Quasi azzerato all’indomani della prima guerra mondiale, rifondato da Mustafa Kemal Atatürk e rilanciato definitivamente da Recep Tayyip Erdoğan, nel corso di un secolo il Paese anatolico si è affermato come un’influente potenza regionale

Ultimo aggiornamento: 28/12/2023 15:58:01

Fondata sui resti e sull’eredità viva di sei secoli di Impero ottomano, la Turchia si appresta a celebrare il suo centesimo anniversario. Il 29 ottobre 1923, Mustafa Kemal, futuro Atatürk, proclamò la Repubblica, dopo una lunga guerra di liberazione per scacciare le forze di occupazione. Partendo dalle rovine, se non dal nulla, il Paese di Atatürk è diventato nel corso di un secolo un attore di primo piano della scena regionale e persino internazionale. Questa sintesi si propone di dettagliare i fattori e i risultati di questa trasformazione.

 

Un isolazionismo imposto dalla necessità di costruzione nazionale

 

Per capire la Turchia contemporanea è necessario considerarne l’esperienza nel contesto della sua storia ottomana. Potenza mondiale per molto tempo collocata a cavallo tra Europa, Asia e Nord Africa, l’Impero ottomano raggiunse il suo apogeo nel XVI secolo. Successivamente, declinò in una morte lenta che si protrasse per diversi secoli. Le riforme si susseguirono, ma senza risultato. Quelle avviate nel 1876 nel quadro del processo di modernizzazione noto come Tanzimat non riuscirono a fare di questo Stato una monarchia costituzionale, come speravano i riformatori dell’epoca. Alleato della Germania durante la Prima guerra mondiale, l’Impero subì il destino riservato agli sconfitti. La punizione fu estremamente pesante e il Paese venne di fatto annientato. Smise di esistere. Il suo territorio fu frazionato e suddiviso in zone di influenza tra diversi Paesi europei. Di questo vasto impero multietnico, il gruppo maggioritario dei turchi si vide assegnare un territorio limitato al solo altopiano anatolico, dal quale Mustafa Kemal sarebbe partito per costruire un Paese nuovo, la Turchia. Quest’influente militare dell’impero in declino, segnato dalle idee rivoluzionarie che circolavano a quell’epoca in Europa e nel suo Paese, si trasformerà in liberatore e politico, opponendosi ai tratti distintivi dell’impero, in particolare ai principi del sultanato e del califfato e, soprattutto, al posto dell’Islam all’interno dello Stato. Uomo visionario, abbracciò lo spirito repubblicano e progressista proveniente dall’Europa e si dedicò all’istituzione di una Repubblica fondata sul principio dello Stato-nazione. Per volontà punitiva dei vincitori del ’14-’18, l’Impero perse le province cristiane nei Balcani e le parti arabe orientali. L’Anatolia assegnata ai turchi era di fatto sempre meno multietnica e multiconfessionale: la Repubblica sarebbe stata quindi turca e moderna. Tra creazione di quest’ultima nel 1923 e la morte del suo fondatore nel 1938, avvenuta poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, la situazione interna ed esterna della nuova Turchia si configura come segue.

 

In politica interna, il regime di Mustafa Kemal si adoperò per costruire uno Stato-nazione d’ispirazione occidentale, facendo piazza pulita del regime imperiale. La lista delle riforme attuate in tutti gli ambiti è molto lunga. In economia, il Paese si dotò di un’agricoltura autosufficiente in grado di nutrire la popolazione. Nell’arco di un decennio videro la luce un’industria nazionale e una rete di trasporti che consentirono di collegare le grandi città, ma lasciarono la campagna ripiegata su sé stessa. A livello sociale, nel 1934 venne concesso alle donne il diritto di voto attivo e passivo, il codice di abbigliamento subì una rivoluzione imposta dall’alto e il Codice civile cessò di essere islamico per ispirarsi ai modelli europei. In politica, il sultanato fu abolito, così come il califfato e i tribunali islamici.

 

In politica estera, i primi anni della Repubblica si collocano in una sorta di continuità con la potenza ottomana. Sebbene la Repubblica contestasse le istituzioni imperiali, era comunque fondamentale preservare gli interessi della nazione. Atatürk inaugurò allora una politica di equilibrio: isolazionista per il tempo necessario a consolidare il regime repubblicano, tenne la Turchia a distanza e giocò sull’opposizione tra le potenze mondiali dell’epoca. Ciò significa che, oltre a cooperare con l’Unione Sovietica, che aveva sostenuto la guerra di liberazione del Paese, Ankara s’impegnò a sviluppare relazioni armoniose con le potenze occidentali, Francia, Germania e Stati Uniti.

 

Con l’avvicinarsi della Seconda guerra mondiale, l’obiettivo tattico era mantenere una certa neutralità, per consentire al Paese di continuare il processo di costruzione nazionale dopo tutti gli anni di guerra che avevano preceduto la sua fondazione. In seguito alla morte di Atatürk nel 1938, la sua visione fu portata avanti da Ismet Inönü, anch’egli eroe della Guerra di liberazione e compagno di strada di Mustafa Kemal. Inönü farà di tutto per mettere la Turchia al riparo dalla Seconda guerra mondiale, tenendosi saldamente aggrappato a una politica di neutralità. Nel tumulto globale, riuscirà a risparmiare l’ancora fragile Turchia. Tuttavia, nel 1945, l’ingresso di tutto il mondo nel sistema bipolare della Guerra Fredda, che contrapponeva l’URSS e i suoi alleati al blocco occidentale, lo costrinse a scegliere da quale parte stare. Decise senza esitazione di stare con l’Occidente. La politica espansionistica dell’URSS, soprattutto verso i mari del Sud, era infatti una riedizione di quella degli Zar. La Turchia trovò allora la sua salvezza nell’adesione al blocco occidentale, di cui, almeno in teoria, fa parte ancora oggi.

 

Un membro prezioso del blocco occidentale

 

Durante tutta la Guerra Fredda, la situazione politica interna fu caratterizzata da una forte instabilità politica e dalla fedeltà al blocco occidentale sulla scena internazionale. Effettivamente, tra il 1945 e il 1991 la Turchia sperimentò le ripercussioni turbolente della Guerra Fredda: diverse forze di sinistra filo-sovietiche si opponevano a correnti più nazionaliste o filo-occidentali. Questa forte instabilità di governo fu accompagnata da diversi colpi di Stato – nel 1961, nel 1971 e soprattutto nel 1980 – che trasformarono profondamente il Paese.

 

All’esterno, la Turchia era un pilastro fondatore e membro prezioso della NATO. Questa lealtà al blocco occidentale era motivata essenzialmente dall’interesse a contenere la grave minaccia sovietica a oriente. L’Unione Sovietica continuava a rivendicare le province di Kars e Ardahan e sosteneva segretamente diversi gruppi di sinistra, oltre alle attività eversive della sinistra separatista curda. L’appartenenza della Turchia al campo occidente, tuttavia, non era limitata alla NATO, visto che dal 1964 essa aspira a unirsi alla grande famiglia europea. Nel 1987 il Paese espresse ufficialmente il desiderio di far parte della CEE e poi dell’Unione Europea. Prigioniera della logica della Guerra Fredda, da cui dipendeva per la propria sicurezza, all’epoca la Turchia non esercitava una propria influenza sulla scena internazionale. Essa, infatti, non esisteva in quanto Turchia, ma in quanto Paese membro della NATO e base militare in cui venivano dispiegate risorse importanti per dissuadere l’URSS dall’attaccare il mondo libero. La fine della Guerra Fredda nel 1990 ha sparigliato le carte e la Turchia ha finito per presentarsi sulla scena internazionale con una sicurezza e una voglia d’indipendenza strategica che preoccupano gli alleati tradizionali.

 

L’emancipazione dalle maglie del bipolarismo

 

La fine della Guerra Fredda, come ogni cambiamento, generò ansia e allo stesso tempo opportunità, che la Turchia avrebbe saputo cogliere per liberarsi e affermarsi sulla scena internazionale. La fine della minaccia sovietica a Est rese quasi superflua la difesa del fianco orientale del mondo libero, e la Turchia, liberata da questa pressione, diventò un Paese qualunque, privo di valore geostrategico. Al contempo, però, questa realtà aprì delle nuove opportunità per la Turchia, soprattutto economiche, in regioni che erano storicamente vicine ma inaccessibili da quando era calata la cortina di ferro.

 

Ankara guardò innanzitutto ai Balcani, ex provincia dell’Impero ottomano. La Turchia era ormai in grado di dispiegarvi una politica di influenza in diversi ambiti, la cultura, l’economia e persino la politica. Questi Paesi, nonostante le loro storiografie negative verso il passato ottomano, continuavano infatti a chiedere cooperazione e sviluppo. Ad Est gli sguardi si rivolsero verso il Caucaso. La vicinanza geografica consentì ad Ankara di tessere legami con nuovi partner ormai liberi dal giogo sovietico. La Turchia si ritrovò perciò in competizione la Russia e l’Iran, due potenze regionali dal passato imperiale che da sempre hanno gli occhi sulle risorse caucasiche.

 

Ma è in Asia centrale, e più in particolare nel mondo turanico, che la Turchia post-Guerra Fredda è riuscita ad amplificare la sua politica d’influenza. Insieme ai cinque Stati da poco indipendenti nell’Asia Centrale e l’Azerbaigian nel Caucaso, la Turchia è riuscita infatti ad affermarsi come attore importante nello spazio post-sovietico, alternando le carte dell’identità turca e dell’Islam.

 

L’affermazione definitiva

 

A partire dal 2002, l’arrivo al potere di un governo proveniente dall’Islam politico, capeggiato da Recep Tayyip Erdoğan, ha giocato un ruolo cruciale nei cambiamenti della Turchia, aprendo la strada a una più grande influenza del Paese sulla scena internazionale. In effetti la nuova squadra, unendo islam e laicità, incarnava piuttosto bene le aspettative di una società turca che, pur essendo tradizionalmente musulmana e turca, aspirava anche a una certa modernità. Questo ha consentito alle élite dell’AKP di dare al Paese una stabilità politica e una prosperità economica inedite. Erdoğan e la sua squadra hanno vinto tutte le elezioni regionali, legislative e presidenziali tra novembre 2002 e maggio 2023, oltre al referendum costituzionale del 2017. Questa longevità e questa stabilità governativa hanno aiutato il Paese a compiere notevoli progressi economici, permettendogli di proiettarsi sulla scena internazionale. Così, nel 2010 la Turchia diventò la diciassettesima potenza economica del mondo. Al suo interno è emersa una classe media e il Paese è diventato, per riprendere l’espressione di Kemal Kirisçi, un «trading State» capace di muoversi su tutti i mercati del mondo. Facendo leva su questa prosperità economica, il Paese si è anche affermato come Stato generoso, tra i maggiori donatori ai Paesi in via di sviluppo, ciò che ha contribuito al suo prestigio in Africa e in Asia.

 

Queste spettacolari trasformazioni e questa influenza globale devono molto alla personalità stessa di Erdoğan, figura centrale della vita politica turca dal 1994, quando è diventato sindaco di Istanbul. In un Paese in cui il capo della capitale imperiale storica nonché capitale economica è di fatto il capo del Paese, Recep Tayyip Erdoğan, con il suo carisma, la sua politica visionaria e, paradossalmente, il suo polso e la sua ostinazione, ha giocato un ruolo fondamentale nei mutamenti della Turchia. Questo aspetto è difficile da percepire in Occidente, dove le figure autoritarie godono di cattiva stampa. Altrove, più particolarmente in Asia, nel mondo musulmano e in Africa, dove la Turchia è sempre più attiva, lo stile, l’eloquenza, il temperamento, e anche il machismo disinibito di Erdoğan, funzionano molto bene e servono gli interessi del Paese.

 

Forte dei suoi cambiamenti economici, della sua stabilità politica e di una leadership determinata, nell’arco di due decenni la Turchia è riuscita a diventare una potenza che conta sulla scena internazionale, in particolare nello spazio eurasiatico e in Africa.

 

Una nuova proiezione

 

È tuttavia bene notare che la Turchia, come tutte le potenze emergenti, al di là dei suoi sforzi trae beneficio dalla nuova realtà dell’ordine internazionale, in cui l’influenza delle potenze mondiali classiche sta retrocedendo. Gli Stati Uniti non sono più i padroni del mondo, la Russia non domina più la sua sfera sovietica, la Francia e l’Inghilterra non sono più le eredi dell’Africa coloniale e il loro neocolonialismo economico si sta sgretolando un po’ ovunque nel continente, devastato da una serie di colpi di Stato che colpiscono gli interessi europei. In altre parole, è anche alla luce del declino delle potenze tradizionali che dobbiamo studiare il posto occupato dalla Turchia e da altri attori sulla scena internazionale. Ma dal momento che il nostro studio è dedicato alla Turchia, vediamo dove essa può vantare una sfera di influenza o una certa affermazione politica, economica e culturale.

 

In appena trent’anni la Turchia è riuscita ad affermarsi come uno dei Paesi più importanti dello spazio post-sovietico, in particolare nel Caucaso e nell’Asia centrale. Essa non vi ha sostituito l’antico potere tutelare russo, ma la sua influenza, insieme a quella esercitata dai nuovi attori, Cina, Stati Uniti e Unione Europea, è ampiamente visibile. A livello politico, uno Stato caucasico, l’Azerbaigian, e quattro dei cinque Stati dell’Asia centrale – Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan e Turkmenistan – fanno parte di un’unione politica fondata e guidata dalla Turchia: l’Organizzazione degli Stati turchi, diventato un attore ufficiale della scena internazionale e riconosciuto dalle Nazioni Unite. Nel Caucaso, tradizionalmente è la Russia a dettare l’agenda, ma il recente conflitto nel Nagorno-Karabakh ha sparigliato le carte, attribuendo alla Turchia un maggior peso nell’attuale gioco geopolitico. La sua affermazione nella guerra azerbaigiano-armena, con il sostegno fornito all’Azerbaigian, le ha conferito una nuova capacità di influenza politica e anche militare in tutto lo spazio post-sovietico, nel Caucaso, nell’Asia centrale e persino in Ucraina, conflitto attraverso il quale Ankara si è posta come mediatore internazionale.

 

Effettivamente, è nella guerra in Ucraina che la Turchia si è distinta maggiormente negli ultimi anni. Per quanto diffidente e vulnerabile nei confronti della Russia, essa non ha esitato a fornire il suo sostegno all’Ucraina fin dalla crisi del Donbass nel 2014 e ancora più dal febbraio 2022. Mentre l’Occidente ha rotto completamente con la Russia, la Turchia continua a mantenere i legami con i due Paesi protagonisti di questo conflitto, che ha riacceso una nuova forma di Guerra Fredda tra il mondo occidentale e la Russia. L’azione mediatrice turca, in particolare l’accordo sul grano firmato tra Russia e Nazioni Unite, che garantisce a molti Paesi del Medio Oriente e dell’Africa l’accesso ai cereali ucraini, ha aumentato la visibilità della Turchia sulla scena internazionale.

 

In Medio Oriente, regione verso la quale Mustafa Kemal Atatürk aveva mostrato una totale indifferenza per non dire disprezzo, l’impegno turco non ha fatto che crescere dagli anni ’90, al tempo della presidenza di Turgut Özal, e poi sempre di più con Recep Tayyip Erdoğan. Per quanto la Turchia non sia riuscita a rappresentare un modello di sviluppo liberale e laico per il mondo arabo sconvolto dalle Primavere arabe, essa continua a essere fonte d’ispirazione per molte forze politiche in questo spazio.

 

Tuttavia, è in Africa che la proiezione turca fa più impressione, per la sua novità, per la velocità con cui progredisce e per le prospettive eccezionali del suo potenziale sviluppo. È infatti sotto il governo dell’AKP, con l’impegno personale di Erdoğan, che l’influenza turca ha oltrepassato il Nord Africa e si è diffusa nella zona sub-sahariana e poi in tutto il continente, nell’ambito economico e politico ma anche a livello di soft power. Forte di questa spinta, la Turchia sviluppa ormai anche la cooperazione militare e sicuritaria. È infatti coinvolta nell’addestramento degli eserciti locali, per esempio in Somalia. Impiega la diplomazia dei droni, che i Paesi della regione accolgono con vivo interesse. Nonostante le proteste antifrancesi, la Turchia è ancora lontana dal competere con l’influenza della Francia ma, insieme alla Cina, al Brasile, all’India e ad altri Paesi emergenti, permette agli attori africani di diversificare le loro partnership e liberarsi dalle catene del neocolonialismo. Anche in questo caso, il successo della Turchia non dipende soltanto dalle sue prestazioni, ma è legato anche a una nuova realtà africana dove sovranismo e contestazione dei neocolonialismi diminuiscono il peso delle potenze tradizionali a vantaggio di quelle nuove, di cui la Turchia fa parte.

 

Infine, e un po’ inaspettatamente, negli ultimi dieci anni la Turchia ha sviluppato rapporti con l’America Latina. Come in altri contesti, anche qui questi si materializzano in particolare attraverso la politica islamica di Recep Tayyip Erdoğan, che costruisce moschee e fornisce aiuto e sostegno ai musulmani di tutto il mondo. In diversi Paesi del Sud America, così come a Cuba, moschee e fondazioni islamiche sono finanziate dalla Turchia.

 

Conclusione

 

Nell’arco di un secolo di vita, è emersa e ha prosperato una repubblica nazionale e turca, laica e moderna, capace di affermarsi sulla scena internazionale. Questo traguardo è da attribuire certamente ai suoi fondatori e ai leader successivi, ma anche all’abile recupero della prestigiosa eredità ottomana, nella quale si radicano l’orgoglio nazionale e la sicurezza del regime e dell’intero Paese. Questo successo è anche legato allo sgretolamento del vecchio ordine internazionale, che oggi favorisce l’ascesa di medie potenze come la Turchia. Il modo in cui quest’ultima saprà conservare e sviluppare il suo nuovo ruolo dipenderà anche dalla sua capacità di affrontare in maniera serena l’era post- Erdoğan, il cui regno, che dura da 21 anni, finirà nel 2028.

 

 

 

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