbero ucciso 39 civili nell’ambito di una pratica chiamata blooding, una specie di rito di passaggio in cui i militari più anziani hanno costretto i più giovani a uccidere dei prigionieri per dimostrare di essere in grado di uccidere.

 

In un paragrafo

 

Somalia

 

Anche in Somalia la situazione è critica. Il ritiro americano lascerà la gestione della sicurezza, minata da al-Shabaab, al governo somalo, anche se è possibile che le forze americane vengano in realtà spostate a Gibuti e in Kenya, in modo da poter continuare a lanciare attacchi al gruppo terroristico. In ogni caso, «al-Shabab lo farà apparire come una vittoria», ha detto Omar Mahmood, analista dell’International Crisis Group al New York Times. Il ritiro favorirebbe anche Paesi come la Cina e la Russia, che negli ultimi anni hanno investito molto in Africa, ma metterebbe in difficoltà soprattutto la futura amministrazione Biden, che difficilmente potrebbe prendere la scelta impopolare di dispiegare nuovamente soldati americani all’estero. Questo vale per la Somalia, ma anche per i teatri in Iraq e Afghanistan.

 

Marocco

 

Venerdì scorso il Marocco ha lanciato un’operazione militare contro il Fronte Polisario, il movimento per l’indipendenza Sahrawi con il quale Rabat aveva siglato un accordo di cessate il fuoco nel 1991. La zona interessata è quella del Sahara occidentale, più precisamente El Guerguerat, «una zona cuscinetto che in base al piano di pace è sotto il controllo delle Nazioni Unite, in violazione dell’accordo militare del 1997 e del precedente cessate-il-fuoco. Dal 21 ottobre, il popolo saharawi bloccava per protesta il passaggio che da El Guerguerat permette di far transitare verso la Mauritania le preziose risorse del Sahara Occidentale, che il Marocco sfrutta illegalmente da decenni», leggiamo su Mondo e Missione. Jeune Afrique spiega invece come l’operazione si sia svolta in modo relativamente «pacifico, proporzionato e attento alla sicurezza dei civili».

 

In una frase

 

In Egitto è stato arrestato il direttore esecutivo dell’ONG per la quale lavorava Patrick Zaki, attualmente ancora in carcere, dopo l’arresto di altri due colleghi (Mada Masr).

 

Secondo Olivier Roy, nel conflitto del Nagorno-Karabakh, l’Armenia ha sbagliato a credere «nel mito della Russia cristiana» (Le Monde).

 

In Myanmar proliferano i ghetti per i musulmani (Il Reportage).

 

L’Arabia Saudita starebbe facendo pressioni affinché il Pakistan riconosca Israele (Haaretz).

 

Il presidente francese Emmanuel Macron ha chiesto ai leader musulmani francesi di stilare una lista di “valori repubblicani” ai quali dovranno attenersi (Middle East Eye).

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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